Riforma della Chiesa /9: leadership

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Quando nelle comunità cristiane si parla di riforma della Chiesa, solitamente si fa riferimento al tentativo di rinnovare la vita spirituale dei credenti, soprattutto dei pastori, in modo che essi divengano più capaci di vivere la bellezza del Vangelo, di dar vita a comunità autenticamente cristiane e di avvicinare persone non credenti alla fede in Cristo.

In realtà, dal punto di vista ecclesiologico, l’azione riformatrice consiste in qualcosa di molto più radicale, ovvero nel cambiamento dei paradigmi teologici e pastorali correnti e nella conseguente revisione di quelle strutture che non risultano più sintoniche con le esigenze della missione ecclesiale.

Ogni riforma è un ritorno agli inizi

Ovviamente questa trasformazione profonda, se è in sintonia con il disegno divino, è sempre il frutto di un ritorno all’inizio, cioè del riscoprire e vivere con maggiore fedeltà quell’identità ecclesiale che è attestata nelle Scritture e nella più ampia Tradizione ecclesiale.

Eppure, questa riscoperta delle origini non è qualcosa di paralizzante, ma al contrario tende a produrre cambiamenti rilevanti sia nella dottrina della fede sia nell’organizzazione delle comunità cristiane. Basti pensare, ad esempio, ai numerosi sviluppi che il Vaticano II ha introdotto sia nell’ambito dottrinale sia in quello pastorale.

Proprio a riguardo di questo tipo di riforma, il padre Congar scrive alcune considerazioni molto interessanti relative a chi possa realmente portarla avanti: «Una riforma di questo tipo richiede non solo il ricorso a norme più rigorose di quelle necessarie per correggere degli abusi, ma anche la scoperta di energie fresche. È difficile immettere uno spirito nuovo in vecchie istituzioni. Il peso dell’abitudine è troppo pesante. […] Quando ciò che è richiesto è un nuovo spirito, il rinnovamento di un intero sistema, e non semplicemente la correzione di abusi, sarà spesso necessario chiamare in campo nuovi leader. Coloro che sono cresciuti all’interno di un sistema sono spesso prigionieri di quel sistema. Non hanno né il desiderio né le idee necessarie per mettere in questione lo status quo.» (Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano 1972, 146, traduzione rivista).

In effetti, se per realizzare una riforma di tipo spirituale possono bastare maturità personale e competenze, per portare avanti un cambiamento più radicale che tocca anche le strutture delle comunità cristiane – ruoli, attività, regole ecc. –, sembra davvero auspicabile la sostituzione dell’attuale leadership con figure nuove, con outsider capaci di immaginare forme di vita ecclesiale e di prassi pastorale che non siano necessariamente una replica dei modelli del passato.

Le doti di un riformatore

Eppure queste osservazioni di Congar, per quanto paiano sensate, aprono le porte ad una serie di questioni molto complesse legate al modo in cui si dovrebbero identificare i nuovi leader che avrebbero il compito di realizzare una riforma ecclesiale. Cercarli tra persone giovani oppure tra coloro che non hanno mai avuto responsabilità pastorali significative comporta il rischio di valorizzare persone non sufficientemente solide o esperte. Reperirli tra coloro che hanno già svolto un servizio di guida significa probabilmente sostituire l’attuale leadership con un’altra molto simile che non sarà in grado di realizzare effettivi cambiamenti.

Inoltre, si rischia di scegliere persone molto intelligenti e preparate sul piano delle idee teologiche e pastorali, ma che poi non sono in grado di accompagnare il cammino di queste idee nel vissuto di una comunità cristiana e quindi di produrre un effettivo rinnovamento, ad esempio a causa di una forte indecisione o di un’incapacità a gestire situazioni conflittuali.

Per usare un’immagine, un vero riformatore deve essere sia un architetto che un capo cantiere, cioè qualcuno che sa fare dei progetti teorici ma che poi ne accompagna la realizzazione interagendo faticosamente con tutte le persone in gioco, anche quelle più marginali.

Chi disdegna questo aspetto più pratico come qualcosa di troppo banale per il proprio spessore intellettuale o lo evita con fastidio perché non è in grado di farsene carico, non può essere un vero riformatore. Potrà diventare uno studioso di fama, ma non sarà mai un leader in grado di produrre dei cambiamenti effettivi nella sua comunità.

Non solo pensare ma anche realizzare

Purtroppo, nella Chiesa vi è ancora la radicata convinzione che le idee – e quindi i documenti che le raccolgono – siano in grado di cambiare le persone e le strutture ecclesiali. In realtà, chi ha lavorato in una qualsiasi organizzazione di una certa complessità sa bene che la sola progettualità teorica è insufficiente per realizzare delle trasformazioni effettive, e come invece sia necessario interagire a livello personale, cioè accompagnare le persone interessate a cogliere progressivamente il valore del cambiamento proposto e a realizzarlo.

È questo aspetto che rende il ministero pastorale molto oneroso in termini di tempo, e che lo differenzia da un servizio di consulenza che entra in gioco solamente al bisogno o per chiarire gli aspetti teorici di una questione.

Queste riflessioni critiche sul passaggio del padre Congar non vogliono sminuirne il valore, ma semplicemente evidenziare come l’emergere di una vera riforma è il frutto di una sorta di alchimia tra le qualità personali di un riformatore – creatività, competenza e resilienza – e un contesto ecclesiale disposto a dare fiducia a persone un po’ audaci pur di darsi una forma più evangelica. In altri termini, la vera riforma è un dono prezioso e fragile che viene solo da Dio, e che solo Dio può custodire dalle inevitabili resistenze che tendono a paralizzarlo e a renderlo infecondo.

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Un commento

  1. Fabio Cittadini 24 maggio 2023

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