I ruoli nella comunità /1

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Dal 27 settembre 2020 al 3 giugno 2021, don Massimo Nardello, teologo modenese, con cadenza mensile, ha curato la serie di articoli che vanno sotto il titolo di “La leadership nella Chiesa”. Nove in tutto. Lo stesso autore continuerà a indagare nella “Regola pastorale” di papa san Gregorio Magno per ricavare altri insegnamenti utili per la comunità ecclesiale. La nuova serie ha per titolo “I ruoli nella comunità”.

Uno dei dibattiti di più basso profilo che emergono periodicamente all’interno delle comunità cristiane è quello che mette a confronto in modo banale e generico la necessità di difendere la verità e quella di tutelare la carità.

Da una parte, qualcuno sostiene che – come cristiani – dovremmo ribadire i contenuti dottrinali relativi alla fede e alla morale cattolica in modo trasparente e chiaro, non mancando di stigmatizzare puntualmente quelle situazioni o quegli orientamenti che li smentiscono, e senza paura di essere criticati o di veder ridursi ulteriormente i partecipanti alle attività ecclesiali.

Un parlare meditato

All’opposto, non mancano coloro che ritengono che il tema della verità sia oggi inutile e incomprensibile, dal momento che ciascuno si costruisce autonomamente i propri riferimenti valoriali, e che il cristianesimo debba giocarsi sull’aiuto al prossimo e su esperienze spirituali ricche di emozioni e povere di idee.

In realtà, è proprio l’esigenza della carità che impone sia di tutelare la verità del Vangelo sia di comunicarla in modo rispettoso delle opinioni altrui e dei percorsi delle persone, le quali devono essere accolte e aiutate a crescere nella fede anche se in una certa fase della loro esistenza non possono capire o vivere tutti gli aspetti della vita cristiana.

Eppure, nonostante la soluzione sia a portata di mano, i dibattiti ecclesiali sul rapporto tra verità e carità spesso non portano molto lontano. La ragione è che non di rado la propensione per un determinato orientamento più perentorio o più dialogico non dipende tanto dalla questione in campo, ma dallo stile personale e dalle proprie immaturità, che non si superano a seguito di una semplice discussione. Tutto questo vale anche per i leader delle comunità cristiane.

Cosa dice la “Regola pastorale” di papa Gregorio

Proprio su questo punto Gregorio Magno ha scritto un passaggio molto interessante nella sua Regola pastorale che risulta prezioso anche per noi: «La guida delle anime sia discreta nel suo silenzio e utile con la sua parola affinché non dica ciò che bisogna tacere e non taccia ciò che occorre dire. Giacché come un parlare incauto trascina nell’errore, così un silenzio senza discrezione lascia nell’errore coloro che avrebbero potuto essere ammaestrati.

Infatti, spesso, guide d’anime improvvide e paurose di perdere il favore degli uomini hanno gran timore di dire liberamente la verità; e, secondo la parola della Verità, non servono più alla custodia del gregge con lo zelo dei pastori ma fanno la parte dei mercenari (cf. Gv 10, 13), poiché, quando si nascondono dietro il silenzio, è come se fuggissero all’arrivo del lupo. […] Ma quando la guida delle anime si prepara a parlare, ponga ogni attenzione e ogni studio a farlo con grande precauzione, perché, se si lascia trascinare a un parlare non meditato, i cuori degli ascoltatori non restino colpiti dalla ferita dell’errore; e, mentre forse egli desidera di mostrarsi sapiente, non spezzi stoltamente la compagine dell’unità. […]

Inoltre, le guide delle anime debbono provvedere con sollecita cura, non solo a non fare assolutamente discorsi perversi e falsi, ma a non dire neppure la verità in modo prolisso e disordinato, perché spesso il valore delle cose dette si perde quando viene svigorito, nel cuore di chi ascolta, da una loquacità inconsiderata e inopportuna. Questa medesima loquacità, poi, che è certamente incapace di servire utilmente gli ascoltatori, contamina anche colui che la esercita» (Gregorio Magno, Regola pastorale, II, 4).

Le due derive

È interessante che Gregorio tratti insieme due derive dello stile del leader ecclesiale, quella della pavidità e quella dell’impulsività, senza dare il primato all’una o all’altra.

Anzitutto, stigmatizza l’atteggiamento del pastore che non orienta e non forma la coscienza dei fedeli annunciando loro la parola di Dio anche quando questa è sgradita, ardua, o pone istanze che sono anticulturali.

Si tratta di uno stimolo molto importante, dal momento che anche ai nostri giorni – pure nell’ambito della riflessione teologica – non mancano proposte che valorizzano la Tradizione di fede della Chiesa in modo rapsodico, cogliendone quei soli aspetti che risultano sintonici e stimolanti per le proprie convinzioni e ignorando quelli che paiono sgradevoli in nome della libertà dell’interpretazione.

Tuttavia – sembra dire Gregorio – la fortezza del pastore deve essere accuratamente distinta da quell’impulsività che porta a proferire parole non meditate, superficiali, che quindi spezzano “la compagine dell’unità” perché offrono risposte unilaterali o banali a questioni complesse, accendendo inutili e interminabili conflitti nella comunità.

Purtroppo, quando una persona ha molta rabbia dentro di sé e non ha imparato a gestirla, rischia continuamente di usare le sue parole per sfogarla, soprattutto se il suo ruolo di leader gli pone spesso in mano un microfono.

In alcune circostanze, questa rabbia potrà portare a proclamare in modo coraggioso la parola di Dio, ma il più delle volte avrà effetti molto meno edificanti. Da questa aggressività nasceranno discorsi prolissi e disordinati, frutto non di un parlare meditato, ma del bisogno di attaccare il nemico di turno, persona o idea che sia. In realtà, chi non riesce a fare a meno di un avversario da combattere – sia esso di destra o di sinistra, progressista o conservatore – non è affatto una persona forte, ma un individuo molto fragile che proprio per questo ha bisogno di aiuto.

La vera fortezza del pastore non nasce dalla rabbia, ma dall’amore per la parola di Dio e dal desiderio di custodirla nella sua integralità nella propria vita e in quella della propria comunità.

Questa fortezza non determina una predicazione impulsiva, arrogante o arrabbiata, perché ispira un sano senso di inferiorità nei confronti della testimonianza che si è chiamati a rendere, un santo timore di non riuscire a dire delle parole sufficientemente sagge da edificare adeguatamente la propria comunità.

È proprio la ricerca di questa saggezza che rende capaci di dire parole forti che però non feriscono, ma edificano.

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2 Commenti

  1. don GiannI Gennaro 26 settembre 2021
    • Marcello Neri 27 settembre 2021

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