Card. Sepe: “Visitare i carcerati”

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La visita ai carcerati non risolve certo tutti i problemi, ma la comunità cristiana non sarebbe tale se non si prendesse cura dei detenuti.

La diocesi di Napoli, sotto la guida dell’arcivescovo metropolita, card. Crescenzio Sepe, ha scelto come piano pastorale pluriennale “Le opere di misericordia”. Questo è l’anno della sesta opera di misericordia “Visitare i carcerati”. Di seguito i punti salienti della lettera pastorale alla diocesi partenopea.

Vogliamo essere tutti insieme una comunità che annuncia, celebra e testimonia il Vangelo della carità; una comunità che rende tangibile la misericordia di Dio in maniera non episodica, ma organica e sistematica, facendoci testimoni dell’amore di Dio, che trasforma l’uomo e dà sostanza alla vita.

Non possiamo continuare a esitare in scelte estetiche e di facciata mentre giungono da fuori gli urli di chi ha fame, non ha un tetto, è solo, subisce continue, inaudite violenze.

Pastorale dei carcerati

“Chiesa in uscita” è l’immagine cara a papa Francesco, tra le più indicative del suo magistero. Uscire per incontrare la gente, per contagiare tutti di speranza evangelica, per chinarsi su ogni fratello piagato è diventato il nostro programma.

Saremo proiettati su orizzonti di grande respiro per ritrovare l’autentica spinta evangelizzatrice e farci prossimi a chi è ultimo.

L’opera di misericordia più disattesa

Ci soffermeremo, in particolare, sull’opera di carità Visitare i carcerati.

I detenuti sono uomini e donne, che hanno commesso diversi errori, a volte anche gravi; uomini e donne cui è stato sottratto il bene più prezioso, la libertà fisica, o morale e psichica, e talvolta anche la dignità. Portano nelle pieghe dell’anima un dolore antico, le ferite di una società ingiusta, di una famiglia che non ha saputo accoglierli e assisterli, di una comunità, anche quella cristiana, che li ha ignorati. Eppure, in nessun luogo più del carcere la vita significa attesa e speranza di futuro.

La sesta opera di misericordia corporale – Visitare i carcerati – è di certo la più disattesa tra tutte le altre. Facciamo già fatica a convincerci che Gesù possa riconoscersi negli affamati, negli assetati, negli infermi. Ma che si sia potuto identificare anche con i detenuti, con avanzi di galera, ci sembra troppo! Si tratta certamente di un’esagerazione fuori luogo! Ci va bene intravederlo nei relitti umani, ma nei criminali proprio no! Ma a condizionare in maniera negativa l’esercizio di questo gesto di solidarietà è soprattutto la diffusa convinzione che chi si è macchiato di un delitto debba pagare le conseguenze della sua condotta e marcire in galera.

Siamo tutti convinti che ad ogni crimine debba corrispondere un’adeguata, severa punizione. Ma sapientemente provocatorio risuona il suggerimento di Gesù: «chi è senza peccato scagli la prima pietra» (Gv 8,7). Con queste parole egli disarma le mani pronte a lapidare legalmente una donna, scoperta in flagrante adulterio, ma disarma anche le menti di uomini che – attraverso la donna – lo accusavano di eccessiva indulgenza. Trasformava così in stupore la loro religione del dovere, la religione di un Dio terribilmente vendicativo.

La giustizia non consiste semplicemente nel punire i colpevoli. Occorre prendersi cura di loro, creando opportune strutture di prevenzione, mettendo in atto incisive forme di vicinanza e di ascolto. In effetti, accanto alle mancanze di chi delinque ve ne sono altre – non meno gravi – della comunità che è venuta meno alle sue responsabilità. A ben vedere, coloro che finiscono nei penitenziari non sono l’eccezione alla regola, ma il sintomo di un’illegalità diffusa che sovente coinvolge l’intero tessuto sociale (cf. Andate in città, 174).

La Chiesa abita dietro le sbarre

La Chiesa abiterà il carcere finché degli esseri umani, dei suoi figli, vi restano rinchiusi. Il carcere è chiesa, perché casa dell’uomo e casa di Dio! È il dolore che rende sacro quello spazio, come rese sacro il colle del Calvario, dove fu eretta la croce di Cristo, dove sulla terra fu sparso il sangue del Figlio dell’uomo. La Chiesa – secondo la suggestiva immagine di papa Francesco – è un ospedale da campo. La Chiesa è dietro le sbarre per attestare che la vera giustizia è tale quando salva e rimette l’uomo in piedi. La limitazione della propria autonomia, la condivisione coatta degli spazi personali con sconosciuti producono un grave disagio che può minare l’equilibrio psicofisico anche dei più dotati.

Non dimentichiamo che uno dei primi nomi del nostro Dio, registrato dalla Bibbia, è quello di Go’el, Liberatore e Salvatore, perché la prima impresa che ha compiuto per il suo popolo è di averlo strappato alla prigionia d’Egitto. Per questo ogni opera di liberazione è “pasquale”. Gesù ha esplicitamente richiamato all’attenzione di tutti che una delle azioni messianiche proprie del suo mandato sarebbe stata quella di «liberare i prigionieri» (cf. Lc 4,18). Seguendo il suo esempio, una Chiesa in uscita, esperta in umanità, non si china solo sugli affamati, gli stranieri, gli ammalati, ma anche sui “prigionieri”, quei fratelli condannati perché “malfattori”. La reclusione non equivale mai ad esclusione. Nessun uomo può essere misurato soltanto sulle colpe commesse né sul proprio passato.

Addolora dover constatare che proprio l’anno scorso, nel 2018, si è registrato il record di sovraffollamento e di suicidi nelle carceri italiane.

Per risanare il tessuto sociale e renderlo uno spazio accogliente per chi ritorna dal carcere vanno pensati, a monte, percorsi che costruiscano le condizioni minime di vivibilità e di compatibilità con chi è reduce da un’esperienza lacerante. In questo, la Chiesa non può sostituirsi alla società civile e alle istituzioni statali. Può tuttavia offrire una testimonianza profetica, indicare dei percorsi.

Proposte pastorali

Su questo sfondo, risuona ancora possentemente provocatoria la domanda rivolta a Caino: «Dov’è tuo fratello»? Dov’è il tuo fratello carcerato? Ti senti responsabile della sua situazione? Cosa fai per stargli accanto e sostenerlo in questa difficile prova della vita? Una domanda scomoda, imbarazzante, d’intramontabile attualità. Cosa c’entro io nella vita di mio fratello? Saremmo tentati di rispondere. Ne sono forse io il custode? Esiste per l’intera comunità una “responsabilità vicaria”, quella che avvertì il profeta Ezechiele a causa del suo silenzio di fronte alla condotta iniqua del malvagio. «Della sua morte io chiederò conto a te» (33,8), si sentì dire dall’Onnipotente.

La “visita” ai detenuti e alle loro famiglie non può ridursi all’erogazione di particolari servizi, spesso anche necessari. Comporta partecipazione convinta alla condizione dell’altro fino ad avvertirne empaticamente i disagi, i rimpianti, fino ad inseguirne i sogni. La visita non risolve certo tutti i problemi, ma può alleggerire il peso dell’isolamento e consentire di riprendere il fiato. La comunità cristiana non sarebbe tale se non si prendesse cura dei detenuti. Questi rischiano di restare invisibili più di quanti dormono per le strade, marginalizzati molto di più dei poveri che bussano alle nostre porte. Oscurati dal silenzio dell’indifferenza.

Per rendere concreto l’apporto che possiamo offrire a chi è detenuto, sollecito ogni parrocchia, ogni comunità ecclesiale ad elaborare una proposta pastorale di ampio respiro che tenda a formare anzitutto la propria gente e gli eventuali operatori mediante percorsi di sensibilizzazione per un orizzonte umano poco conosciuto e quasi sempre trascurato. Ogni progetto tenga conto, tra l’altro, delle seguenti imprescindibili priorità:

* Formare la comunità al perdono e alla riconciliazione

* Provvedere ad un’anagrafe dei reclusi della propria zona pastorale

* Adottare un detenuto e la sua famiglia anche di un’altra parrocchia

* Coinvolgere i detenuti stessi nell’attività di evangelizzazione e di sostegno

* Sviluppare un piano decanale d’insieme con istituzioni, associazioni, privati disponibili.

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