Tante chiese, forse troppe

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ridurre chiese

Il carico pastorale e amministrativo che grava sui parroci ormai titolari di più parrocchie chiede ai vescovi una presa in carico del problema.

Parto da una situazione concreta per fare un discorso generale: la realtà di diverse parrocchie facenti parte di una stessa unità pastorale ormai consolidata, affidata a un unico parroco (per adesso coadiuvato da un viceparroco) responsabile della gestione di sei chiese parrocchiali più altre due aperte al culto.

Una di queste chiese, frequentata in media da otto persone per la messa festiva, attualmente è chiusa per crollo di una parte del tetto, con la previsione di ingenti lavori finanziabili dalla CEI fino ad un max del 70%.

Una situazione non rara e, in prospettiva, destinata a estendersi: gli edifici sacri poco frequentati e a rischio di inagibilità aumenteranno, in parallelo al calo numerico del clero. Saremo sempre meno preti e, a mio giudizio, in base a quel che vedo, tendenzialmente più inadatti ad assumere impegni gestionali e finanziari sempre più pesanti: preti stranieri con sensibilità e conoscenze/competenze diverse dalle nostre, preti giovani non sempre propensi alla gestione amministrativa tradizionale…

Il carico è vieppiù aggravato dalla dilagante burocratizzazione dei percorsi gestionali e amministrativi civili e anche ecclesiastici.

E, nel frattempo, comunità parrocchiali in molti casi sempre più ridotte e composte soprattutto di anziani, nelle quali in non pochi contesti si avvertiranno gli effetti della crisi post-Covid…

Ci sono certamente molti laici generosi e capaci che supportano i parroci sia attraverso i consigli degli affari economici, sia in maniera informale; dobbiamo però domandarci se la “Chiesa in uscita” debba prioritariamente chiedere ai laici di coinvolgersi nella gestione o nella missione.

Credo che il problema, già reale ma destinato a espandersi e soprattutto a marcare la crescente sproporzione tra preti in servizio pastorale e numero di parrocchie/chiese/edifici da gestire, debba essere prima o poi preso di petto – oltre a tutte le (prioritarie) implicazioni pastorali – dai vescovi italiani tutti insieme, e che la CEI debba trattarlo davvero da struttura di servizio, elaborando le linee guida e il supporto operativo per decisioni da assumere nelle singole diocesi, fornendo loro (e attraverso di esse alle parrocchie) quanto meno possibilità e agevolazioni per liberare i preti e le comunità da sovraccarichi gestionali e amministrativi.

Comincio a mettere in fila (aspettando che altri accrescano e migliorino l’elenco) un po’ di azioni concrete per cominciare a osare (dopo adeguata valutazione e ricercando il massimo di convergenza tra i vescovi e rispettivamente, nelle singole diocesi, tra i parroci):

  • unire più parrocchie sotto una stessa configurazione giuridica, per snellire la burocrazia sia ecclesiastica che civile (un parroco di più parrocchie deve destreggiarsi in una selva di timbri, moduli, codici fiscali, conti correnti ecc.)
  • supportare le parrocchie – e la loro evoluzione in unità pastorali, con priorità per le comunità meno numerose – con équipes tecniche allestite dalle diocesi; l’onere economico potrebbe almeno in parte essere assunto dagli istituti del sostentamento clero, in ragione del fatto che il minor numero di preti da sostentare ha la conseguenza di liberare un certo quantitativo di risorse economiche, e così liberare da troppe incombenze amministrative i parroci
  • stabilire criteri per la destinazione ad altro uso di edifici sacri, in base alla rispondenza ad alcune prerogative; qui ne propongo alcune: centri abitati in avanzata fase di spopolamento; mancanza di un minimo di fedeli per le celebrazioni; assenza di caratteristiche storico/artistiche degne di salvaguardia; prossimità di altri luoghi del culto; destinabilità a usi diversi (però compatibili con l’origine sacra dell’edificio) in favore della comunità civile territoriale; in casi estremi, come già avviene in alcuni paesi del Nord Europa, prevedere l’abbattimento di edifici di culto destinando l’area liberata a usi di pubblica utilità (parcheggi, parchi giochi…).
La gallina e il brodo

Questa proposta di percorso riferito alle chiese può certamente estendersi, con caratteristiche specifiche, alle case canoniche, anche queste destinate ad essere disabitate dai preti ma suscettibili – peraltro con vincoli minori – di usi virtuosi ecclesiali e sociali (ci sono già esempi di buone prassi, come pure riflessioni e studi sulla materia: anche qui bisognerebbe che la CEI “ci mettesse il cappello sopra”).

Si tratta di aspetti pratici da affrontare non soltanto per motivi organizzativi, ma come aspetto pratico di una strategia pastorale fedele alle linee indicate da papa Francesco nell’Evangelii gaudium («iniziare dei processi più che possedere spazi», n. 223) e nella Laudato si’ («abbiamo troppi mezzi per scarsi e rachitici fini», n. 203).

Mi è capitato altre volte, di fronte a scelte rischiose e faticose, di attingere all’antica sapienza contadina di mia nonna: nella sua gestione del pollaio, quando vedeva una gallina che non stava troppo bene, decideva di tiragli il collo: se, aperta, risultava malata, finiva nella concimaia; se, invece, risultava sana, la conseguenza era un buon brodo e un gustoso bollito di gallina.

Lasciandola morire, niente brodo e niente carne. Non vorrei mancare di rispetto a niente e a nessuno, ma sono convinto che la nostra Chiesa dovrà prima o poi decidersi a tirare il collo a qualche gallina.

 

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7 Commenti

  1. Erminio Lora 22 settembre 2020
  2. Nevio Santini 21 settembre 2020
  3. Angelopiero Bafundi 21 settembre 2020
  4. Andrea 20 settembre 2020
    • un rompiscatole 21 settembre 2020
  5. Giovanni Maurello 20 settembre 2020
  6. Enzo Gobbi 19 settembre 2020

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