Unità pastorali: 20 anni di esperimenti

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Le unità pastorali rispondono ai problemi di una Chiesa locale che cambia volto sia nel personale sia nel vivere l’appartenenza al territorio.

Cresce in ambito ecclesiale la riflessione sulle cosiddette unità pastorali, una formula organizzativa di cui si è iniziato a parlare nel nostro paese 15 o 20 anni or sono, con l’intento non di sostituire il modello della parrocchia, quanto di creare legami e sinergie tra le parrocchie che “abitano” un particolare territorio, caratterizzate quindi da una sorta di “affinità” ambientale e sociale (connessa alla condizione di vita dei residenti).

Alla base di questo “strumento”, vi è l’idea di “aggiornare” la figura della parrocchia ai tempi in cui viviamo. E ciò a vari livelli.

Anzitutto riconoscendo che, nella società aperta, la mobilità delle persone si manifesta anche nel campo religioso, per cui i fedeli o i “quasi  fedeli” possono avere difficoltà a identificarsi o ad interagire in confini o spazi ecclesiali circoscritti e delimitati.

Inoltre, si avverte sempre più nella Chiesa locale l’esigenza di coordinare e di meglio qualificare alcuni settori della vita pastorale, ritenendo che le singole parrocchie abbiano tutto da guadagnare se si confrontano e collaborano nei vari ambiti in cui sono impegnate: dall’animazione dei giovani alla pastorale familiare, dall’azione caritativa e solidale alla formazione culturale e religiosa, dagli orari della liturgia ai corsi di catechismo ecc.

Unità pastorali

Un motivo più recente e allarmante, che depone a favore della creazione delle unità pastorali, è poi connesso al calo costante del numero dei sacerdoti, un fenomeno che mette in discussione la formula che prevedeva la presenza di un parroco residente in ogni parrocchia; per cui l’unità pastorale può anche comprendere parrocchie gestite da un solo sacerdote o da alcuni sacerdoti che vivono insieme e prestano servizio (in modo perlopiù interscambiabile) nelle varie realtà religiose di base.

Favorire convergenze

Da quanto detto, è evidente che l’idea iniziale e portante dell’unità pastorale è di favorire una convergenza tra le parrocchie di un determinato territorio, sulla base di un progetto sufficientemente condiviso ma che lascia adeguata autonomia espressiva alle varie realtà locali; una sorta di indirizzo comune e di una mutua collaborazione tra parrocchie che le orienta a superare la tendenza all’autosufficienza, a evitare la dispersione delle risorse umane e organizzative e a promuovere uno stile pastorale d’insieme più consono e attento alle esigenze dell’ambiente sociale in cui esse operano.

Solo in seconda istanza, come s’è accennato, si guarda a questo modulo organizzativo per far fronte alla crescente difficoltà di far sì che ogni parrocchia possa contare su un sacerdote residente e responsabile, soprattutto nelle zone che, nel corso degli anni, si sono maggiormente spopolate o nelle diocesi più carenti di clero.

Attualmente non esiste una definizione giuridica delle unità pastorali, per cui ogni diocesi è libera di realizzarle e segue criteri propri nel caso in cui decida di introdurre questa nuova forma di relazioni o di comunità tra parrocchie. Per tentare una tipologia incompleta, in alcuni casi si tratta di una “super parrocchia” (una parrocchia che incorpora le precedenti), in altri di un’organizzazione diocesana per zone pastorali (ove le parrocchie e le altre presenze ecclesiali sul territorio sono chiamate a collaborare), in altri ancora di un qualche raccordo tra le iniziative pastorali di parrocchie vicine; mentre, in altre situazioni, il termine “unità pastorale” viene usato per indicare le parrocchie affidate a un solo sacerdote.

Insomma, si tratta di un’istanza che si colora di significati e di forme diverse, a seconda delle esigenze e delle condizioni dei vari contesti in cui essa è stata applicata. Inoltre, questa nuova forma di rapporti tra parrocchie si è sviluppata nel tempo più in alcune aree del paese che in altre.

Da uno studio di don Giovanni Villata, un esperto del settore, emerge che le unità pastorali sono più un “prodotto” del Nord che del Centro e soprattutto del Sud. Come a dire che la riorganizzazione in zone pastorali e la collaborazione tra parrocchie è un’esigenza assai più avvertita nelle zone del paese più dinamiche e secolarizzate che in quel Mezzogiorno d’Italia in cui la Chiesa mantiene ancora una presenza diffusa, che si manifesta in tassi più elevati di pratica religiosa, in un clero mediamente più giovane e numeroso, in una parrocchia ancora al centro delle relazioni sociali.

Modelli diversi

Al di là dei diversi volti in cui si manifesta, prevale un giudizio positivo su uno “strumento” che tende (almeno in parte) a modificare la presenza della Chiesa locale. Anzitutto perché si tratta di un’iniziativa nata più dalla Chiesa di base (dalle diocesi e dalle parrocchie) che dai piani alti della Chiesa, anche se poi questi ultimi la stanno seguendo e promuovendo. Per cui si presenta come una risposta pastorale ai problemi avvertiti da una Chiesa locale che cambia volto sia nel personale a disposizione sia nel modo in cui i fedeli vivono oggi l’appartenenza al territorio.

Altro aspetto qualificante è il carattere modulare di uno strumento che può essere declinato in forme diverse, a seconda degli indirizzi o delle situazioni delle comunità locali. Per una volta tanto, la Chiesa sembra non subire i processi che la riguardano, ma tenta nuove vie d’uscita e di armonizzazione delle sue prassi pastorali.

Ovviamente si tratta di una proposta/iniziativa che incontra non pochi ostacoli e resistenze. Tra queste la scarsa propensione dei sacerdoti a operare e progettare insieme, la voglia di autonomia delle singole parrocchie (che rivendicano sovente l’originalità della vita e degli indirizzi della propria comunità), la difficoltà di far convivere e interagire parrocchie che hanno alle spalle storie, esperienze e sensibilità ecclesiali diverse, la vicinanza di realtà locali disomogenee (alcune molto strutturate e con un buon nucleo di residenti, altre più spoglie e meno frequentate). E, inoltre, la difficoltà stessa dei laici credenti a maturare un senso di appartenenza ecclesiale allargato e ad assumere un ruolo più attivo in una Chiesa locale alle prese con una forte carenza di clero.

Rischio disaffezione

Il rischio più rilevante è che questa sperimentazione si riduca ad una semplice strategia organizzativa. Le parrocchie di un particolare territorio possono certamente trarre vantaggio dal fatto di progettare insieme alcune iniziative pastorali, unendo le forze – ad esempio – per le attività della Caritas, l’animazione dei giovani, i corsi per i fidanzati ecc.

Ma poi occorrono delle risorse umane (preti, religiosi e laici) che sappiano interpretare con dedizione e qualità innovativa questi impegni ecclesiali nelle varie zone, per evitare che la Chiesa locale allargata sia un riflesso della stanchezza che purtroppo caratterizza varie singole parrocchie.

* Il testo è apparso su Vita pastorale, febbraio 2020.

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