Il virus benefico dell’“Estate ragazzi”

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Estate è tempo di centri estivi, un meraviglioso virus che colpisce i ragazzi dopo la scuola, provocando in loro sintomi di incondizionata generosità, serenità, allegria e voglia di vivere che, alle volte, pare soffocata tra i banchi delle loro aule. Perciò, come se fossimo in un laboratorio di microbiologia, procedo in questa riflessione estiva con un’osservazione sperimentale di questo virus di cui i giovani sono portatori sani.

Un’osservazione sperimentale

La scena è quella della verifica delle attività a fine giornata. Li osservi, i ragazzi e le ragazze: sono le 6 del pomeriggio ed è ancora un caldo che ti sciogli e pensi che loro sono stati lì a correre e a giocare con i marmocchi da almeno sette ore. Hanno la maglia lercia, nelle mani residui di vernice, terra e ogni altro materiale utilizzato. Stanno abbracciati gli uni con gli altri, qualcuno poggia la testa sulla spalla di un’amica, qualche sentimento si manifesta in modo palese dalle posture dei corpi.

Non importa se sono ufficialmente impegnati, immorosati (come si dice a Bologna) o fidanzati. Quello che conta è che vivono spontanei; per una volta non hanno timore che il don li rimproveri. Infatti fumano, anche. Non tutti, ma alcuni, liberamente, in questo momento di relax al riparo dei bambini, fumano, recuperando immediatamente la loro tensione all’età adulta.

Nel frattempo si confrontano su come sia andata la giornata, talvolta anche aspramente. Ogni tanto pare che litighino. Il don, che cerca di supervisionare tutto senza ingerire, nutre qualche timore che le cose siano andate male.

Invece, appena i responsabili dichiarano chiuso il momento di verifica, partono le battute, tutti sorridono, arrivano i gelati e le merende, scattano tornei mondiali di calcetto, basket, pallavolo o il mitico schiacciasette. E pronti per una nuova giornata, si riparte.

Tre osservazioni

Da questa esperimento raccolgo alcune osservazioni.

1. Il sudore (che non è mai un problema) dice quante energie i giovani abbiano da tirare fuori. Penso a tre ambiti in cui quest’esperienza contrasta completamente con la vita di fede che offriamo loro.

a) La liturgia. Sembra che non ci sia niente di meno energetico o dinamico di una liturgia cattolica. Talvolta pare quasi che ci si compiaccia di una certa pesantezza e lentezza, come se fosse l’unico modo di elevarsi a Dio, quando invece è l’unico modo di schiacciare un sonnellino. E si vedono le energie dei giovani implodere, come se non desiderassero altro che questa tortura finisca al più presto.

b) Gli incontri di formazione. Più che di incontri, bisognerebbe parlare di modelli: i nostri modelli di formazione sono per lo più teorici, concettuali, mentali. È rarissimo che ci siano delle dinamiche che coinvolgano il corpo in maniera non artificiosa, e diventa quasi impossibile che l’esperienza della fede passi dalla mente al corpo, dalla testa alla vita.

c) La carità. Dovremmo trovare modi e tempi per proporre esperienze attive di carità, roba da fatica di muscoli e sudore sulla pelle. Qualcosa che però faccia poi toccare tangibilmente il frutto di questa fatica: l’incontro con la famiglia per la quale si è fatta la raccolta o l’utilizzo dello spazio che si è andato a risanare.

2. Il gruppo. L’incredibile differenza tra l’impegno dei giovani durante l’anno e quello nei centri estivi è la presenza di un gruppo molto numeroso. In questo fenomeno si riconosce il bisogno di coinvolgimento, ma soprattutto il sentirsi parte di qualcosa di più grande. Allo stesso tempo, si vede la necessità di fare un’esperienza di Chiesa che sia vivace e ampia, non ridotta agli spazi angusti del gruppo parrocchiale, che talvolta – pur con tutto il bene che porta – appare più che altro una riunione di sopravvissuti.

3. La responsabilità. Nelle mie evoluzioni da giovane cappellano (sempre in prima linea, armato di braghini corti, cappellino e t-shirt degli animatori) a parroco (costretto, volente o nolente, a delegare molta responsabilità), ho visto che i giovani, accordandosi fra di loro e guidati da qualcuno appena più grande, sono in grado di fare cose impensabili se solo solo gliele chiedesse il parroco, tipo lasciare il cellulare per un’intera giornata, darsi appuntamento prestissimo al mattino, dividersi fra di loro per essere più distribuiti nel pranzo o nelle varie attività. È il prodigio della responsabilità consegnata, quella molla che ti fa capire che vali, che la tua presenza è importante, che puoi fare la differenza. Forse, da questo laboratorio di osservazione, possiamo quindi anche ricordarci che niente è così decisivo, nella formazione dei giovani e nella loro esperienza di fede, quanto la consegna di un ruolo da protagonisti.

Conclusione

Sono le 8 di sera. Sono passate quasi due ore dall’inizio dell’osservatorio sperimentale. Il don è andato a dire la messa ed è tornato per salutare gli ultimi rimasti. Negli occhi dei responsabili nota la stanchezza, ma anche la soddisfazione per un altro giorno messo a bilancio… e un po’ di questo orgoglio lo condivide con loro. Ancora qualche accordo per una birra o un gelato alla sera, poi tutti si disperdono… “Ciao don, a domani”.

“Ciao, a domani!”. Il portone si chiude e anche il cancello del cortile. “Ehi, sono rimasti fuori i palloni! E i vassoi della merenda?! Quante volte vi ho detto di rimettere a posto i vassoi della merenda!?”. Sbam! Sbatte una finestra del primo piano che non è stata chiusa. “Chi va a chiudere?”. Il don si guarda intorno, ma ormai non c’è più nessuno. “Accidenti!”.

Il virus ormai ha terminato il suo effetto. Almeno per oggi non sono più infetti e, per fortuna, nemmeno perfetti.

Davide BaraldiDavide Baraldi è parroco a Bologna e docente di Teologia fondamentale alla Scuola di formazione teologica della Facoltà teologica dell’Emilia Romagna. È direttore spirituale della S.G. Fortitudo. Nell’ottobre 2015 è stato pubblicato da Edizioni Esordienti Ebook il suo romanzo Swatch (ebook e cartaceo).

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