Case chiuse e non solo

di:

salvini

Non è stata forse sufficientemente sottolineata dai media la quasi perfetta coincidenza temporale tra la festa delle donne e la sentenza con cui la Corte costituzionale ha confermato la costituzionalità della Legge Merlin che, nel 1958, pur non vietando la prostituzione, ha dichiarato illegale favorire questa attività o trarne guadagni, determinando così l’abolizione delle cosiddette «case chiuse».

Le questioni di legittimità costituzionale erano state sollevate dai giudici d’appello di Bari basandosi sul fatto che la prostituzione è un’espressione della libertà sessuale tutelata dalla Costituzione e che, pertanto, punire chi svolge un’attività di intermediazione tra prostituta e cliente o di favoreggiamento della prostituzione equivarrebbe a compromettere l’esercizio tanto della libertà sessuale quanto della libertà di iniziativa economica della prostituta.

Le premesse di un progetto politico

Il tema di cui parliamo ha un risvolto politico. Se la Corte costituzionale avesse accolto i dubbi dei giudici baresi e li avesse tradotti in una pronuncia di illegittimità della Legge Merlin, avrebbe spianato la strada a un progetto più volte espresso da Matteo Salvini e da lui ripreso anche in questi giorni: «Sono favorevole alla riapertura delle case chiuse», ha detto recentemente il nostro vice-premier. «Non c’è nel contratto di governo», ha riconosciuto, «perché i 5stelle non la pensano così; però io continuo a ritenere che togliere alle mafie, alle strade e al degrado questo business, anche dal punto di vista sanitario», sia la strada giusta.

Se la riapertura delle «case chiuse» non è all’ordine del giorno del governo, dunque, ciò è solo dovuto all’ostacolo contingente della contrarietà dell’alleato pentastellato e costituisce comunque un obiettivo del leader leghista. Lo aveva detto chiaramente già in un’intervista a Radio anch’io, nel corso della campagna elettorale: «Riapriamo le case chiuse. Fare l’amore fa bene, drogarsi no. Per questo sì a controllo dello Stato su prostituzione e no alla liberalizzazione».

Questione di «regole» e di «decoro»

«In tutto il mondo civilizzato», aveva aggiunto, «è lo Stato e non la criminalità a gestire la prostituzione. Riapriamo le case chiuse e tassiamo la prostituzione». Alla base di questa richiesta, una precisa idea di fondo: «Prostituirsi è una scelta» – ha spiegato il leader della Lega. «C’è chi sceglie, invece di fare l’insegnante, il poliziotto, il muratore o il giornalista a RAI Radio 1, di prostituirsi, per soldi. È una scelta, nel mondo sviluppato non si fa finta di niente. Oggi in Italia questo mercato lo gestisce la criminalità. E riguarda 80 mila persone. In Austria, Svizzera, Germania si mettono le regole, si danno garanzie è un lavoro come un altro che si fa per scelta ed è sanitariamente tutelato e tassato. Io al Governo voglio un paese con delle regole».

Che si tratti di un preciso progetto politico della Lega e non di una opinione personale del suo leader lo conferma il fatto che alcuni giorni fa è stato presentato a Palazzo Madama dal senatore leghista Gianfranco Rufa un disegno di legge proprio per chiedere la legalizzazione della prostituzione e la riapertura delle «case di tolleranza», con l’istituzione presso la questura di un registro a cui sono tenute a iscriversi tutte le persone interessate a esercitare il mestiere.

Il DDL risponde, secondo Rufa, a un’esigenza di «decoro civile e morale». Secondo il promotore si tratta di «un gesto di civiltà nei confronti delle prostitute che si trovano per strada, per il decoro e l’immagine delle stesse strade». Inoltre, i redditi derivanti dall’esercizio della prostituzione sarebbero soggetti a un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi e determinerebbero dunque un incremento del gettito fiscale.

Le opinioni delle donne

La proposta ha trovato la ferma opposizione di molti ambienti femministi: «Riaprire le case di prostituzione» – ha detto la presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, Valeria Valente – «non è dare più libertà e più protezione come dice Salvini. Credo che permettere allo Stato di guadagnare sul corpo delle donne sia lontanissimo dalla libertà: è sfruttamento e abuso. Giù le mani dalla Legge Merlin!».

Non mancano però – anche fra le donne – coloro che sottolineano gli indubbi vantaggi su cui fa leva il nostro ministro degli Interni. Non si può negare che se fosse lo Stato a regolamentare la prostituzione si avrebbero meno problemi sul piano della santità e dell’ordine pubblico. Senza contare i vantaggi per le casse pubbliche. E del resto non ci sono Paesi che legalizzano questo tipo di business? Perché l’Italia dovrebbe restare indietro?

Una scelta come un’altra

Forse, però, il problema non è solo quello dei vantaggi pratici. Su quelli probabilmente Salvini potrebbe avere ragione. Il punto su cui riflettere, però, è la premessa da cui parte, e cioè che prostituirsi sia una scelta professionale come le altre: «C’è chi sceglie, invece di fare l’insegnante, il poliziotto, il muratore o il giornalista a RAI Radio 1, di prostituirsi, per soldi. È una scelta». Certo, se così è, perché penalizzare – solo in questo caso – coloro che collaborano a questa scelta e ne organizzano l’esercizio?

Paradossalmente, qui potrebbero venire in suo aiuto gli argomenti tanto spesso usati dalle femministe nella questione dell’aborto: che si sia d’accordo o meno, è la donna che deve decidere cosa fare del proprio corpo. «L’utero è mio e ne faccio quello che voglio», gridavano in corteo a favore le fautrici di una completa liberalizzazione o almeno di una legalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza e, conseguentemente, dell’assistenza del servizio sanitario pubblico per realizzarla nel modo migliore.

Regolare il fenomeno come scelta del male minore

Anche in quel caso c’erano gravi motivi sanitari per preferire che l’aborto si svolgesse in condizioni igieniche adeguate, invece di essere lasciato alla pratica clandestina delle mammane, sulla pelle delle poveracce che ci lasciavano la vita. Così come ha senz’altro ragione chi fa osservare che per le stesse prostitute è molto più sicuro, da tutti i punti di vista, lavorare all’interno di strutture controllate dallo Stato che non battere sulle strade, in balìa di «papponi» e di malattie.

In entrambi i casi, nessuno sostiene che il fenomeno da regolare sia in sé positivo: non conosco femministe che esaltano l’aborto come tale, né leghisti che sarebbero lieti se la figlia si prostituisse. Per gli uni e per gli altri sarebbe meglio non ci fossero né aborti né prostituzione. Ma, visto che ci sono, dicono (ciascuno però da suo punto di vista), visto che «le donne», nella loro libertà di scelta, decidono di abortire o d usare il loro corpo come meglio credono, il male minore è di regolamentarli.

Prendo atto con stupore che l’analogia tra i due casi non viene rilevata – anzi è destinata probabilmente ad essere respinta con indignazione – sia da chi, come la maggior parte delle femministe, ritiene l’assistenza statale all’aborto una conquista di civiltà, ma condanna aspramente le «case chiuse», sia da chi, al contrario, ritiene molto più civili le seconde e si oppone come a una barbarie alla legalizzazione dell’aborto.

Una libertà forse solo presunta

Eppure, c’è qualcosa che a mio avviso non funziona in questo ragionamento e che personalmente penso possa essere obiettato in entrambi i casi. Ed è la premessa secondo cui le donne che scelgono di abortire, così come quelle che scelgono di dare il loro corpo in cambio di denaro, sono tutte veramente libere in questa loro decisione.

Sono convinto che molte preferirebbero far nascere il loro bambino piuttosto che abortire, se non vivessimo in un sistema economico in cui questa opzione può costare il lavoro o almeno il progresso nella carriera; in cui una madre non può contare, come in altri paesi – per questo sì, più civili del nostro! – su una piena e capillare assistenza che le consente di continuare a studiare e a lavorare anche avendo dei figli; in cui per questi ultimi si può ragionevolmente prevedere che non resteranno degli emarginati.

Così come sono convinto che ci siano donne che scelgono di prostituirsi non perché ne hanno voglia, ma perché non accettano di vivere una vita miserabile, sfruttate con stipendi di fame in qualche supermercato, o addirittura in nero; perché hanno dei sogni che altre donne non devono pagare vendendosi al primo offerente e a cui però esse non vogliono rinunziare; perché sperano, un giorno o l’altro, di avere anche loro dei figli e vogliono dar loro un futuro che non potrebbero permettersi con i risparmi di commessa.

Ecco, finché ci saranno donne che si trovano in queste situazioni di costrizione, molte o poche che siano, sarà un’ipocrisia invocare la loro «libertà» per giustificare una società che in realtà gliela nega. E varrà la pena di battersi perché la difesa della loro dignità non si riduca alla celebrazione retorica che ne abbiamo fatto l’8 marzo.

Giuseppe Savagnone è direttore dell’Ufficio per la pastorale della cultura dell’arcidiocesi di Palermo, scrittore ed editorialista. Il post è stato pubblicato nella sua rubrica «I chiaroscuri», ospitata sul sito www.tuttavia.eu, lo scorso 9 marzo 2019.

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