Catalogna: la rabbia e il buon senso

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Un quadro ambientale necessario

Nel corso di questo articolo[1] sarà necessario definire i termini che usiamo. Perciò è opportuno iniziare chiarendo che il dialogo richiede di essere disposti a cedere qualcosa se i miei argomenti non convincono l’interlocutore. Senza questo atteggiamento previo, ogni invito al dialogo è pura ipocrisia. A sua volta, il dialogo implica la disposizione ad ascoltare l’altro. Perciò è semplicemente maleducato il modo di comportarsi del presidente spagnolo quando non risponde al telefono del sig. Torra. Per favore! Prenda su il telefono e poi gli dica tutto quello che vuole; ma almeno non sia così scortese.

Molti osservatori ritengono che se Sánchez non risponde al telefono non è per maleducazione ma perché ha paura che immediatamente Vox, Casado e Rivera aizzino le masse dicendo loro che Sánchez «è complice degli indipendentisti». E così raccoglieranno una buona messe di voti.

Questo fatto sottolinea la grande malattia del nostro momento storico, che è la sclerosi delle democrazie. La democrazia, che dovrebbe essere potere del popolo, è diventata una manipolazione del popolo. Questo accade ora in Spagna, ma sta succedendo anche in Cile, in Bolivia, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Turchia, in Venezuela, in Nicaragua, in Italia con Salvini…

Se il pianeta terra è gravemente malato, anche la democrazia, che sembrava essere la grande conquista della nostra storia, è malata. E i partiti politici possono finire per essere gli assassini della democrazia. Perché non esistono per servire il paese, ma per servire se stessi cercando il potere.

Forse vale perciò la pena che noi cittadini cerchiamo di fare qualcosa e cominciamo a dialogare tra di noi. Le seguenti pagine vogliono essere un invito in questo senso. Un invito fraterno e allarmato allo stesso tempo.

L’autore ritiene di poter dire che non si sente né indipendentista né spagnolista. Il fatto che il Portogallo sia separato dalla Spagna ci sembra oggi normale. Qualcosa del genere potrebbe accadere con la Catalogna tra due o tre secoli. E che la Catalogna appartenga alla Spagna è stato considerato come normale per oltre cinque secoli. Perché non anche oggi?

Ma capisco anche che, in questa ora storica di falsa globalizzazione, che è stata in realtà una dittatura mondiale dei poteri economici (molto più grossolana del “cosmopolitismo” di una volta), gli individui che temono di essere passati dell’essere persone ad essere dei numeri, sentano un bisogno di identità. Ciò spiegherebbe la crescita mondiale dei nazionalismi.

Ma anche questo è un percorso falso: perché, sebbene ci rifiutiamo di primo acchito di riconoscerlo, i nazionalismi in realtà vogliono dire ostilità. J.C. Juncker si licenziò dall’Europa con un avvertimento riguardante gli «stupidi nazionalismi», collegato effettivamente con le motivazioni che hanno messo in movimento l’Unione Europea. Anche se sarebbe stato molto più significativo se Juncker stesso, quando governò il Lussemburgo, non si fosse comportato in quella stessa maniera “stupida”. Ecco perché sembra meglio guardare al passato.

Si racconta che Socrate, quando nel processo gli furono chieste le sue origini, rispose di non essere né ateniese né greco ma cittadino del mondo. Anche se, in quei tempi, un ateniese avrebbe avuto molte ragioni per dichiararsi cittadino di Atene. La risposta di Socrate contrasta in modo sorprendente con la lirica del poeta latino Virgilio (nell’Eneide) sulla grandezza di Roma, che le conferiva la vocazione di «dominare i popoli con il suo impero». Il cosiddetto amore alla patria può avere qualcosa di filiale ma può anche avere qualcosa di diabolico o di idolatrico. E in questa ora storica domina il secondo aspetto più del primo, perché serve soltanto a tranquillizzare le coscienze.

In questo contesto storico, se vogliamo dialogare con i cittadini, dobbiamo cominciare col riconoscerci gli uni gli altri, in modo amabile e fraterno, il diritto di ciascuno di essere ciò che è. L’indipendentista ha pieno diritto di esserlo, come il suo interlocutore lo ha di non esserlo. Se non partiamo di qui, se subito l’uno è un «terrorista» e l’altro un «fascista», non è possibile alcun dialogo. Cominciamo lasciando da parte questi giudizi.

I giorni in cui scrivo questo testo mi costringono a parlare di più dell’indipendentismo. Per questo non sarà inutile, fin dall’inizio, affermare che questa posizione ha tutta una storia che occorre conoscere e che una parte importante della Catalogna sente come una storia di torti da parte di quell’altra Spagna machadiana (termine relativo al poeta spagnolo Antonio Machado, ndr) che «fa gelare il cuore» a chiunque. Circola lì la seguente battuta spiritosa tipo Trinca o Groucho Marx: Aznar e Rajoy sono stati i grandi padri dell’attuale indipendentismo, mentre Puigdemont e Torra sono i loro più grandi nemici. Prendiamo le battute «cum mica salis», come devono essere prese, ma non dimentichiamo che vogliono dire qualcosa. Se questo ci aiuta a capire un po’, passiamo all’analisi.

Un pessimo «processo»

Come ho detto, gli ultimi avvenimenti drammatici vissuti in Catalogna ci obbligano ora a parlare più diffusamente dell’indipendentismo. Una volta riconosciuto il suo pieno diritto ad esistere, bisogna negargli il diritto di comportarsi male. Ed è quello che ha fatto in tre modi.

Il primo, infrangendo sistematicamente la legge e anche lo Statuto catalano. Si può pensare con tutta ragione che, a volte, ci siano delle cose illegali, ma legittime. Tuttavia, in questo caso, chi sceglie l’illegalità deve farlo sapendo a cosa si espone: perché la legge è uguale per tutti. Chi opta per la legittimità contro la legalità, opta anche per la punizione che quell’illegalità comporta: questa è sempre stata la cosa ammirevole dell’obiezione di coscienza. Non si può perciò parlare di «prigionieri politici», ma di politici delinquenti. Anche se, per prendere in considerazione il parere di tutti, un buon settore di giuristi considera la sentenza eccessivamente dura o indebitamente severa, si potrà parlare (ora, non prima della sentenza) di alcuni prigionieri politici, che sono tali oltre ad essere delinquenti.

Il secondo modo è stato quello di ignorare più della metà della popolazione catalana che non la pensa come loro e arrogarsi la pretesa di essere loro «tutta la Catalogna», quando non giungono ad essere nemmeno la metà. Questo è moralmente grave. E bisogna ringraziare Carmen Forcadell[2] per l’onestà e il coraggio di aver riconosciuto questo errore, sapendo che ciò può comportarle più di uno schiaffo.

In questi momenti è dolorosa e allarmante la quantità di famiglie divise, di amicizie infrante e di persone addolorate (alcune di esse molto catalane o catalaniste) che si sentono emarginate e maltrattate solo per il fatto di essere contrarie al «processo». Quando gli indipendentisti si vantano di essere pacifici e nonviolenti, dovrebbero estendere questi aggettivi anche oltre la forza fisica, fino a quest’altro tipo di violenza che avvelena tutte le possibilità della convivenza pacifica.

Il terzo errore non è più etico ma pratico, anche se a molti sembra essere il più grave in questo momento storico: analisti molto seri credono che l’indipendenza oggi sarebbe un suicidio per la Catalogna o, per lo meno, un rischio mortale che non dobbiamo correre. Fuori dall’Europa (e senza possibilità di entrarvi se l’uscita è stata unilaterale: poiché la Spagna metterebbe sempre il veto a questo ingresso); fuori perciò dall’euro, con un dubbio riconoscimento internazionale (e aggiungiamo per ridurre le tensioni: con un Barça senza poter giocare in campionato la Liga!). Dove andrebbe a finire questa presunta repubblica? Le speranze di attirare investimenti internazionali con riduzioni fiscali e così via sono molto probabilmente illusorie: la stessa cosa è quanto si aspettava Macri in Argentina e tutti sappiamo come è andata a finire.

È perciò strano che la Catalogna del «seny»[3] non presti un po’ più di attenzione all’esempio della Brexit inglese che abbiamo così vicino. Ma nel caso della Brexit non si è trattato di una rottura illegale, ma solo delle condizioni di una rottura legale. Tutto il danno che sta causando all’Inghilterra non è compensato né dal danno che il Regno Unito provoca anche a noi (che, per di più, sarebbe una compensazione molto poco nobile), né da un’adulazione irrazionale all’antico sentimento imperialista britannico, né da promesse incerte di un futuro migliore.

In questi giorni si è sentito dire a mo’ di slogan «preferisco: patir la fame in una Catalogna indipendente che mangiare in una Catalogna spagnola». Bene: questo può essere ammirevole (o almeno rispettabile) in persone isolate. Ma non si può in alcun modo imporre questa fame a sette milioni di catalani (che, per giunta, non sarebbero nemmeno sette perché i politici continuerebbero a mangiare a sazietà).

E anche se nel campo socioeconomico nessuna profezia è certa, almeno meritano rispetto e attenzione coloro che considerano l’indipendenza un rischio oggi insensato. Non ha senso ciò che si sentì dire anni fa, quando scoppiò l’epidemia dell’aids, da alcune persone che furono avvertite che la droga o il loro comportamento sessuale potevano favorire il contagio della malattia: «Va bene, dopo guarirò». Questo modo di pensare è assolutamente irrazionale.

Un problema di linguaggi

Resta un punto molto importante perché sta alla base di tutto quanto detto prima: mi riferisco al problema del linguaggio già evocato e a come esso ci faccia pensare al modo di usarlo. Non cessa di sorprendere che posizioni inconciliabili utilizzino a proprio favore termini identici: «democrazia, libertà, diritti»… Dovremmo forse tornare allo stile farraginoso di quei pensatori medievali che, dopo ogni loro affermazione, si sentivano obbligati a fare una “declaratio terminorum”: a dare una definizione di tutte le parole usate in quella affermazione?

Forse non fino a questo punto. Ma almeno dovremmo renderci conto di qualcosa di molto elementare e fondamentale: in politica, non contano nulla le parole e i valori astratti. Parlare di diritto di decidere non vuol dir niente: perché esiste solo un diritto a decidere su questo problema concreto e in queste condizioni concrete. Se c’è un diritto primario e innegabile è quello di mangiare. Ma ciò non significa che chiunque abbia il diritto di portare via il pane dell’altro per mangiarselo, o di mangiare in modo tale da finire con l’aumentare quel flagello di obesi che oggi ci opprime. Racconterò alcune parabole per cercare di chiarirlo.

(1) Tutti hanno ovviamente il diritto di uscire per la strada: non viviamo in carceri, ma in città.

Ebbene: un giorno in una piccola città catalana dove si era accampato un circo per le feste, un leone fuggì dal circo e si mise a correre per le strade. Le autorità avvertirono che nessuno uscisse in strada perché c’era in giro un leone libero. Ed ecco che Don Leoncio Valiente, un noto politico già in pensione, si mise a gridare: «Ho il diritto di uscire per la strada! Nessuno può togliermelo!». E, per dimostrarlo, aprì la porta di casa e cominciò a camminare lungo la strada. Con sua grande disgrazia perché, in quel momento, il leone passò di lì e lo aggredì. Per fortuna, la forza pubblica che stava inseguendo il leone, riuscì a sparagli colpendolo sul fianco e ad abbatterlo, così che il nostro amico poté sfuggirgli, con un braccio sanguinante e mezzo rotto. Quando fu portato all’ospedale più vicino, Don Leoncio continuava a gridare: «Quel leone è una belva e bisogna ucciderlo», mentre un’infermiera cercava di dirgli che del leone già si erano occupati altri e, se sapeva che era feroce, perché era uscito per la strada?

Questo è l’inconveniente di invocare diritti in astratto, indipendentemente dalla situazione concreta in cui vogliamo esercitarli. Gli indipendentisti possono pensare che la giustizia di questo paese sia crudele e ingiusta o ritenere che sia giusta. Non importa. Fa lo stesso. Però, se sapevano che era crudele, perché allora si sono messi sulla strada indipendentista? E se la credevano giusta, perché adesso si lamentano della sentenza? È il grande pericolo di invocare diritti astratti.

(2) Ogni tanto, i quotidiani ci parlano di qualche pazzo che percorreva un’autostrada guidando in senso inverso.

Ebbene: supponiamo che uno di questi signori sia una persona che ha vissuto in Inghilterra, abbia una macchina con il volante a destra e sia abituato a guidare a sinistra. Sbarca la sua auto a Girona (città della Catalogna, ndr) e pensa: in Inghilterra non era un reato guidare a sinistra, avevo il pieno diritto (anzi l’obbligo!) di farlo e, se l’avevo là, ce l’ho anche qui. Quando lo arrestano e lo portato in tribunale si difende con questo argomento. E il giudice gli chiede se sa dove vive…

Ancora una volta siamo nell’errore delle affermazioni generali: perché un diritto valga allo stesso modo qui come là, si deve prima dimostrare che questo diritto non dipende da una legge locale ma che è universale e, quindi, viene prima di tutte le leggi. Ebbene, giuristi internazionali di prestigio sostengono che il diritto che una parte territoriale di un paese (si chiami Catalogna, Padania o Baviera) diventi indipendente non figura affatto nel diritto internazionale e che, dove è riconosciuto, deriva solo da una legislazione particolare di quel paese. Noi, semplici cittadini, non siamo giuristi per sapere se è davvero così. Ma almeno sembra chiaro che, laddove così tante voci autorevoli la pensano diversamente, non si può invocare quel diritto come una prova universale. Ancora: bisogna guardare al particolare concreto e non trincerarsi dietro generalità astratte.

(3) Potrebbe starci qui un’altra parabola più semplice: se una donna chiede al marito: mi ami? E questo si limita a rispondere: tu sai che amo tutti (o qualcosa del genere), ci sono ragioni per sospettare di questa risposta: perché quello che gli veniva chiesto era che rispondesse: «io amo te in particolare». Perciò è ipocrita che il presidente Torra dica (non importa quanto forte): «Sono contrario ad ogni violenza». Perché quello che ora dovrebbe dire è: «Condanno questa violenza particolare che ha devastato i capoluoghi catalani». Questo in concreto e non in linea generale: del resto, tutti sanno che non esiste una regola senza eccezioni.

E, perché si veda che questo non vale solo per la Catalogna, credo che in Spagna non ci sarà un vero superamento del franchismo, se buona parte delle nostre destre si limitano a dire che sono democratici e sono contrari alle dittature. Quello che bisogna sentire da loro è che condannino la dittatura concreta di Franco. Ma questo non lo sentiamo.

In base a questa necessità di linguaggi concreti e particolari, non generici e astratti, possiamo ora parlare del referendum.

«La pazienza tutto ottiene»

Questa celebre affermazione di una preghiera di Teresa d’Avila può darsi che non sia del tutto esatta. Ma almeno lo è, certamente, il suo contrario: «l’impazienza rovina tutto». Qui ha già rovinato tutto. Gli storici del futuro rimarranno allibiti quando sapranno che l’ex presidente Puigdemont aveva promesso di rendere la Catalogna indipendente in soli 18 mesi! Com’è possibile che un politico raggiunga un così alto grado di insipienza? E inoltre, i più machiavellici sostengono che l’unica cosa che si cercava era una reazione violenta del governo spagnolo per sentirsi così vittime, quale modo migliore per suscitare sentimenti indipendentisti. La prova è che per questo è scappato e si è nascosto.

Infine… Per mettere una goccia di umorismo, diciamo che Puigdemont non aveva nessuna Gigliola Cinquetti per cantare quel «non ho l’età per uscire sola con te… Lascia che viva un’indipendenza romantica». Con essa non starebbe ora a Waterloo ma potrebbe vincere un festival di Sanremo…

Ma la frase di Teresa sulla pazienza potrebbe costituire la cornice per cercare una soluzione: il sentimento comune che voglia essere spassionato concluderà che il problema catalano non ha altra soluzione che di giungere a una forma di referendum.

Non si tratta (come vuole questa destra spagnola tanto meno cristiana quanto più si proclama tale) di umiliare la Catalogna, ma, come diceva il grande politico catalano Pasqual Maragall,[4] di trovare una soluzione «sufficiente per gli uni e accettabile per gli altri».

So bene che una massima castigliana dice che «i referendum sono vinti dal diavolo». Il referendum sulla Brexit, o il dettaglio secondo cui Franco vinse tutti i suoi referendum, possono confermare questo detto. Ma se, come ho appena detto, non parliamo in astratto ma cerchiamo di rendere possibile questo referendum, forse quel pericolo può essere evitato. E questa concretizzazione richiede almeno tre condizioni:

(1) Il referendum dev’essere tenuto senza alcuna previa propaganda. Perché i fatti mostrano fino alla sazietà che in queste propagande si mente e si manipola sempre. Si promette irresponsabilmente il cielo per poi dichiarare che non è stato possibile per colpa degli altri. Le falsità del Regno Unito nel referendum della Brexit inglese, sono state riconosciute da loro stessi. E tuttavia, quando oggi i sindacalisti inglesi chiedono un altro referendum, non viene riconosciuto loro questo diritto tanto invocato prima.

(2) Il referendum deve essere tenuto davanti a un elenco il più completo possibile dei suoi vantaggi e svantaggi, e non potrà essere elaborato dai politici ma da tecnici in economia e in scienze sociali. O, in ogni caso, due elenchi diversi che rispondano a sensibilità diverse.

Si tratta semplicemente di scegliere sapendo nel modo più dettagliato possibile cos’è che viene effettivamente scelto, anziché lasciar presagire un sogno tanto bello quanto vago. Ciò che faremmo nel prendere qualsiasi nostra decisione personale.

(3) A seconda dell’importanza della decisione, è necessario stabilire un numero minimo di sì affinché il referendum sia valido. È noto che in ogni elettorato ci sono sempre circa un terzo di persone indecise che di solito cambiano il loro voto da un anno all’altro. Una vittoria minima, come quella della scorsa Brexit (51,9%), obbligherebbe a ripetere la consultazione ogni due o tre anni. Così nessun paese può vivere. Anche per questo il cambiamento di una Costituzione richiede sempre percentuali che di solito sono comprese tra il 60% e i due terzi.

Se l’obiettivo è così concreto e non si tratta di partire senza sapere dove andiamo, ci sono dei giuristi che sostengono, guardando l’articolo 92 della Costituzione spagnola, che, senza cambiare la nostra Costituzione, esistono risorse giuridiche che renderebbero legale un referendum nelle dette condizioni.

Conclusioni

Una vecchia favola del mediocre poeta Iriarte parla di un coniglio che fuggiva inseguito da due cani. Trova un altro coniglio e gli spiega che sta fuggendo da due levrieri. L’altro gli dice che non sono levrieri ma cani da caccia torturati. Cominciano a discutere e, mentre discutono, accade che «arrivano i due cani, i quali azzannano i due conigli distratti». E l’autore tira la morale della favola: «Coloro che, per discussioni di poco conto, lasciano ciò che importa, imparino da questo esempio».

In questa ora storica, non solo la Catalogna e la Spagna, ma tutto il pianeta è seriamente minacciato dal dramma del cambiamento climatico. È il momento in cui tutti dobbiamo essere più uniti che mai per alleviare almeno questo dramma già irreversibile che ci chiede molto se vogliamo sopravvivere. Se ci fermiamo a discutere di cose opinabili, è possibile che l’indipendenza avvenga attraverso una distruzione anziché con una marcia. Gli avvertimenti che recentemente la terra maltrattata sta lanciando sull’intera penisola iberica sono molto più gravi delle minacce della Corte Suprema.


[1] L’autore di questo scritto desidera rimanere anonimo perché in questi momenti, in Catalogna, non si bada alle cose che sono dette, ma solamente a chi le dice.
[2] Ex presidente del parlamento catalano, condannata a 9 anni di carcere.
[3] Termine catalano che significa saggezza, buon senso. Nella penisola iberica si dice che l’identità catalana è composta dal “seny” e dalla “rauxa” (collera) che si alternano tra loro.
[4] Ex sindaco di Barcellona durante i giochi olimpici del 1992 e poi Presidente della Generalità.

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