Colonia, il corpo nella terra di nessuno

(Marcello Neri)

Nei fatti di Colonia, e altre città tedesche, che si sono svolti nel corso di alcune, lunghissime ore notturne che festeggiavano il nuovo anno sono venute a concentrarsi tutta una serie di questioni la cui serietà va ben oltre la rassegna stampa martellante che, per un po’ di tempo, vi ha fatto eco. Questo intreccio rende ardua ogni interpretazione che voglia davvero rendere ragione di quanto successo. L’accaduto è ruotato tutto intorno al corpo. Corpo di donne come vittima, corpo di uomini come violenza. Donne che hanno dovuto patire il loro corpo come mera esposizione, superficie-oggetto da utilizzare a proprio piacimento da parte di estranei. Uomini che hanno usato il loro corpo come violenza che si sente legittimata a ogni intrusione. Se restituiamo i fatti di Colonia a questa loro arcaica durezza e miseria, allora essi appaiono immediatamente nella loro sconcertante quotidianità. Non passa giorno, qui da noi nell’Occidente dei diritti e illuminato, che qualcosa del genere, anzi di molto più drammatico e letale, accada alle donne nel loro corpo. Le tecniche del diritto possono, doverosamente, ampliare il potere giudiziario in merito; ma sarebbe un’illusione pericolosissima pensare che esse riescano a produrre da sé atteggiamenti corrispondenti alla tutela che mettono in campo. La cura rispettosa per il corpo, e per la dignità che in esso si inscrive, rappresenta il limite oltre il quale sembra non riuscire a gettarsi ogni democratica separazione dei poteri a salvaguardia delle cittadine e dei cittadini. Perché essa si pone su un livello altro, e tocca una radice profonda e primordiale del sentimento del potere stesso. Scisso fra sfera del privato e sfera del diritto, il corpo naviga in una sorta di terra di nessuno; e sono quasi sempre le donne che pagano il prezzo di un corpo diventato oramai apolide. La strumentalizzazione del corpo, sottratto a ogni fine, è pane quotidiano del nostro Occidente; che non si accorge di prendere così congedo da quell’idea di dignità umana che ha lentamente maturato tra mille traversie.

Certo Colonia non è stato solo questo, ma se non partissimo da qui ne mancheremmo una radice profonda e oscura innestata nel cuore della nostra stessa civiltà occidentale. La massa di uomini che si è abbattuta sul corpo delle donne è stata rapidamente identificata come di provenienza nord-africana. Corpo estraneo e sempre più pervasivo, legato all’altrettanto indistinta massa di profughi che si accalcano nei territori europei. E su questo sembra essersi concentrata, in maniera quasi esclusiva, l’attenzione mediatica, politica e dell’opinione pubblica. Eppure, quella massa di uomini nella stazione di Colonia non si è generata né d’incanto né per caso. Essa è stata convocata da una regia virtuale e digitale, servendosi dei loro corpi – non senza averli prima ben storditi e alcolizzati, con buona pace della religione e dei suoi precetti. L’anonimità della rete, sulla quale proiettiamo con disinvoltura sia l’intimità dei nostri desideri sia il recondito dei nostri impulsi sessuali scissi da ogni gesto del corpo, produce realtà nella quotidianità materiale dei nostri giorni. Ci sono nicchie della rete in cui l’intollerabile dei costumi si sente legittimato a un’espansione senza limiti, pensandosi del tutto innocente e privo di ogni conseguenza effettiva. Non si tratta però semplicemente di una proiezione digitale dell’inconscio e dei suoi lati oscuri, ma di una sua produzione incessante e smisurata in un luogo alieno che entra immediatamente in contatto con la vita reale e concreta dell’umano – senza nessun’altra istanza della psiche che possa gestirne la potenza e la violenza.

Una regia che gioca magistralmente nello spazio di questo enorme inconscio virtuale a cui tutti, chi più chi meno, ci concediamo ogni giorno. E che sa connetterlo perfidamente con le paure che si generano nella nostra quotidianità. Non a caso Colonia, dove il sindaco, una donna, è stata accoltellata poco prima delle elezioni comunali (ancora il corpo violentato) per le sue politiche sensibili alla situazione dei profughi. Partiamo sempre dalle grandi questioni, quelle che interessano a noi, come l’integrazione, le quote, le frontiere da controllare. Certo, questioni non irrilevanti per lo spazio pubblico; anzi. Ma l’umano, e lo spazio pubblico stesso, vivono e si nutrono anche di piccole cose. Sessualità, affetti, legami, gioco, dimora. Tutto questo vissuto minore è sconquassato dalla violenza patita da chi deve abbandonare la propria terra, i luoghi che lo hanno generato, la familiarità delle strade e dei volti di sempre. Certo, nel passaggio a Occidente si pone la questione della donna, della sessualità, nella cultura islamica. Ma non si può slegare questa domanda da quella di una migrazione forzata il cui gruppo maggiore è fatto di uomini e giovani soli, a cui non rimane altro che fare branco tra di loro – quelli che non finiscono sui giornali per via di una storia, serissima per chi la vive, venduta però in forza dell’impatto emotivo che essa crea nel fruitore mediatico occidentale. Corpi abbandonati a sé stessi e all’arcaico violento che neanche noi siamo riusciti a dominare per sempre.

Se diventa sempre più chiaro che il corpo, luogo della massima prossimità di ogni differenza dell’umano, sarà il banco di prova dell’ethos dei monoteismi religiosi, credo che intorno al medesimo corpo si giocherà anche la partita della futura civiltà europea e occidentale che stiamo plasmando più a forza di slogan e battaglie mediatiche, che con un pensiero capace di rendere onore all’umano che tutti siamo.

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