«Con gli occhi di mio figlio»

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Mentre il nostro Parlamento in questi giorni è impegnato nelle votazioni per trasformare in legge il cosiddetto decreto sicurezza bis (peraltro già entrato in vigore il 15 giugno), che mira a blindare le nostre acque territoriali, per impedire l’arrivo di navi delle ONG, il motopeschereccio di Sciacca «Accursio Giarratano», nella notte tra il 23 e il 24 luglio, ha soccorso un gommone con una cinquantina di migranti in procinto di affondare e non li ha lasciati finché, dopo un’attesa di diverse ore (“perdute” per la pesca), una motovedetta italiana non è venuta a prenderli per portarli a Lampedusa.

«Noi soccorriamo con tutto il cuore i migranti in difficoltà, e lo facciamo anche come omaggio alla memoria di mio figlio morto», dice l’armatore del peschereccio, Gaspare Giarratano, che ha perso un figlio di 15 anni per un male incurabile.

E aggiunge: «Tutte le volte noi facciamo il nostro dovere, sbracciandoci e aiutando uomini, donne e bambini, perché è giusto così (…). Come potremmo voltarci dall’altra parte di fronte alle richieste di aiuto che provengono da esseri umani, che possono essere anche bambini, che magari ci guardano con gli occhi di mio figlio? No, noi li salviamo, e lo facciamo anche pensando al mio ragazzo, perché lui era come noi, e da lassù ci benedice».

La grave questione del reggiseno

Ho letto questa notizia insieme a quella del naufragio che, poche ore dopo, ha coinvolto un barcone con a bordo trecento persone, di cui la metà sono morte affogate.

Cronaca ordinaria, ormai, che stenta a farsi strada sulle pagine dei giornali e nei notiziari, in attesa di un prossimo spettacolare braccio di ferro mediatico fra il nostro ministro degli Interni e una emula di Carola Rackete (magari concentrandosi poi per giorni sul suo reggiseno).

Eppure anche quelli erano figli di qualcuno. Non nostri, è vero, e lo dice la freddezza delle reazioni che ormai l’opinione pubblica ha di fronte a queste tragedie.

Perché se, invece, a morire è un giovane carabiniere italiano, appena al ritorno dal viaggio di nozze, riaffiora improvvisamente nell’opinione pubblica il giusto senso del dramma che ogni morte di uomo rappresenta Eppure le parole dell’armatore di Sciacca – «magari ci guardano con gli occhi di mio figlio» – riguardano sia gli stranieri morti in mare che il carabiniere barbaramente assassinato…

Al di là del «buonismo»

«Buonismo» a buon mercato? Oggi almeno un italiano su tre, a giudicare ai sondaggi, ne è convinto e contrappone a questi sentimentalismi la lucida analisi della ragione, tante volte esposta dal ministro Salvini: soccorrere i migranti è un danno per la nostra sicurezza e un favore fatto alle mafie che organizzano il traffico degli esseri umani, illudendo le loro vittime (che non sono affatto profughi, né poveri, altrimenti non avrebbero i soldi per pagare e non sarebbero per lo più giovani «palestrati», con tanto di smartphone) con il miraggio del facile benessere che avranno in Italia.

Il solo modo di evitare che queste persone muoiano in mare, o riescano a sbarcare per venire a minacciarci (è eloquente l’immediato tentativo di collegare l’uccisione del carabiniere alla presenza degli immigrati), è di spegnere sul nascere questa illusione, chiudendo i nostri porti.

Un dato di fatto

Per professione, oltre che come essere umano, ho sempre apprezzato la ragione (insegnavo filosofia). Perciò sono contento che il confronto non si svolga a livello di «buoni» sentimenti – naturalmente eliminando anche l’influsso di quelli «cattivi» di paura e di odio, che invece spesso vengono esibiti senza vergogna (a differenza degli altri) in questi dibattiti.

Ragioniamo, dunque.

E qui, però, la logica del discorso che sentiamo ripetere da circa un anno e mezzo – solo in questo, forse, il “governo del cambiamento” è stato sempre unito e coerente – mi sembra abbia contro sé almeno un dato di fatto, che non può essere contestato: dopo un anno e mezzo di proclami, di porti chiusi, di emarginazione delle ONG, di decreti legge uno più severo dell’altro, queste persone continuano a partire.

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Molti sbarcano in Italia – proprio nei giorni dello spettacolare duello tra i due «capitani» sulla sorte dei 42 migranti a bordo della «Sea-Watch», ne sono arrivati a Lampedusa centinaia, anche dopo i limiti posti alle navi delle ONG (vedi dichiarazioni del sindaco) –, molti non ce la fanno e annegano, molto più di prima, perché a causa di quei limiti e di tutte le difficoltà poste dal governo alle altre navi (la «Diciotti» era della marina italiana! Come lo è, adesso, la motovedetta «Gregoretti») ora i soccorsi sono molto più problematici.

Volevamo essere felici

A quanto pare, l’enorme apparato di difesa dei nostri confini dalla «invasione» (così viene definita da molti) non ha potuto bloccare un movimento che ha radici evidentemente molto più profonde di quelle attribuibili a un complotto criminale. Come le misure di Trump non hanno scoraggiato i migranti che dal Messico cecano disperatamente di passare negli Stati Uniti.

«Non è vero che sono profughi, sono “migranti economici”!», ho sentito spesso gridare con indignazione. «Tanto che hanno i soldi per la traversata». Anche i milioni di italiani che in passato sono emigrati negli Stati Uniti, in Argentina, in Belgio, non scappavano da guerre e avevano i soldi per il biglietto della nave.

Non erano miserabili, erano poveri. Il miserabile è uno a cui manca il necessario; perciò neppure è in grado di muoversi. Il povero è uno riesce solo a sopravvivere, ma non ha il superfluo che permette di vivere bene, di essere felice. Perché, per essere felici, «niente è più necessario del superfluo» (Oscar Wilde).

Non so cosa dicano loro le mafie, ma è sicuro che le persone che sfidano, tra violenze inaudite, i viaggi allucinanti nel deserto, gli spaventosi campi di detenzione della Libia, le traversate in condizioni estreme di disagio e di pericolo, non lo fanno solo per cercarsi palestre più attrezzate. Lo fanno – e sanno benissimo a cosa vanno incontro (non hanno gli smartphone?) – perché vogliono essere felici.

Come i nostri nonni. E, se è così, non sarà certo Salvini a fermarli.

Tutte brave persone?

Quanto all’obiezione, così spesso sollevata, che i nostri emigrati erano brave persone che volevano solo trovare lavoro, mentre questi sono parassiti e delinquenti, basta aver visto «Il Padrino» per apprendere che le grandi «famiglie» della mafia degli Stati Uniti non portano per caso nomi italiani – Genovese, Bonanno… –, ma perché erano di italiani emigrati.

Reciprocamente, basterebbe conoscerne meglio qualcuno per scoprire che gli immigrati non sono, nella stragrande maggioranza, fannulloni e criminali: è stata la politica dei governi precedenti che, con una finta accoglienza senza misure di integrazione, li ha condannati all’inazione e ha impedito loro di dare, nella maggior parte dei casi, il contributo delle loro capacità e delle loro competenze.

E il primo «Decreto sicurezza», distruggendo i pochi appigli esistenti per favorire l’integrazione, ha esasperato questa emarginazione, rendendo reale un pericolo di criminalizzazione che prima era abbastanza remoto.

Come i nostri ragazzi

Non vengono per aggredirci. Chiedono di essere accolti perché la nostra società può dare loro la possibilità di essere felici. Come i nostri figli che, ormai sempre più spesso, vanno a cercare opportunità di una vita migliore in altri Paesi, e che sono dunque anche loro «migranti». E se alla frontiera di questi Paesi i nostri ragazzi fossero bloccati, perché sono italiani (e quindi fannulloni e donnaioli), non ci indigneremmo?

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E se i governi stranieri per scoraggiare l’emigrazione in atto dei nostri ragazzi li costringessero a rischiare la vita per arrivare, e poi li lasciassero morire senza soccorso, puntando sul fatto che, con un po’ di italiani morti, gli altri si scoraggeranno e la smetteranno di cercare di «rubare» i posti di lavoro ai loro cittadini?

Non grideremmo, con tutta la nostra rabbia e la nostra disperazione – specie se uno di quei ragazzi fosse nostro figlio – che un governo e un popolo che fanno questo sono al di sotto della più elementare umanità?

Erano anche figli nostri

Certo, quelli che sono morti al largo della Libia l’altra notte, non sono nostri figli. E le grida di dolore dei loro genitori non arrivano fino a noi.

Non abbiamo così neppure bisogno di giustificarci spiegando che avremmo voluto «aiutiarli a casa loro» (una clamorosa bugia, perché il solo aiuto che finora i nostri governi – compreso quello attuale – hanno dato è consistito nel vendere armi per alimentare guerre civili e guerriglie).

Per questo possiamo sbadigliare davanti alla TV, quando ci segnala la notizia dell’ultimo naufragio. Mentre ancora ci indigniamo se a morire è un povero ragazzo italiano di 35 anni.

Eppure forse, al di là della cittadinanza giuridica e dell’appartenenza etnica, queste morti ci riguardano tutte. Perché i ragazzi che ora non vivono più – mi tornano alla mente le parole di Gaspare Giarratano – avevano tutti gli stessi occhi dei nostri figli…

Giuseppe Savagnone è direttore dell’Ufficio per la pastorale della cultura dell’arcidiocesi di Palermo. Post pubblicato nella rubrica «I chiaroscuri» (su www.tuttavia.eu), il 26 luglio 2019.

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