Congo, il gigante ferito

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Dalla caduta del presidente Mobutu Sese Seko, nel 1997, ad oggi, la storia della RDC (Repubblica Democratica del Congo) è stata ritmata da conflitti di diversa natura. Invasioni dai Paesi dell’Est (Ruanda, Burundi, Uganda), guerriglie fatte da sedicenti ribelli che provocano spostamenti di interi villaggi, lotte tribali con massacri di centinaia di persone che vedono coinvolte alcune etnie e lo stesso esercito nazionale (in Kasai), alcune manifestazioni politiche per lo più contro il presidente Joseph Kabila, nella capitale e in qualche città importante più politicizzata.

storia della RDC

In attesa delle elezioni

Da qualche settimana le notizie sul Congo-Repubblica democratica (ex Zaire, ex Congo Belga) si moltiplicano. Quando le notizie arrivano a noi, vuol dire che qualcosa di grave sta accadendo. Non mi riferisco tanto a calamità naturali, quali smottamenti di terreni, crolli di fatiscenti miniere artigianali o di incidenti fluviali con decine e decine di morti. Parlo di conflitti voluti per ragioni soprattutto economiche, che vedono la presenza di multinazionali interessate alle ricchezze forestali e del sottosuolo congolese.

Va detto, tuttavia, che questa informazione è ancora debole. Chi ha parlato del rapimento di cinque sacerdoti congolesi negli ultimi due anni? Forse, se si trattava di missionari europei si poteva sperare in una divulgazione seria della notizia…

Nell’ultima settimana di ottobre la signora Nikki Haley, ambasciatrice degli USA presso l’ONU, ha fatto un blitz a Kinshasa e a Goma, e ha detto che, entro il 2018, si devono fare le elezioni, e che per il presidente Joseph Kabila è venuto il tempo di andarsene.

Ecco il centro di interesse per questo Paese, la preoccupazione attorno alla quale accadono fatti anche dolorosi: le elezioni. Queste dovevano aver luogo nel dicembre 2016, ma niente era stato preparato. La Corte Costituzionale ha decretato che, nel caso di elezioni rinviate, il Capo dello Stato in carica, continuerà ad esercitare la sua funzione di presidente.

Tutti, al di fuori della cerchia ristretta del presidente Joseph Kabila, pensano che egli stia facendo di tutto per prolungare il proprio mandato.

Mentre un’opposizione molto divisa cerca di premere sul governo e sulla commissione elettorale (CENI) per stilare un calendario, vengono in superficie concrete difficoltà, quali la mancanza di un censimento previo, la distribuzione delle tessere elettorali, la logistica complicata per raggiungere tutti i centri abitati del Paese, il costo immane delle elezioni stesse, la formazione credibile di liste elettorali, il sostegno economico alla commissione elettorale, l’informazione e la formazione della gente per elezioni libere e trasparenti…

La signora Nikki Haley ha detto che, se non si preparano le elezioni per il 2018, gli USA toglieranno ogni supporto al Paese.

Una situazione ingarbugliata

Sostieni SettimanaNews.itAttorno a questo evento tanto atteso si registrano conflitti, riconosciuti o meno, che mettono la gente in uno stato di continua destabilizzazione, causando la morte di diverse persone ogni giorno.

Al Nord-Est, nel Kivu, molti villaggi si sono svuotati. La gente si ritira nella foresta e ricostruisce capanne sempre provvisorie. Chi fa scappare la gente sono dei cosiddetti ribelli (ma ribelli a chi? a che cosa?), residui misti di eserciti nazionali, disertori, Mai-Mai, profughi armati da Ruanda, Burundi e Uganda, membri della setta religiosa LRA(Esercito di resistenza del Signore), banditi comuni… Chi li sostiene? Certamente chi vuole destabilizzare la situazione per impiantarsi nel Paese come sfruttatore delle enormi risorse minerarie o forestali.

Difficile dare un volto preciso a tutti questi attori, anche perché, sotto le dubbie origini (congolesi o ruandesi) di Joseph Kabila, c’è il sospetto che queste guerriglie siano da lui accettate, se non proprio volute.

Dal 2016 sono state trovate decine di fosse comuni con centinaia di morti nella regione centrale del Kasai. In questi massacri sembrano coinvolte anche le forze armate nazionali.

Non si può tacere la morte di due agenti della MONUSCO, forza di peacekeeping delle Nazioni Unite che opera nella Repubblica Democratica del Congo, legata alla ricerca della verità su queste vicende. Come movente di questi conflitti figurano le lotte tribali, ma per ora è difficile avere una visione chiara di quello che sta succedendo.

Il 30 ottobre scorso alcuni movimenti di persone che protestavano contro il presidente e la sua permanenza al potere hanno subìto una dura repressione a Bini e a Goma, città del Nord Kivu, e causato la morte di una decina di persone, tra queste anche poliziotti e militari dell’esercito.

Al Nord i confini sembrano solo virtuali. Tribù intere si spostano dalla Repubblica Centroafricana e dal Sud Sudan. Ad Est, ruandesi, burundesi e ugandesi sono impegnati nello sfruttamento e nell’esportazione dal Congo di materie preziose quali il coltan, i diamanti, l’oro, l’uranio, il cobalto e il legname.

A Sud, ai confini con l’Angola, i movimenti di gente sono reciproci, con conseguente miscuglio di culture diverse e insufficienza di mezzi per vivere.

Tutte queste “invasioni” sono per lo più una nuova forma di oppressione operata dalle multinazionali che sfruttano il terreno e causano una guerra tra poveri per la sopravvivenza.

La vastità del Paese (la Repubblica Democratica del Congo è grande otto volte l’Italia ma con lo stesso numero di abitanti) non permette di avere una visione panoramica su tutte le sue regioni. Tra la capitale Kinshasa (con alcune città che superano i cinquecentomila abitanti) e il resto del paese c’è un abisso in diversi settori. In generale Kinshasa è nettamente un altro pianeta rispetto al resto della Repubblica. Ma anche nelle grandi città si possono trovare scuole private, meglio attrezzate e più valide di quelle statali, anche se più costose.

La vita commerciale è più viva. Si trova di tutto. Ma l’assenza di strade e ferrovie rende il resto del Paese un gruppo di isole condannate al débrouillage, l’arte di arrangiarsi. La maggior disponibilità di mezzi di comunicazione aiuta la formazione intellettuale e la conoscenza di tanti problemi che, all’interno, in foresta, sono completamente sconosciuti o mal compresi.

Paese vasto vuol dire anche molteplicità di problemi e diversità di situazioni. Cinque lingue ufficiali, due zone climatiche ben distinte, una infinità di tribù, ciascuna con la propria cultura, cambiamenti repentini di situazioni, una presenza capillare di sette… tutto questo rende difficile una visione globale della situazione.

Lo stato delle strade è pietoso. Il trasporto di viveri è difficile, spesso fatto da giovani che si aiutano con biciclette, affrontando difficoltà enormi e malattie spesso mortali. Tuttavia, anche nelle zone più interne, dove arriva una copertura telefonica, si usano cellulari e computer. L’avvento di piccoli pannelli solari dagli Stati vicini aiuta la gente ad avere il minimo di corrente per caricare lampade e telefoni, sentendosi un po’ più aggrappati al resto del mondo.

Volontà di riscatto

Ciò che in questa caotica situazione colpisce maggiormente è la capacità della gente di adattarsi ad ogni tipo di evento, come se fosse vaccinata contro lo scoraggiamento.

Questa gente vive con poco, soprattutto grazie al lavoro delle donne o all’inventiva dei giovani che scoprono nuove attività come il trasporto in bicicletta e in moto, per le persone e per le merci, o l’improvvisarsi cercatori d’oro e di diamanti.

Non c’è una cultura salariale. Lo Stato paga pochissimo e in ritardo i suoi dipendenti. La corruzione è presente a tutti i livelli. Spesso, la povertà costringe gli ultimi della società a diventare mendicanti e a cancellare ogni segno di dignità. Le imprese con operai regolarmente assunti sono poche e soprattutto di proprietà degli stranieri. I salari sono pagati in moneta locale per cui la svalutazione aggrava la situazione del dipendente.

Eppure, la gente ha voglia di vivere e di migliorare sempre più il proprio tenore di vita. Per questo si aggrappa anche alle sue tradizioni, alla sua storia, alla fede in un Dio che è soprattutto “onnipotente” (le Tout puissant).

Questa fede non ha confini definiti, non si riconosce sempre in una confessione precisa, cattolica, protestante, islamica, kibanguista… Essa trova spazi inimmaginabili in una miriade di sette, chiamate chiese del risveglio. Qui, pastori improvvisati usano la parola di Dio e le loro prediche per imbonire la gente, spesso per ingannarla, anche facendosi pagare. Questa gente, affamata e debole, canta e prega per ore ed ore. Voglio credere che il Dio di Gesù Cristo accolga queste lodi con gioia.

La Chiesa cattolica ha un ruolo ancora importante nel quadro politico e sociale della Nazione. Nei momenti di crisi, come nel 1991 e nel 2016, ha dialogato con le diverse parti politiche per aiutare il Paese ad uscire dalle crisi in cui si trovava.

Nel 1991 fu mons. Monsengwo, arcivescovo allora di Kisangani, a condurre con pazienza e saggezza la Conferenza nazionale sovrana.

Nel 2016 è stata chiamata la Conferenza episcopale a dirigere e ad accompagnare il dialogo per un accordo che permettesse le elezioni nel più breve tempo possibile.

Ormai i ministri della Chiesa cattolica sono prevalentemente autoctoni. I missionari stranieri sono sempre meno numerosi. C’è un fiorire importante di vocazioni locali alla vita religiosa e sacerdotale. Certamente questa situazione ha bisogno di discernimento e di purificazione, ma col passare del tempo la vocazione al sevizio della gente guadagna terreno e credibilità nei confronti di una vocazione più attenta a cercare di migliorare il proprio stato sociale.

Credo che, per certi aspetti, la diminuzione del numero di missionari stranieri aiuti le Chiese locali ad assumersi le responsabilità di un’evangelizzazione inculturata, e sentano sempre più necessaria anche un’evangelizzazione della cultura.

Questo rafforzamento dell’identità di una Chiesa più vicina alla gente sosterrà certamente anche il senso di appartenenza alla Nazione e un impegno concreto per migliorare la situazione di tutti. Ma tutti, Chiese, Stato, Istituzioni, singoli cittadini devono sentirsi chiamati a dialogare, a cercare il bene dell’intera Nazione, a formarsi e a formare ad una vita vissuta da protagonisti del progresso integrale. Questo avrà un inizio convincente se anzitutto l’istruzione sarà gratuita e raggiungerà tutti gli abitanti.

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Un commento

  1. LUISA BRACCO 17 novembre 2017

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