La Dc durante e dopo Moro

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Nel 40° anniversario dell’uccisione di Aldo Moro e dell’eccidio degli uomini della sua scorta non sono mancate le commemorazioni rievocative, generalmente improntate ad un grande rispetto per le persone e le famiglie coinvolte. Le smagliature, come quelle causate dai brigatisti rossi in disarmo che hanno ironizzato su presunti “festeggiamenti” commemorativi sono state prontamente cicatrizzate Le rivisitazioni mediatiche hanno in qualche modo fatto rivivere il clima di quei giorni terribili.

Facendo un bilancio complessivo, tuttavia, ci si accorge che qualcosa manca. Ed è una lacuna importante. Si parla dell’eccidio iniziale, dei 55 giorni dell’angoscia, della feroce catastrofe finale. Ma nessun faro si accende su ciò che nella realtà politica italiana era all’ordine del giorno con Moro vivo e ciò che ha costituito l’ordine del giorno dopo la scomparsa di Moro.

Un disegno strategico

Pare incredibile: di una tragedia tutta politica sembra si ignorino simmetricamente il prologo e l’epilogo, o meglio gli antecedenti e le conseguenze dei fatti accaduti. Che si tratti di una materia accidentata è fuor di dubbio, ma che, malgrado il tempo trascorso, non si riesca a metterla a fuoco in modo soddisfacente può essere solo il sintomo di un imbarazzo di cui in ogni ambito resta difficile liberarsi.

Per non smarrirsi nel labirinto dei particolari e delle versioni di convenienza, giova a questo punto rimettere a fuoco l’oggetto politico, il disegno strategico, che le Brigate Rosse intesero colpire con le loro esecrabili gesta.

Quando Moro fu rapito, il 16 marzo 1978, sembrava avvicinarsi al traguardo l’operazione di ricongiungimento, nella collaborazione governativa, tra le due forze principali che si erano combattute dalla fondazione della repubblica in poi: la Democrazia cristiana e il Partito comunista italiano.

Ostilità a sinistra

Nasceva, infatti, quel giorno un governo che, pur essendo esclusivamente democristiano, si sarebbe avvalso dell’appoggio parlamentare del Pci. Era la conclusione – se si vuole, la tappa decisiva – di un processo che si era accelerato dopo il 1973 con l’iniziativa di Berlinguer. Essa prendeva spunto dal golpe cileno (Allende vince ma è scalzato dai militari) per constatare che «non si governa col 51%» e che occorre puntare su un nuovo «compromesso storico» tra le forze che avevano fatto la Costituzione; e quindi su un governo che avesse la fiducia delle masse popolari riflettendone le istanze di libertà e giustizia.

Nel Pci sono molte le resistenze all’idea berlingueriana, e c’è pure un’ostilità forte verso di essa da parte dei gruppi di estrema sinistra che si sono formati dopo le prove del conflitto sociale degli anni ’70. Per chi ha convissuto con un progetto rivoluzionario non è agevole imboccare una via di collaborazione con una forza che l’ideologia classifica tra i nemici di classe.

Ma Berliguer insiste e, facendosi forte anche dell’«esaurimento della spinta propulsiva dell’URSS», sembra riesca a trascinare l’intero partito sulla nuova linea aprendo, inevitabilmente, un fronte di lotta alla sua sinistra.

La rete di Moro

Sull’altra sponda, Moro ha esaurito con il suo centrosinistra le ultime risorse della collaborazione tra la Dc e i socialisti. I governi succedutisi dal 1963 al 1968 hanno messo molta carne al fuoco ma non sono riusciti a cuocerla se non in una parte minima.

Il sommovimento in corso nel paese (giovani, studenti, operai) spinge Moro ad avvertire i democristiani che l’avvenire non è più soltanto nelle loro mani e che, per dare una risposta alla «società esigente», occorre mettersi in ascolto di tutte le forze vive, comprese quelle di opposizione, attraverso le quali «la politica ascolta il paese».

Anche Moro, come e più di Berlinguer, deve fare i conti con la resistenza interna del suo partito alla quale si aggiunge la grande diffidenza ecclesiastica verso ogni connubio con i comunisti, già fulminati dalla scomunica.

E qui Moro si applica alla tessitura di una tela che innanzitutto riduca il dissenso e poi si risolva in un consenso, ancorché condizionato, per la linea della solidarietà nazionale, dentro la quale la collaborazione con il Pci ha piena cittadinanza.

L’unità della Dc

Egli procede innanzitutto ad una ricognizione dei confini. L’elezione di Zaccagnini a segretario della Dc gli assicura una stagione di rilancio e di ritrovata popolarità della «balena bianca».

Le pressioni della gerarchia cattolica verso le aree ritenute più esposte alla penetrazione marxista (vedi le Acli) funzionano da vaccino contro i pericoli di fuga e di riduzione d’influenza della Dc.

Per scongiurare il più rilevante pericolo, quello della scissione, Moro aveva già ottenuto che la sinistra “sociale” di Carlo Donat Cattin recedesse dall’idea di partecipare all’iniziativa di Livio Labor per la creazione di un Movimento Politico dei Lavoratori, che sarebbe stato cancellato nelle elezioni del 1972.

Moro aveva una concezione bradisismica del metodo politico. Tanti piccoli passi coprono una grande distanza. Il gradualismo era la sua stella polare. I suoi avversari di partito (Forlani) gli addebitavano la tendenza a creare successivi «stati di necessità» ai quali rispondere con formule di governo e di alleanze sempre più spostate a sinistra.

Ma, mentre sottolineava l’urgenza dei tempi, Moro non mostrava di aver fretta. Nel suo ultimo discorso ai gruppi parlamentari, il 28 febbraio 1978, disse che la sua immaginazione non andava oltre i dodici mesi e che la formazione di una maggioranza che includeva il Pci era il massimo-minimo sul quale per il momento riteneva di attestarsi. La presidenza di Andreotti e la struttura del governo sarebbero state altrettante cautele verso la ben nota diffidenza degli Stati Uniti.

A questo punto, erano le cose, quando le raffiche di Via Fani certificarono che tutto stava cambiando.

Mancata coltivazione        

Fin qui il prologo. Quanto all’epilogo, il primo punto da mettere a fuoco è un dato oggettivo: e cioè che, dopo l’assassinio di Moro, il tema della solidarietà nazionale non venne ulteriormente coltivato.

Il Pci – a dire il vero – affermò che si doveva continuare su quella strada addirittura con un rinnovato slancio, che avrebbe trovato coronamento nell’ingresso dei comunisti al governo. Guardando le cose ora per allora, si direbbe che era una richiesta ragionevole e poteva costituire una risposta simmetrica all’offesa delle Brigate Rosse: volevate interrompere la nuova collaborazione e noi dimostriamo di volerla continuare e rafforzare. Ma non ci furono riscontri positivi a questa suggestione, che anzi venne largamente esorcizzata.

La Democrazia Cristiana si reimmerse rapidamente nelle tattiche abituali, declinando il suo «dovere di governare» sul metro delle concrete possibilità offerte dalla situazione. Esaurita la funzione del governo Andreotti, fu Francesco Cossiga ad assumere la guida di un nuovo esecutivo. A poco più di un anno dalla tragedia, gli uomini della DC mostravano di averne metabolizzato i veleni e si immergevano con la consueta lena e spesso con accresciute ambizioni nel disbrigo degli affari di stato.

Il distacco di Zac

Solo Zaccagnini si distingueva per un distacco che parve a chi scrive come addirittura autolesionista quando, alla vigilia del primo congresso dopo la morte di Moro, lo stesso Zaccagnini annunciò che non si sarebbe ripresentato come segretario.

Rammento uno scambio a quattr’occhi una sera a Piazza del Gesù (avevo preso l’abitudine di frequentare la sede della Dc durante i 55 giorni dell’angoscia). «Mi pare un errore che tu abbandoni», gli dissi. E lui, sicuro: «Non insistete, non cambio idea». Allora gli domandai se avesse in mente il nome di un successore… omogeneo, per esempio Guido Bodrato. E lui con distacco: «Veramente si pensava a Piccoli». Piccoli era il capo dei dorotei.

Ma il ricordo più vivo che ho di questa vicenda è quello del congresso che si svolse di lì a pochi giorni. Sarebbe stata per me, allora presidente delle Acli, un’occasione per accreditare, insieme, l’autonomia della mia organizzazione dai partiti e la sua disponibilità a collaborare per favorire quella che chiamavo «la crescita politica della società civile». Quando però venne il mio turno, feci una cosa che non avevo mai fatto prima e che mai avrei ripetuto: ringraziai per l’invito, consegnai l’intervento, augurai buon lavoro e tolsi il disturbo.

Una caldaia in bollore        

Dalla tribuna degli oratori la platea e le gradinate del Palazzo dei congressi mi parvero come una caldaia in ebollizione. Grida, contumelie e persino una bestemmia. L’assemblea si era spaccata sul punto se fosse possibile o meno immaginare quel che la logica della solidarietà nazionale, vivente Moro, dava per acquisito, salva la gradazione dei tempi. I comunisti al governo? Tutti dicevano: «Subito no», ma Zaccagnini, nella sua relazione, aveva sostenuto che il rapporto con il Pci andava mantenuto «nello spirito della solidarietà nazionale». Che voleva dire?

L’uditorio al quale dovevo rivolgermi era stato allestito per applaudire l’on. Bisaglia, esponente veneto ostile al connubio. Aveva già rumoreggiato quando avevano parlato Franco Salvi e Paolo Cabras esponenti dell’area Zac, il primo amico intimo di Moro.

La nuova esclusione

Per le sinistre Dc il congresso del 1980 fu una sconfitta irrimediabile. Il cui segno distintivo fu costituito dal così detto “preambolo”, una paginetta scritta da Donat Cattin e firmata da Donat Cattin, Piccoli, Fanfani e Prandini, la cui frase chiave era la seguente: «Il congresso, pur rilevando l’evoluzione fin qui compiuta dal Pci, constata che le contrastanti posizioni tuttora esistenti sui problemi indicati non consentono alla Dc corresponsabilità di gestione con quello stesso partito». Il testo evocava poi anch’esso lo «spirito della solidarietà nazionale», ma restringendone l’ambito alla «pari dignità delle forze politiche che intendono collaborare».

Da quel momento, l’intero quadro politico venne orientato a ricercare le condizioni per una collaborazione governativa la più larga possibile, a patto che ne fossero esclusi i comunisti. I quali, dal canto loro, non ebbero via di scampo diversa da quella del ripristino dell’opzione per l’alternativa di sinistra, da gestire con un Psi che, nel frattempo, avendo un disegno di potere, stringeva vincoli con la Dc del “preambolo” in tutte le sue espressioni.

                                               ***

Il mondo è cambiato più volte da quei tempi, e oggi non c’è spazio per occuparsi di ipotesi improponibili. Resta da segnare il fatto che, anziché onorare la memoria di Moro rilanciandone la politica, si preferì abbandonarla esplicitamente per inoltrarsi su sentieri che non hanno risparmiato al nostro paese le piaghe della crisi.

Nessuno può sapere che cosa sarebbe accaduto se quell’esperimento degli anni ’70 non fosse stato troncato dalle Brigate Rosse prima e dalle forze politiche poi, ma nessuno è autorizzato ad affermare che sarebbe stata senza esiti positivi, per la democrazia italiana, una collaborazione aperta tra forze diverse ma di natura popolare, sui temi della pace, del lavoro e dello sviluppo democratico.

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