Draghi: forte o mediatore?

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«Ci vediamo in Parlamento». Si dice che Mario Draghi abbia concluso ogni consultazione coi gruppi parlamentari con questa frase. Una frase che, se la intendiamo correttamente, non è solo un generico “arrivederci, a presto”, ma indica che non ci saranno particolari occasioni di “contrattazione” sulla struttura del nuovo governo, coi partiti.

L’appuntamento, per questi, sarebbe dunque fissato direttamente all’aula, per il voto di fiducia: in tale occasione, prendere o lasciare, a prescindere da precedenti trattative sulla composizione del governo, sui nomi, sui ministeri.

Questa ricostruzione di Draghi che – solo – si erge contro la prassi “contrattatoria” dei partiti è forse un po’ troppo “eroica”. In linea con un certo fumus adulatorio che si è respirato in questi giorni: senza nulla togliere alla straordinaria caratura e spessore della figura.

Indubbiamente, però, l’aneddoto del «ci vediamo in Parlamento» centra il problema fondamentale che Draghi deve affrontare per far nascere il proprio governo. Ossia: quanto decidere autonomamente, facendo leva sulla forza intrinseca del suo incarico, o quanto mediare con le forze politiche, nella speranza di costruire davvero un clima più collaborativo e responsabile?

Fidarsi dei partiti?

Mattarella – forse un po’ a sorpresa, ma nemmeno tanto – incaricando Draghi ha tagliato di colpo lo spettacolo indecoroso delle trattative in atto attorno all’ipotesi di un “Conte Ter”. Non possiamo pensare che – soprattutto i partiti della passata maggioranza giallorossa, ad esclusione di Italia Viva – siano molto contenti di questo “taglio”. E nemmeno quelli che speravano di andare a votare.

Insomma, al di là delle dichiarazioni ufficiali, Draghi è per molti un boccone amaro, che tocca mandar giù – anche per responsabilità, ci mancherebbe – ma che non si ha intenzione di masticare troppo a lungo. Prima o poi la “politica” vorrebbe tornare in campo.

Così, passato l’immediato spaesamento, le forze politiche, nel giro di appena 24 ore, si sono rapidamente adattate al nuovo scenario (dando, sia detto per inciso, l’ennesimo fulgido esempio di italica resilienza). Chi fino al giorno prima diceva «mai senza Conte», si è trovato a tessere l’elogio dell’imprescindibile Draghi. Chi aveva per anni attaccato i poteri forti, le banche e le euroburocrazie, si è trovato – non senza qualche difficoltà intestina – a sostenere il tentativo dell’ex capo della BCE.

Persino Salvini, smettendo in fretta i panni sovranisti e antieuropeisti – invero da qualche tempo un po’ sdruciti e impolverati – ha trovato modo di riallinearsi, “per il bene dell’Italia”, ha detto lui, o forse – più probabilmente – richiamato alla realtà dalla sua base industriale lombarda e triveneta.

Se, da un lato, è positivo che si trovi, in un momento così tragico, una responsabilità e un linguaggio politico meno aggressivo e populista, dall’altro, non può sfuggire l’elemento strumentale di alcuni di questi riallineamenti repentini su Draghi e il suo tentativo.

«Se non puoi batterli, unisciti a loro», diceva un vecchio adagio giornalistico americano. Che però, secondo molti, risale invece a Giulio Cesare: in ogni caso, un detto assolutamente degno del machiavellismo che contraddistingue in ogni età la politica italiana e romana. E che anche questa volta a Roma viene applicato con solerzia e coerenza. Con la sola esclusione della Meloni, che proverà a lucrare dalla corsa in solitaria all’opposizione: un machiavellismo anche questo, ad essere maligni, visto che i sondaggi dicono che c’è a disposizione un “appetitoso” 25% di italiani ostili alla soluzione Draghi.

Il risultato di questa “corsa a stare con Draghi” da parte di quasi tutte le forze politiche è in realtà molto pericoloso, in primis per Draghi stesso. Non solo perché una “maggioranza” così larga contiene troppe contraddizioni, che saranno difficili da gestire. Ma anche perché un altro comandamento del machiavellismo italiano completa e migliora il detto cesariano: «se non puoi batterlo, unisciti a lui, o meglio ancora fingi di farlo e, nel frattempo, fai tutto il possibile per consumarlo».

Un esempio luminoso di applicazione di questa strategia di “soccorso al vincitore” (ma un soccorso mortale) si ebbe all’interno del Pd quando Renzi era sicuro, largo e preannunciato vincitore del Congresso del 2013 e ancora del 2017: sarebbe divertente rifare ora i nomi di chi lo sostenne allora, e ne ha poi dall’interno zavorrato l’azione (e magari adesso lo insulta pubblicamente).

Ma strategie di “falsa affiliazione al vincitore annunciato” si registrano quasi quotidianamente nelle elezioni delle categorie economiche, nelle imprese, nelle curie, rivolte al “potere forte” di turno. Per poi passare alla fase di “silenziosa limatura” dall’interno.

Come potrebbe delinearsi questa “consunzione” quotidiana dall’interno, nel caso di Draghi? Due aspetti da valutare: le scelte quotidiane di governo, e la prospettiva personale di Draghi.

Le difficili scelte che attendono il Governo

Con riferimento al primo aspetto, Draghi dovrà decidere se e cosa fare, cosa mettere in programma. Certo, vaccinazioni, lotta alla pandemia, ristori e difesa dell’occupazione, con lo strumento imprescindibile del Recovery Plan: un piatto condiviso da tutti, e più che lusinghiero, se portato a termine.

Ma il Recovery Plan reca con sé – anche per esplicita richiesta della UE – un inevitabile pacchetto di riforme: vorrà Draghi esimersi dal tentare di affrontare problemi annosi come la riforma della PA, delle leggi sulla programmazione delle infrastrutture, lo stesso nodo della giustizia, senza i quali è ben difficile che l’Italia utilizzi i fondi per la ripresa rapidamente, e torni ad attirare investimenti?

Draghi non ha una sua maggioranza, ovviamente. Non ha alle viste propri partiti e gruppi parlamentari. Quasi tutti i partiti che lo sostengono hanno dovuto affrontare forti tensioni interne (vale per tutti, da Leu alla Lega, passando per il Pd, esclusa forse solo Forza Italia). Prima o poi (al più tardi a marzo 2023) si dovrà tornare a votare: nessuno vorrà passare per quello che ha limitato Draghi, e con lui, le poche residue speranze del Paese; ma nessuno vorrà pagare più di tanto al suo elettorato, affrontando lotte intestine, scissioni, o impopolarità per aver avallato scelte non in sincronia con le proprie esigenze. Significativa, in questo senso, l’impasse dei Cinquestelle su Rousseau.

Non necessariamente per malizia, allora, ma per calcolo, i partiti potrebbero alzare gradualmente, nei mesi, i toni del confronto. Draghi potrebbe trovarsi a dover tenere quotidianamente insieme i pezzi di un consenso parlamentare molto ampio, ma molto fragile.

Dovrà scegliere se tenere sempre insieme tutti – limitando il suo raggio d’azione al minimo comune denominatore di forze molto diverse – oppure se forzare sui veri obiettivi, trovandosi con maggioranze parlamentari ogni volta diverse, e quindi con la tensione che cresce. Il rischio di sprecare energie e di impaludarsi, sarà alto.

Il futuro personale di Draghi

Un secondo punto che potrà determinare il clima di lavoro nei prossimi mesi, riguarda il futuro di Draghi come persona. Certamente, molti vorranno chiudere il suo governo al più presto, e l’elezione del prossimo presidente della Repubblica (gennaio 2022, tra meno di un anno) è l’occasione ideale. Draghi è da sempre il candidato naturale.

Ma se davvero ora diventasse Presidente del Consiglio, la faccenda sarebbe complicata: pochi ne parlano, ma non è mai capitato di eleggere il capo del Governo in carica al Quirinale. Immediatamente, l’incompatibilità delle due cariche porterebbe Draghi al Colle (a scegliersi il suo successore…!) e il vicepresidente del Consiglio a sostituirlo alla guida di un Governo precario che, forse, dovrebbe gestire nuove elezioni. Faccenda davvero complicata. Anche perché scegliersi oggi il vice – in una ipotesi del genere – per Draghi diventa delicatissimo. Fonte di tensioni ulteriori, si capisce bene.

Se invece, come appare auspicabile per il bene del Paese (visto che in 11 mesi non si esaurisce certo il Recovery Plan) Draghi non diventasse Presidente della Repubblica e restasse in carica fino a fine legislatura, allora le tensioni sarebbero tra i partiti anche maggiori. Facile intuire la paura che un Governo ben funzionante finisca per ipotecare anche la prossima legislatura: chi scalzerebbe Draghi dopo due anni di buon governo? Ma chi si sente elettoralmente più forte, vuol rinunciare alla prospettiva di Governare “politicamente” e da protagonista anche dopo il voto del 2023?

Insomma, gli scenari non sono affatto facili per Draghi. Non lo sono oggi, in questi giorni che precedono il varo del suo Governo, e rischiano di non esserlo nemmeno in prospettiva: perché a fronte del senso di responsabilità di tante personalità politiche, tanti fuochi – quelli che abbiamo appena accennato – coveranno sotto la cenere, e porteranno le forze parlamentari a giochi di posizionamento che renderanno dura la vita al nuovo Presidente del Consiglio.

Un Draghi duro o un Draghi mediatore?

Diventa allora decisivo sapere che scelta farà Draghi in queste ore, tra governo di tecnici e governo di politici, in primis. Ma – più di questo – se la compagine sarà concertata coi partiti o sarà decisa unilateralmente da lui, anche laddove scegliesse qualche nome all’interno dei partiti stessi (certamente, guardando ai nomi più presentabili, competenti e politicamente tutelanti).

Quel «ci vediamo in Parlamento» potrebbe allora significare che Draghi si sta orientando – prevalentemente, forse non esclusivamente – verso la strada del governo pienamente deciso da lui in autonomia, naturalmente con le spalle ben coperte dal Quirinale. Che è il principale “mandatario” di questo governo e certamente non si sottrarrà al compito quotidiano – certo, col consueto stile istituzionale – di difenderlo dai machiavellismi dei partiti meno contenti della soluzione Draghi, ma saliti lo stesso a bordo.

Se così fosse, non solo nella creazione della squadra, ma anche nel programma e nella sua attuazione, Draghi forzerà i partiti, quotidianamente. Al di là dell’ascolto sempre cortese, della propensione a non alzare i toni, probabilmente Draghi – se vuole fare quello che serve al Paese – dovrà spesso forzare, facendo leva sul suo essere “ultima spiaggia” senza alternative vere.

Allora le tensioni nel sistema politico saliranno, ma non potranno pubblicamente sbollire. E se Draghi avesse in mente una prospettiva non di 11 mesi, ma di legislatura, queste tensioni potrebbero fare implodere tanti partiti, generare più profondi distinguo, scissioni, riaggregazioni. E potremmo tra qualche anno trovarci in un quadro politico significativamente diverso da quello odierno. Dalle scelte di impostazione che Draghi compie in queste ore, dunque, potranno discendere effetti duraturi per la nostra politica.

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