Elezioni europee: una prima lettura

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Elezioni europee

Dalle elezioni europee è scaturito un quadro complesso e in movimento che è difficile ricondurre a chiare e sintetiche chiavi di lettura, specie a poche ore dal voto. Prescindendo cioè dalle dinamiche che esse metteranno in moto tra gli attori-protagonisti e che ancora non conosciamo: gli stati, i governi, i partiti e le loro famiglie politiche europee. Dunque, solo qualche spunto provvisorio. Cominciando dallo scenario europeo.

L’Europa tiene

Come da più parti si era osservato alla vigilia, questa volta come mai in passato, in discussione era la stessa ragion d’essere della costruzione europea. Bene: pur in un quadro articolato, intessuto di luci e di ombre, si può notare che non è passata la sfida di chi mirava ad affossare l’Unione. Essa e il modello di democrazia liberale sul quale si regge hanno resistito. I nazionalismi e i sovranismi non hanno sfondato. Basta considerare la composizione del parlamento sortito dal voto: le formazioni europeiste in senso lato sono ancora largamente maggioritarie. A fronte di un calo delle due famiglie politiche storicamente maggioritarie, Popolari e Socialisti, si registra il buon risultato dei liberali dell’Alde e l’exploit dei Verdi (tedeschi, austriaci, francesi).

A questo risultato ha concorso la buona affluenza al voto dopo lunghi anni di contrazione. Si può azzardare: originata dalla consapevolezza appunto della portata della sfida rappresentata dalle forze antieuropeiste. Intendiamoci: gli antieuropeisti e gli euroscettici sono avanzati nel loro complesso, ma in misura minore rispetto alle attese e comunque nella futura assemblea parlamentare occuperanno meno di un quarto dei seggi. Conseguenza?

L’asse politico non cambia. Probabilmente a popolari e socialisti si aggiungeranno i liberali e forse i verdi. Non vi sarà un radicale cambiamento delle regole della UE. E tuttavia sarebbe un errore se la maggioranza politica europeista non introducesse sensibili correzioni a quelle storture e a quelle politiche che palesemente hanno gonfiato le vele dei movimenti sovranisti.

Dalle regole di bilancio, al patto di stabilità e crescita, alla (non) politica migratoria comune, all’impasse rappresentato dal principio della unanimità delle deliberazioni in troppe materie in sede di consiglio europeo dei capi di stato e di governo. Specie se si considera che le destre antieuropeiste, pur, come si è notato, minoritarie complessivamente, hanno tuttavia conseguito un successo in paesi significativi quali Italia, Francia, Inghilterra (al netto della sua singolarità e del suo imminente congedo dalla UE) e nei paesi del gruppo di Visegrad, come Polonia e Ungheria. In questo contesto, è motivo di preoccupazione la prospettiva del nostro isolamento.

È la prima volta che l’Italia è guidata da un governo sostenuto da partiti estranei e persino ostili alla maggioranza politica operante nelle istituzioni europee. Dunque, prevedibilmente, un’Italia fuori dalle postazioni che contano negli organismi comunitari (merita notare che, sino a oggi, italiani sono il presidente del parlamento UE, il governatore della Banca centrale europea, l’Alto rappresentante della politica estera, per statuto vicepresidente della Commissione). Di qui la certezza che l’Italia e il suo governo non beneficeranno di sconti dai nuovi vertici sulle materie per noi sensibili come conti pubblici e immigrazione.

Ricadute interne

E qui veniamo alle ricadute del voto sulla politica nostrana. In sintesi i risultati: la vittoria eclatante della Lega, il drastico ridimensionamento dei 5 stelle, una limitata ripresa del PD, l’ulteriore calo di FI cui corrisponde l’avanzamento di Fratelli d’Italia, il mancato quorum (4%) di + Europa della Bonino e di Sinistra italiana.

Nell’ordine. Salvini è a tutti gli effetti il vincitore di questa consultazione e può così consolidare la propria egemonia sul governo. Al momento egli non ha interesse ad andare all’incasso con nuove elezioni politiche dopo avere staccato la spina all’esecutivo. Ma ha già annunciato che intende portare a casa sollecitamente i provvedimenti che gli premono: flat tax, autonomia regionale differenziata, decreto sicurezza 2, Tav e infrastrutture… Misure che metteranno in tensione i 5 stelle condannati a un ruolo subalterno e ancillare.

I numeri documentano un crollo del M5S al nord. Le percentuali al sud sono ancora elevate (e già questa esorbitante concentrazione territoriale del consenso rappresenta un limite), ma ad esse corrisponde un forte contrazione di voti reali, prodotta da una bassa affluenza alle urne nel Mezzogiorno. Essi palesemente pagano il prezzo di una esperienza di governo che ha allontanato una parte cospicua dei loro elettori e si prospetta un tempo che semmai acuirà la loro subalternità. Né evidentemente hanno pagato gli estemporanei, tardivi, dialettici distinguo dal partner leghista nello scampolo finale della campagna elettorale.

Sarà questo il fronte più critico, quello sul quale il governo potrebbe vacillare. Sempre più i pentastellati saranno alle prese con un dilemma e attraversati da una potenziale linea di frattura: resistere nel sostegno ancillare a un governo che si è dimostrato eroderne il consenso, nel terrore di elezioni che di sicuro ne falcidierebbero la consistenza parlamentare (quando mai essi potrebbero eguagliare il 32% dello scorso anno?) ovvero staccargli la spina, certificando così il fallimento della loro missione politica.

Nell’una e nell’altra ipotesi, i 5 stelle non potranno non porsi il problema di una leadership personale, quella di Di Maio, che fa tutt’uno con una esperienza politica e di governo dimostratasi per loro fallimentare.

Il PD di Zingaretti

Il PD di Zingaretti può rivendicare una ripresa dopo anni di sistematico arretramento e – è cosa significativa dal punto di vista simbolico e politico – il sorpasso dei 5 stelle. Già si era avuto un segnale in tal senso nei test regionali. La unità interna a un partito tradizionalmente litigioso gli ha giovato e il risultato, ancorché non eclatante, lo mette al riparo dalla ripresa di tali tensioni.

Zingaretti, esagerando, ha salutato il voto come il ripristino in prospettiva di una sana polarità tra destra-centro e sinistra-centro (raccolto intorno al PD) che archivierebbe quella recente tra nazional-populisti e “resto del mondo”. In realtà quel giusto obiettivo è ancora lontano: per i numeri, perché quel “campo largo” è al momento ancora stretto, perché la politica delle alleanze finalmente ripresa da Zingaretti dopo la presunzione/velleità dell’autosufficienza renziana ancora sconta l’isolamento (quali concreti alleati? + Europa al 3% e Sinistra italiana all’1,5%). E anche perché, a fronte della ripresa, sta la bruciante sconfitta di Chiamparino in Piemonte, che consegna al centrodestra a trazione leghista l’intero nord Italia.

Le “isole rosa” di un PD in discreta salute nelle grandi città, a cominciare da Milano e Roma, per converso, ribadiscono un problema ormai annoso: quello di un partito di “sinistra” confinato nelle aree urbane e in difficoltà nelle periferie e tra i ceti popolari.

Nel breve periodo, si può supporre che il governo reggerà grazie ai due partner ma per ragioni opposte: Salvini perché forte e confermato nella convinzione che l’attuale formula lo rafforza ulteriormente sancendone l’egemonia, Di Maio a motivo della debolezza, dell’assenza di soluzioni alternative e del terrore di nuove elezioni. Ma la navigazione del governo si prospetta tutt’altro che agevole per l’altra faccia delle medesime ragioni: il travaglio dei 5 stelle, la tentazione della Lega di andare all’incasso, una conflittualità sul merito delle questioni in agenda.

Su tutto la futura legge di bilancio “lacrime e sangue”. Forse il vero, decisivo ostacolo per lo stesso Salvini oggi trionfante sarà la realtà della nostra economia imballata e dei conti pubblici fuori controllo. Perché anche la realtà, al dunque, si prende le sue rivincite e i cicli politici si accorciano. Do you remember Renzi?

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