Francesco e Trump: distensione, non armistizio

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Francesco e Trump

Indipendentemente dalla loro inclinazione teologica, i sostenitori di Trump dovrebbero essere contenti delle moderne riforme del Vaticano: fino a pochi decenni fa un papa non avrebbe mai ricevuto in udienza un capo di Stato pluri-divorziato, accompagnato da sua figlia convertita al giudaismo. Per fortuna, questo non è stato un problema per la famiglia Trump, che accompagnava il presidente nella sua visita di Stato. Ma il vero evento è stato che il veloce passaggio del quarantacinquesimo presidente degli USA in Vaticano non si sia segnalato per eventi di particolare rilievo. Questo non significa che non sia successo nulla, anzi.

Durante il lungo viaggio internazionale del presidente, la visita in Vaticano era quella meno problematica da un punto di vista strettamente diplomatico. Tuttavia, il Vaticano, se comparato con l’Arabia Saudita e Israele, rappresentava anche il clima politico più distante delle tre tappe del «viaggio interreligioso». Ciò che divide politicamente Trump da papa Francesco non divide Trump dal re Salman o dal primo ministro Netanyahu. La tensione creatasi attorno all’incontro con Francesco (e non a quelli con i leader sauditi e israeliani) è stata una prova ulteriore del fatto che il viaggio interreligioso del presidente non riguardava in realtà la religione, eccezion fatta per la religione politica del neo-costantinismo. Il viaggio serviva a comprendere in che modo l’attuale amministrazione americana può utilizzare la religione per un fine politico (la lotta contro il terrorismo, in particolare il complesso anti-Iran), senza cambiare in nulla la narrazione dell’amministrazione circa la religione (la visione antimusulmana mondiale): per certi versi la religione del trumpismo è il legame presidenziale con le politiche dell’evangelicalismo bianco, la cui sostanza teologica è oggi negli Stati Uniti pericolosamente ridotta al vangelo della prosperità.

Nel suo discorso in Arabia Saudita, Trump non ha riconosciuto quanto era appena accaduto in Iran con la rielezione di Rohani, e ha offerto un’immagine parallela a quella del discorso di Francesco al Cairo di appena tre settimane prima: due traiettorie parallele che non si incontrano. Il viaggio ha confermato l’inadeguatezza storica, culturale e teologica della Casa Bianca di Trump: il protocollo estremamente formale e strutturato del Vaticano non ha offerto molte occasioni di mostrare tale inadeguatezza. L’incontro personale tra Trump e Francesco è durato ventinove minuti e la loro conversazione privata ha creato alcune connessioni sul piano personale tra i due (e con la famiglia del presidente: per Francesco è molto importante incontrare le famiglie di tutti i suoi interlocutori), ma non ha colmato la distanza tra le rispettive visioni del mondo. È stata un’opportunità per rendere familiare la Casa Bianca con il cattolicesimo globale non americano – aspetto importante per l’amministrazione Trump, più nazionalista di quelle dei suoi predecessori.

Non dovrebbe sorprendere che non siano menzionate nella breve dichiarazione della Santa Sede alcune questioni delicate, come ad esempio l’ambiente: le aree di disaccordo non vengono menzionate in questo genere di dichiarazioni ufficiali. Il fatto che l’ambiente non sia indicato significa che la distanza rimane. E non solo sull’ambiente. Vi sono alcune discrepanze interessanti tra il comunicato finale rilasciato dalla Santa Sede e dalla delegazione statunitense sull’incontro con il papa e sull’incontro successivo con il suo segretario di Stato, il card. Parolin: la Casa Bianca non menziona l’immigrazione, mentre il Vaticano lo fa (qui).

Al di là degli incontri e delle dichiarazioni, il colloquio va letto nel suo contesto. Anzitutto, il calo delle aspettative nella settimana precedente il 24 maggio ha indicato che l’interesse primario delle parti era che il colloquio si tenesse per ristabilire le relazioni dopo un periodo di straordinaria difficoltà, iniziato a febbraio 2016 con uno scambio tra Francesco e Trump in seguito alla conferenza stampa del papa sul volo di ritorno dal suo viaggio in Messico. Il consenso diplomatico previo dato dal Vaticano alla nomina di Calista Gingrich come ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede (resa pubblica cinque giorni prima del colloquio tra il papa e il presidente) va nella direzione di non esacerbare una relazione particolarmente delicata.

Secondo, le attese delle parti erano molto diverse e sbilanciate. Mentre incontrava il papa, Trump aveva dinnanzi solo il papa e il Vaticano. La sua legittimazione politica e morale è molto diversa da quella del papa, e di un papa come Francesco in particolare. Dall’altra parte della scrivania, mentre incontrava Trump, papa Francesco doveva tenere a mente non solo l’uomo davanti a lui, ma tutta la lunga serie di controparti e obiettivi del nuovo presidente americano – i vescovi degli Stati Uniti, i cattolici americani, il mondo contemporaneo, i migranti e i rifugiati e anche le altre religioni (incluso l’islam) – che in qualche misura contavano sul papa affinché parlasse con franchezza al nuovo potere americano.

Terzo: il colloquio ha offerto qualche rassicurazione circa il fatto che la retorica nativista e anti-immigrazione della campagna di Trump non sembra destinata a diventare una presidenza anti-cattolica, nel senso di una ostilità verso il papa e il Vaticano. Ma la distanza rimane, ed è parte della complessa relazione tra Roma e gli Stati Uniti sotto Francesco. Il fenomeno Trump ha conquistato il «Partito di Dio» (GOP) nel quadro politico americano proprio nel mezzo della ricezione del viaggio papale negli Stati Uniti (settembre 2015). Per certi aspetti, Trump è stato ed è il sintomo più che la causa delle difficoltà – non solo teologico-morali (il dibattito sul matrimonio e la famiglia sostenuto da Amoris laetitia), ma anche politiche – tra Francesco e gli USA.

Quarto: l’incontro tra Francesco e Trump è stato solo uno dei modi a disposizione del papa per mandare messaggi alla e sulla attuale presidenza. Il papa ha meno divisioni, ma ha più modi di utilizzare il suo soft power. Meno di un’ora dopo la fine dell’incontro con il presidente, nella stessa mattina del 24 maggio, la catechesi di Francesco durante l’udienza generale in Piazza San Pietro si è focalizzata sul passo dei discepoli di Emmaus (Luca 24,13-35), e ha mandato in modo indiretto alcuni messaggi a conferma della sfida a questa presidenza americana e alle sue dichiarazioni e appelli in campo religioso.

Francesco ha inviato un messaggio sulla sua ecclesiologia a cristiani tentati dai tipi differenti di progetti di ritiro disponibili sul mercato delle idee teologiche – la «opzione Benedetto», ma non solo: «La comunità cristiana non sta rinchiusa in una cittadella fortificata, ma cammina nel suo ambiente più vitale, vale a dire la strada. E lì incontra le persone, con le loro speranze e le loro delusioni, a volte pesanti». Nella sua catechesi Francesco si è anche rivolto alla tentazione neo-costantiniana di molti cristiani (dagli USA alla Russia alle Filippine), attratti dal culto di leader forti in quest’epoca che è a rischio di diventare post-democratica prima ancora che post-cristiana: «A Dio non piace essere amato come si amerebbe un condottiero che trascina alla vittoria il suo popolo annientando nel sangue i suoi avversari».

Quanto è più rilevante del colloquio è il fatto che ci sia stato. Sarebbe troppo ottimistico attendersi un cambiamento nell’immediato delle relazioni tra il pontificato di Francesco e questa Casa Bianca a seguito della miracolosa scoperta di un terreno comune, prima invisibile. L’incontro tra Trump e Francesco non è stato un armistizio, ma una distensione.

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MAssimo FaggioliMassimo Faggioli è docente presso il dipartimento di Teologia e Religious Studies della Villanova University (Pennsylvania, USA). Il testo qui ripreso è una nostra traduzione dall’inglese di un articolo pubblicato su Religion News Service il 25 maggio 2017.

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