Fratelli coltelli al governo

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Vogliamo dirci la verità? Francamente non se ne può più delle dispute quotidiane tra i due partner di governo. Strumentali, fastidiose, stucchevoli. L’ultima, quella di queste ultime ore, verte rispettivamente sui carichi giudiziari di un sottosegretario leghista e sulla norma cosiddetta “salva Roma”. Questioni diversissime e tuttavia accomunate dalla tempistica (per puro caso si sono poste contestualmente) e dalla logica della rivalsa: tu metti in difficoltà me, io metto in difficoltà te.

Già questo è sconcertante. Mostra, per paradosso, quanto gli accusatori brandiscano strumentalmente questioni di per sé alte: la legalità e la buona amministrazione della capitale e, in genere, degli enti locali. Con una ipotesi di accordo sul debito di Roma, che, ancora e sempre, potrebbe risolversi estendendo i benefici a molti comuni capoluogo, cioè caricandoli al già dissestato bilancio dello Stato. Come si è fatto sommando in modo incrementale le due esorbitanti promesse elettorali bandiera, reddito di cittadinanza e quota cento.

Siamo indotti a pensare che di tali cause alte – legalità e Roma – non importi loro un bel nulla, che a loro prema solo farsi del male a vicenda. Davvero un bell’esempio per la concezione e la pratica della lotta politica.

muralesGli osservatori e persino i protagonisti a mezza bocca ci fanno l’occhiolino, ci suggeriscono di non dare troppa importanza alle polemiche, ci spiegano che trattasi di un’artificiosa disputa motivata dalle imminenti elezioni europee.

Come se fosse una giustificazione e non un’aggravante. Sia appunto per la sottesa riduzione della politica a cinico calcolo elettorale, sia perché, per quanto tali risse siano strumentali, un visibile effetto pratico lo hanno prodotto: la sostanziale paralisi dell’azione di governo un po’ su tutto. A fronte di un paese economicamente fermo, socialmente sofferente, internazionalmente isolato. Con la polveriera libica alle porte.

Non un contratto, ma un patto di potere

L’altra scusante spesso invocata è quella del carattere alternativo tra i due partiti che reggono il governo. Di nuovo: un’aggravante. Figlia di un triplice inganno.

Primo: ci si dice che i due avrebbero vinto le elezioni. Falso. Le elezioni non hanno sortito un chiaro vincitore, la maggioranza parlamentare si è costituita ex post in parlamento.

Secondo: in campagna elettorale esse si erano aspramente combattute e avevano giurato che mai si sarebbero alleate.

Terzo: la loro collaborazione è stata improvvisata grazie a un “contratto di governo”. Istituto di natura privatistica che mal si addice ad un’alleanza per il governo. La quale presuppone una visione di società comune o comunque compatibile. I cultori del diritto ci istruiscono circa la logica che presiede al contratto: non la reciproca fiducia, ma piuttosto la reciproca diffidenza che appunto conduce a garantirsi disciplinando interessi divergenti. Si può governare insieme nel segno della reciproca sfiducia?

Dunque, chiamiamo quel contratto con il suo nome: un mero patto di potere che sembra reggere a dispetto di ogni logica, di ogni politica, di una minima decenza. Un patto asimmetrico, in quanto l’uno, Salvini, che pure potrebbe staccare la spina, esita a farlo sin tanto che non potrà puntare dritto alla premiership prescindendo dal vecchio asse con Berlusconi del quale vuole sbarazzarsi; l’altro, Di Maio, per la semplice, brutale ragione che non dispone di alternative a quel patto di potere. Né politicamente, né personalmente, considerato il vincolo dei due mandati parlamentari. La crisi di governo, per i 5 stelle, sarebbe uno smacco difficile da rimontare.

Ancora, non uno spettacolo esaltante: da un lato, la disinvolta ambiguità di Salvini con le sue doppie fedeltà, al centro con il M5S e sul territorio con il vecchio centrodestra; dall’altro, i 5 stelle, un movimento nato e cresciuto contro il potere costituito, per cambiare le cose in nome del popolo (sic), oggi abbarbicato alle poltrone ministeriali, che grida alla luna, ma vive con terrore la prospettiva di una rottura del governo.

La pavidità del PD

Intendiamoci: l’opposizione non è immune da responsabilità per questa situazione mortificante. Non solo genericamente, a motivo della sua debolezza, ma più specificamente – penso al PD – perché all’origine di essa sta anche la sua inerzia, il suo immobilismo.

Reduce da una sonora sconfitta, tuttavia il PD sortì dalle elezioni come seconda forza parlamentare, con un 18% (un punto più della Lega). E tuttavia si rifiutò a ogni interlocuzione con altri, anche quando il presidente Mattarella gliene fornì l’opportunità con un secondo giro di consultazioni formali affidate al neopresidente della Camera Fico. Cui – lo si noti, non era scontato – fu conferito un mandato limitato appunto ad una eventuale maggioranza 5 stelle-PD. Nella quale il PD avrebbe avuto un “potere di coalizione” (Bobbio) decisivo, potendo alla bisogna staccare la spina o – è solo un esempio, in positivo – disegnando diversamente il reddito di cittadinanza.

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Non c’è bisogno di essere raffinati analisti politici per fissare un punto: se il sistema politico-parlamentare scaturito dalle elezioni si configura come sostanzialmente tripolare e uno dei tre poli si autoesclude pregiudizialmente anche solo a un confronto, si concorre oggettivamente a propiziare un’intesa più o meno forzosa tra gli altri due. Esattamente ciò che è avvenuto.

A questa osservazione si fanno due obiezioni.

La prima: difficile un governo organico 5 stelle-PD allora. Ma non era questa l’ipotesi: semmai quella di un governo di minoranza pentastellato con la non sfiducia del PD, formule di cui è prodiga la fantasia della nostra storia parlamentare al tempo della proporzionale cui siamo tornati.

Seconda obiezione: troppo sbilanciati i rapporti di forza elettorale sortiti dal voto tra 5 stelle e PD. Proprio questo anno di governo è lì a dimostrare che Salvini, con il suo 17% (meno del PD), stando ai sondaggi, avrebbe letteralmente rovesciato a proprio vantaggio i rapporti con i pentastellati. Naturalmente facendo politica, mostrando di saperla fare, profittando anche dell’inesperienza dei partner, della loro identità magmatica, indefinita, contraddittoria, che li ha condannati a una progressiva, parziale assimilazione/subalternità a un partner più strutturato e capace.

Ma, appunto, si dovrebbe fare politica e avere fiducia in sé stessi.

 

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