Il fascino neopagano degli autoritari

di:
Trump e Farage


Donald Trump e Nigel Farage

Politica per una società infantile

Nel 1955 Adorno scriveva che «da più di trent’anni si profila, tra le masse dei paesi ad alta industrializzazione, la tendenza a perseguire non tanto interessi razionali, quanto piuttosto il mantenimento dei propri interessi – in primo luogo, la conservazione della propria vita; consegnandosi così a una politica della catastrofe». Questa constatazione, come mostra non solo la vittoria elettorale di Donald Trump, rimane purtroppo del tutto attuale. Non avremmo dovuto imparare dalla storia del XX secolo, così ridondante di catastrofi? Ma la storia è una cattiva insegnante. La sua didattica del bastone, come sempre, non facilita processi di apprendimento.

Certo, finora nelle città europee non marciano in massa camice nere o marroni, che già nella loro abito impersonano la militarizzazione di tutta la società. Non si usa più affrettarsi a passo di marcia verso la catastrofe. Oggi, i profeti della falsità (L. Löwenthal) si presentano sulla scena in abiti borghesi, avanzando con i loro discorsi la pretesa di escludere interi gruppi della popolazione e di limitare gli standard del vissuto democratico. Con un gesto impavido di rottura dei tabù si rappresentano posizioni che prima avrebbero significato la fine, al meno momentanea, di una carriera politica.

«Populismo», termine inadeguato

Il nuovo autoritarismo si presenta come il portavoce dei «cittadini preoccupati»; e si deve credere ai suoi rappresentanti quando affermano che essi metteranno in pratica i loro programmi politici se solo ne avranno la possibilità – come in Ungheria o Polonia. Le ricette economico-politiche oscillano tra modelli neo-classici e ordinariamente liberali, arricchiti con qualche tocco retorico di stato sociale. Retorica che mostra quanto siano contraddittori in sé stessi i movimenti che oggi vengono contrassegnati come populisti.

Se l’Allianz für Deutschland, da un lato, vuole mantenere il salario minimo e, dall’altro, liberare il mercato del lavoro da un’inutile burocrazia (come afferma nel suo programma di base), si può dubitare che ciò sia adatto ad aiutare coloro che sono condannati al precariato e quel ceto medio sempre più insicuro di cui si dice di voler essere gli avvocati di parte.

Usare il termine “populista” per questo conglomerato di risentimento, nazionalismo, etnocentrismo e contraddittoria politica economica vuol dire più mascherare le cose che aiutare a comprenderle. Dovremmo piuttosto parlare apertamente del pericolo di una nuova forma di fascismo. Nella misura in cui i partiti (da quelli conservativo-liberali fino ai socialdemocratici), e i governi eletti, si sono sempre più adoperati all’applicazione di concezioni neoliberali, che vengono presentati come «privi di alternative» ai propri elettori ed elettrici, tanto meno vi è davvero uno spazio di scelta elettorale.

L’esperienza di essere niente più che oggetti di misure politiche ed economiche, che sono difficilmente accordabili con i propri interessi, provoca sia ostilità e risentimento sia una pressione a conformarsi alle pretese e ai parametri di quelle misure, sulle quali non si è mai davvero votato. La propaganda autoritaria impedisce che le popolazioni europee possano giungere all’idea di farsi carico delle questioni che le riguardano in prima persona.

Il contrario di un atteggiamento maturo

La conquista di Bruxelles da parte dei democratici e una Costituzione per l’Unione Europea, che sia quantomeno all’altezza di quelli standard democratici e sociali esistenti in molti stati nazionali, sarebbe un primo passo per continuare a dare futuro alle svolte rivoluzionarie del 1789 e del 1989. Con liberté non s’intendeva allora la libertà dei fondi di investimento; e con égalité non certo la nullificazione degli individui di fronte agli imperativi, assunti in maniera acritica, di un mercato completamente deregolato.

Un’Unione Europea che finisce più col favorire che con l’impedire un’ulteriore divisione dell’Europa; la cui ascesi programmatica (che si muove in senso opposto all’ideologia neoliberale) si accompagna a una sorta di furore regolativo, e che ha completamente perso il contatto con la gente europea, non sarà rimpianta pressoché da nessuno. Purtroppo essa era e rimane sempre il prodotto di élite economiche e politiche. Di questo profittano i programmi dei “populisti” che hanno dichiarato guerra all’Unione Europea.

Il “populismo” o «il popolo come oppio per il popolo», nella formulazione di Adorno, è proprio il mezzo per impedire sia un’ulteriore democratizzazione sia quella coesione in estremo ritardo dell’Europa stessa, senza la quale anche l’unione monetaria è destinata a fallire. Si tratta del contrario di un atteggiamento maturo: politica del tutto conseguente a una società infantile, che a partire già dalla metà degli anni Novanta è stata favorita dai partiti tradizionali, per timore di perdere la loro possibilità di essere, rendendo presentabile in società un «estremismo del centro».

Agitatori populisti consegnano alle masse gruppi di esseri umani come oggetto del proprio rancore accollandosi quelle conseguenze che ci sono note dalla recente storia tedesca. L’antisemitismo, come mostra il destino di Jean-Marie Le Pen, per quanto possibile viene ancora tenuto chiuso dentro la bottiglia da parte delle destre dell’Europa occidentale. Ma l’affermazione di una «informazione menzognera», guidata da forze «esterne», evoca noti stereotipi a cui Fides, Jobbik e il PiS ricorrono spesso. Ribaltare su altri le proprie mortificazioni, con interessi semplici e composti, è qualcosa che dà soddisfazione al narcisismo collettivo ammorbato del nostro tempo.

Movimenti che non cambiano nulla

Le spiegazioni che vengono offerte, da Trump a Le Pen, passando per Petry, Kaczynsky e Orban, sono a servizio degli stati emotivi e servono a divergere lo sguardo dall’analisi delle cause. Già nel 1949 Leo Löwenthal e Norbert Guterman scrivevano che «l’agitatore non fa nulla per ricondurre l’insoddisfazione sociale fino a cause che siano chiaramente identificabili e definibili. Di fatto l’idea di una causa obiettiva scivola completamente in secondo piano. Quello che rimane è, da un lato, un malessere soggettivo e, dall’altro, il nemico personale che ne sarebbe responsabile». Un’agitazione aggressiva caratterizza sempre più il tono del dibattito nelle lettere al direttore, sui social-media, durante le dimostrazioni e le manifestazioni pubbliche.

La predisposizione per il “populismo” non è un contrassegno specifico di strati sociali a basso livello culturale, ma la si può ritrovare anche tra studenti universitari e membri della cosiddetta élite. Gli agitatori gettano benzina sul fuoco sia dal lato di coloro che risultano essere i perdenti davanti alle logiche dell’economia neoliberale, sia su quello di coloro che temono di perdere privilegi e la possibilità della propria scalata sociale. «Dove la borghesia è giunta al potere – si legge nel Manifesto comunista – ha distrutto tutti i rapporti idillici, feudali e patriarcali». Ma la libertà che essa rende così possibile trova il suo limite nel mercato selvaggio: qui è tendenzialmente superfluo chiunque non sia disponibile ad adattarsi al suo impero.

Il populismo non cambia nulla rispetto a questa situazione, semplicemente maschera le cause dietro il mantello di un’identità nazionale ed etnica. Quello che sa fare, però, è di trasmettere un certo calore in reti sintetiche nel mezzo della freddura sistemica attuale. Vengono offerte separazione e identificazione al tempo stesso: accanto al nemico (Bruxelles, i media in mano a poteri forti, i latino-americani, gli intellettuali della costa Ovest, i profughi) vi è però anche una misura con la quale ci si può identificare: il popolo, la nazione, o anche – in Europa – «l’Occidente cristiano».

Forme di neopaganesimo

In questo non si fa alcuna attenzione alla precisione storica. Si tralascia di dire, infatti, che l’Occidente non è mai stato completamente omogeneo e che le regioni Sud-orientali facevano parte di ambiti culturali islamici. Si tratta, piuttosto, di parole di battaglia a servizio dell’esclusione e della separazione. Il cristianesimo è un’importazione orientale; introdotto da gente che oggi non avrebbe la benché minima possibilità di mettere piede nella fortezza europea. «In questa fede superstiziosa del luogo», come Levinas chiamava questa ideologia degli autoctoni, si annuncia un neo-paganesimo che, prima o poi, potrà fare a meno della sua maschera cristiana.

«Il radicamento nel panorama – scrive Levinas –, il legame col luogo, senza il quale l’universo sarebbe privo di senso e potrebbe a malapena esistere, proprio questo è la divisione in nativo ed estraneo». Qualcosa che nella storia della civiltà ha portato quasi nulla di buono. Pensato come surrogato di una società in cui tutti gli uomini possono vivere liberi e senza preoccupazioni, diventa qualcosa di completamente maligno.

Il cristianesimo ha una qualche corresponsabilità in tutto ciò, nella misura in cui anche esso, come Levinas sospettava, si è assimilato troppo rapidamente a questo «culto del locale, dell’abituale»? Le divinità pagane non furono negate, quanto piuttosto integrate nell’universale orbis christianus. Forse l’Occidente cristiano è in verità malamente cristianizzato, e proprio per questo predisposto per la propaganda neopagana. Se così fosse, allora vi sarebbe anche da parte cristiana qualcosa elaborare e ritoccare, per percepire correttamente il pericolo crescente del populismo di destra fin dentro le proprie fila e trovare una via per opporvisi.

Il testo di René Buchholz che qui riprendiamo è stato pubblicato sulla rivista online Feinschwarz (www.feinschwarz.net; originale tedesco qui). Si ringrazia la redazione della rivista per aver cordialmente consentito alla traduzione e pubblicazione in italiano.

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