Il paese senza rappresentanza

di:

letta e meloni

È a tutti gli effetti imperdonabile chi porta la responsabilità della crisi del governo Draghi. Sia perché le ragioni emergenziali della sua missione (pandemia e PNRR) non erano venute meno, sia perché ad esse si era semmai aggiunta la guerra – non è poco – con i suoi risvolti etici e geopolitici e con le sue conseguenze di natura economico-sociale, sia infine perché comunque le elezioni erano alle viste alla loro scadenza naturale.

Quella rottura non poteva che precipitare il paese – e Mattarella, rassegnato, lo ha certificato come inevitabile – verso un confronto elettorale rovente, a valle di una improvvisata e affannosa campagna agostana, quando si sarebbe potuto e dovuto approdarvi responsabilmente con ordine, dando modo ai partiti di approntare, come si conviene a una democrazia sana, le rispettive offerte politiche.

Ipocrita e strumentale

Ingiustificabile la crisi ma, ahimè, chiarissima proprio nella sua censurabile motivazione. Ovvero il calcolo di una convenienza di parte dei tre partiti che l’hanno prodotta.

Il M5S – forse preterintenzionalmente, in quanto in preda a una sindrome autodistruttiva forse finale – ha fornito l’assist a Lega e FI per fare precipitare il paese verso elezioni che, secondo tutti i sondaggi, vedono la destra favorita. Ricomponendo d’un fiato il rapporto con Fratelli d’Italia che stava all’opposizione del governo Draghi.

Palesemente strumentali le motivazioni, ipocrita il comportamento: non un aperto voto di sfiducia, ma una non-sfiducia espressa nella forma della non partecipazione al voto sulle comunicazioni del premier. Di più: facendo ricorso all’acrobatica teoria secondo la quale la sfiducia se la sarebbe cercata lo stesso Draghi.

Non è così. Nonostante qualche errore politico imputabile al premier: aver fatto intendere di aspirare al Quirinale (quasi avesse esaurito il suo mandato di governo); aver messo un paio di giorni per smentire (a metà) di avere chiesto a Grillo la testa di Conte; non essersi adoperato per scongiurare la scissione di Di Maio dal M5S che, come era facile prevedere, ha semmai irrigidito il M5S e dunque concorso all’effetto opposto a quello asserito (un rafforzamento del governo); avere interloquito in via privilegiata con Letta nelle ore concitate e cruciali della crisi fornendo così un pretesto a Salvini e Berlusconi per dare al governo la spallata decisiva.

Errori di un premier autorevolissimo, ma forse privo di esperienza politica in senso stretto, che tuttavia non giustificano la portata di una decisione irresponsabile, che ha suscitato sorpresa e sconcerto un po’ in tutti gli osservatori internazionali. Europei e non solo. E un malcelato compiacimento a Mosca.

Destra: le tensioni tra i favoriti

Ci si avvia dunque ad elezioni con la destra decisamente favorita. Maggioritaria secondo tutte le rilevazioni e avvantaggiata dalla legge elettorale. Il Rosatellum, maggioritario per oltre un terzo della rappresentanza (con collegi uninominali), fa vincere chi meglio organizza coalizioni larghe. Quand’anche non omogenee. Buone per vincere, non altrettanto per governare.

Proprio qui stava e sta il calcolo: l’alleanza collaudata del centrodestra si è agevolmente ricomposta (era divisa nel rapporto con il governo Draghi, con Fli all’opposizione). Essa approfitta così della divisione del campo avverso e, segnatamente, della rottura tra PD e M5S, quest’ultimo tra i fautori della crisi.

Non che nel centrodestra non manchino divisioni e problemi. Esemplifico: la contesa sulla leadership, un assetto della coalizione a trazione della destra meloniana piuttosto che centrista, un partito egemone, appunto Fli, le cui radici e la cui classe dirigente evocano un passato non rassicurante, le riserve delle cancellerie europee e USA, i legami imbarazzanti con leader quali Le Pen e Orban, la formazione franchista spagnola Vox e quella nazionalista tedesca di estrema destra AfD.

Problemi che tuttavia non hanno inibito ai vertici di quei partiti di convergere nell’appuntamento elettorale, forti della consapevolezza di poter fare affidamento su un elettorato se non unitario certo meno esigente di quello del fronte avversario.

Sinistra: un campo frammentato

Il fronte di centro-sinistra versa nella condizione opposta. Esso è ancora tutto da costruire. Imperniato su un major party, il PD, attestato intorno al 22-23%, e su soggetti minori («cespugli») al centro e a sinistra la cui aggregazione è incerta e difficile. Cui s’ha da aggiungere ciò che resta del M5S raccolto intorno a Conte, che poco plausibilmente cerca di accreditarsi come «terzo polo» posizionato a sinistra.

Con questa struttura (frammentata) e privo di una cultura politica comune il fronte antagonista a quello favorito della destra sconta gravi problemi in una competizione tendenzialmente bipolare. Oscilla tra l’idea di un «fronte repubblicano» opposto alla destra e un «fronte Draghi», che veda uniti i partiti che si riconoscono nella cosiddetta «agenda Draghi», che lo hanno sostenuto in programmatica alternativa ai partiti che lo hanno sfiduciato. Essi si rappresentano altresì come lo schieramento più affidabile sul piano internazionale per il loro europeismo e il loro atlantismo.

A minarne la coesione i troppi personalismi, specie nella esile eppure affollata area di centro, e le differenze programmatiche non di poco conto. Ci si chiede altresì se l’evocazione dell’agenda Draghi e talora la stessa prospettazione (non da lui autorizzata) di una sua premiership a valle del voto possa avere nell’elettorato vasto lo stesso appeal che esso esercita nelle classi dirigenti e nei suoi media di riferimento. In un paese in sofferenza sul piano psicologico, sociale e politico. Ove si è dato per esaurito troppo precipitosamente un sentimento populista.

In attesa di rappresentanza

Se è lecito non un suggerimento ma un auspicio, la partita che sembra ipotecata forse potrebbe essere meno compromessa se il campo alternativo alla destra data vincente non si limitasse a un’operazione politicista di vertice, che si esaurisca nell’assemblaggio di sigle politiche più o meno rappresentative (e candidature ripartite tra un ceto politico professionale), ma provasse ad allestire una offerta politica e programmatica con elementi di novità e di natura civica reale (non artefatta).

Un’offerta che possa fare breccia in un elettorato popolare da non consegnare all’astensionismo o alle forze populiste e che sappia interpretare la sofferenza sociale e politica di larghi settori del paese.

L’associazione Rosa Bianca, mettendo nel conto che qualcuno potesse eccepire o magari fraintendere, ha parlato di un’«agenda Bergoglio» (cf. qui). Chi conosce la spiritualità e la cultura di quell’associazione può intendere esattamente il senso della provocazione. Forse non solo una provocazione.

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2 Commenti

  1. Fabio Cittadini 1 agosto 2022
    • Ferrari Luca 2 agosto 2022

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