Israele: scarpe rosse in piazza

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Martedì 4 dicembre, decine di migliaia di donne israeliane e palestinesi hanno scioperato in Israele contro la violenza maschile, con il sostegno di centinaia di organizzazioni, tra cui undici sindacati e più di cinquanta associazioni femministe, che hanno dichiarato uno stato di emergenza nazionale.

Diverse arterie stradali sono state riempite da una marea in cui predominava il colore rosso, per simboleggiare il colore del sangue delle vittime. Tale marea di donne ha bloccato la viabilità di diverse zone, dalla Galilea all’Azrieli center di Tel Aviv, di fronte al quartier generale della Difesa israeliana.

A causa dello sciopero delle lavoratrici, il traffico dell’aeroporto Ben Gurion ha subito ritardi, mentre anche il campus dell’Università di Haifa è stato teatro di proteste, così come le Università di Bar Ilan e di Tel Aviv, dove le lezioni sono state sospese.

La centrale piazza Ha’Bima di Tel Aviv è stata invece coperta da 200 scarpe rosse, disposte in modo simmetrico così da creare un’istantanea e suggestiva opera d’arte.

Femminicidi e altre morti

Nemmeno l’inaspettata e concomitante operazione militare dell’esercito israeliano, stavolta al confine con il Libano, è riuscita a distogliere l’attenzione dallo sciopero femminista in tutta la regione.

Durante la giornata, si sono svolte manifestazioni anche a Be’er Sheva, Nazareth e Gerusalemme, dove all’entrata della Città vecchia decine di dimostranti hanno intonato il coro “Bibi, sveglia, il nostro sangue non è a buon mercato”.

Pure diverse municipalità arabe, tra cui Tamra, Tira, Sakhnin e Taibe hanno deciso di scioperare.

Risultati impressionanti, se si considera che lo sciopero generale era stato indetto solo una settimana prima, dopo il femminicidio di due adolescenti: Yara Ayoub, sedicenne israelo-palestinese, e Sylvana Tsegai, tredicenne nata in Eritrea e ormai già da diversi anni residente nella zona Sud di Tel Aviv.

Alle 10 di mattina sono stati osservati 24 secondi di silenzio, in memoria delle 24 morti avvenute in Israele dall’inizio dell’anno a causa della violenza di mariti, fidanzati e parenti maschi, per scuotere l’indifferenza tanto dell’attuale governo quanto di larga parte della società.

Tali femminicidi si vanno ad aggiungere agli abusi quotidiani che migliaia di donne sono costrette a subire nelle loro stesse case, nei luoghi di lavoro e online, nonché alle discriminazioni, ai gap salariali, e alle innumerevoli violenze che l’esercito israeliano quotidianamente infligge alle donne palestinesi nei territori militarmente occupati dal 1967. Un conflitto la cui tragica realtà non esce mai di scena, e che ha visto, nello stesso giorno dello sciopero femminista, un altro palestinese, Muhammad Habali, morire per mano dell’esercito israeliano, nella città di Tulkarem in Cisgiordania, portando a 277 il numero dei palestinesi uccisi nel solo 2018.

Ebree e palestinesi

In serata, almeno 20.000 donne hanno manifestato in piazza Rabin a Tel Aviv, la stessa piazza che la scorsa primavera si era riempita per dire no alla deportazione voluta da Netanyahu e dai suoi alleati di governo di migliaia di migranti africani, in maggioranza eritrei, che ormai da anni vivono in Israele, hanno imparato l’ebraico e si sono integrati nella società, nonostante tutte le difficoltà e la percezione di non essere benvoluti in uno Stato che discrimina i migranti su base etnico-religiosa.

Anche alla manifestazione del 4 dicembre erano presenti associazioni di migranti, per evidenziare le condizioni di violenza che, ogni giorno, le richiedenti asilo – costrette a lavori precari e a paghe da fame – residenti nella zona Sud di Tel Aviv si trovano a dovere subire, e per rimarcare quanto ogni pratica femminista sia anche, necessariamente, lotta contro ogni razzismo e difesa incondizionata della libertà di movimento. Sullo sfondo la scritta !די (“Basta!”) ha illuminato il palazzo municipale, e dal palco si sono susseguiti interventi in arabo, ebraico e inglese.

Come dichiarato a +972 Magazine da Samah Salaime, storica militante femminista che da anni vive con la sua famiglia nel villaggio della pace fondato da padre Bruno Hussar, Wahat al-Salam – Neve Shalom, e che ha organizzato lo sciopero generale: gli uomini uccidono perché convinti della supremazia del maschio sulla donna, e crimini di tal sorta non riguardano soltanto determinate culture o religioni.

Una realtà che – sempre secondo Samah – il governo Netanyahu ignora, favorendo di fatto l’esclusione delle donne dalla vita pubblica e mettendosi di traverso a ogni lotta femminista, fino ad arrivare, proprio il 25 novembre scorso, che, per ironia della sorte, è la giornata mondiale dedicata all’eliminazione della violenza sulle donne, a congelare il budget di 250 milioni di sheqel (circa 60 milioni di euro) già stanziato a tale fine.

Nonostante abbia piena consapevolezza dei rischi che corre unendo sotto un’unica causa donne israeliane e palestinesi, Samah ha compreso quanto ciò fosse necessario, per protestare contro le politiche di governo, per dire “Basta!” alla violenza maschile come strumento d’ordine di qualsiasi colore e qualsiasi provenienza, e per riaffermare lo sciopero in quanto fondamentale pratica politica.

Mimose

Lo sciopero, ormai capace di superare la sua natura sindacale, si è dimostrato lo spazio che permette a chi rifiuta di essere oppressa, sfruttata o violentata, di alzare la testa; e quanto è successo, una giornata storica e un punto di non ritorno per la società israeliana, che sarà necessariamente chiamata ad affrontare tale tema nella campagna elettorale delle politiche del prossimo anno, rappresenta anche un altro passo verso lo sciopero globale dell’8 marzo, una data il cui significato ha ormai trasceso quello di festa delle mimose.

La mobilitazione del #metoo, che ha fatto emergere una moltitudine di storie individuali, si è trasformata in un #wetogether, in un momento collettivo, e la giornata dell’8 marzo 2019 sarà il punto di incontro di quella marea femminista già in stato di agitazione permanente, che solo in questi ultimi mesi ha riempito le strade dalla Polonia al Brasile, dagli Stati Uniti all’Irlanda, dalla Norvegia all’Italia e che ha visto migliaia di donne marciare a Roma il 24 settembre scorso, fino a Gerusalemme e a Tel Aviv.

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