La politica: risposta o anticipazione?

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politico statista

Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo Paese.

Che questa frase sia di Alcide De Gasperi – come spesso si sente dire – o più correttamente di James Freeman Clarke (pastore e utopista americano dell’800), la sostanza non cambia molto. L’affermazione mira a tracciare un netto solco tra due visioni della politica: quella che cerca il consenso, e quella che invece cerca di costruire nuovi scenari futuri.

Questa dicotomia – certamente un po’ forzata, ma concettualmente utile – potrebbe porsi anche in altri termini. Distinguendo tra la politica che tende a “inseguire” (il consenso, i problemi, gli umori che ne conseguono nell’opinione pubblica…) e la politica che prova a “prevedere”, “prefigurare” quello che sarà necessario e prioritario nella società, da qui a qualche tempo.

In senso idealtipico, dunque, due diversi modelli di politica: uno “responsivo” e l’altro “anticipatorio”. Che non sono in realtà da contrapporre, o da segnare col meno e col più: sono entrambi importanti e dovrebbero probabilmente coesistere in modo equilibrato in ogni azione politica e di governo.

Populismi e media: verso la politica di risposta

Se rianalizziamo l’azione politica dei governi e delle forze politiche nel nostro Paese nell’ultimo anno, queste categorie idealtipiche possono essere di qualche utilità, per formulare alcune valutazioni. Come sempre, la durissima prova rappresentata dall’epidemia Covid19, ha avuto un valore “rivelativo”, e permette di vedere più chiaramente fenomeni che da tempo sono in campo, ma che ora appaiono con maggiore evidenza, sotto la dura sferza della crisi pandemica.

Da tempo in Italia si discute attorno ai “populismi” e – qualunque sia l’opinione che ne formuliamo – non v’è dubbio che qualsiasi definizione di populismo si lega ad una visione “responsiva” della politica. Nei “populismi”; le richieste e le aspettative del “popolo” (inteso come una entità unitariamente rappresentabile) devono guidare la buona politica, che invece tende a farsi autoreferenziale nelle élites che pongono al centro dell’agenda le proprie priorità o esigenze.

Vi è sicuramente una valenza positiva in questo ricondursi alla volontà popolare (se questa fosse realmente rappresentabile in modo così semplificato), ma occorrerebbe vedere se nel lungo periodo questo approccio porti a inseguire i problemi o ad anticiparli; ad arginarli o a prevenirli e risolverli.

Senza scomodare le ambigue e controverse categorie del “populismo” (o dei “populismi”), non vi è dubbio che anche l’effetto delle tecnologie comunicative di massa spinga sempre più la politica nella direzione della risposta, o della gestione di breve periodo, rispetto a quella di lungo respiro. Una politica che costruisce la sua agenda a partire dai “focus group” (nella migliore delle ipotesi), oppure sui numeri di sondaggi quotidiani, likes e followers (alla peggio), è chiaramente una politica propensa ad inseguire, a rincorrere gli umori, a interpretarli, magari a blandirli.

Questo non vuol dire che sia una politica negativa, o che non possa costruire – un like alla volta – imperi di consenso anche di lunga durata o di notevole impatto fattuale. Anzi: sempre più la capacità di interpretare – e in parte influenzare – l’opinione pubblica dei social media diventa una capacità non solo responsiva, ma soprattutto costruttiva. Costruttiva di immaginari, di narrazioni, di sistemi ideali: ma che non necessariamente hanno poi rapporti stretti con problemi reali.

A questo si aggiunge la sempre maggiore rapidità del cambiamento tecnologico, culturale, sociale, legato alla società digitale. Un politico che volesse farsi “statista” (secondo il motto di De Gasperi o di Clarke), ossia che volesse guardare “oltre le prossime elezioni”, avrebbe comunque una difficoltà in più a farlo, oggi: perché qualsiasi “piano quinquennale” – tanto per fare una citazione storica – rischia di essere falsificato a breve da una imprevedibile evoluzione socio-tecnologica globale. E questo, a prescindere dalla imponderabile variabile pandemica vissuta nell’ultimo anno.

L’impossibile programmazione: la prova del Covid.

Ne consegue che una politica di lunga lena – o quanto meno in grado di prefigurare scenari – è sempre più oggettivamente difficile. Ma non per questo meno necessaria.

Ce ne siamo accorti in questi mesi di pandemia, in modo appunto “rivelativo”. L’Italia si è fatta trovare indubbiamente impreparata, ossia senza un reale “piano pandemico” applicabile. Poco interessa che questo sia vero anche in altri Paesi come il nostro: anzi, semmai, ciò conferma la nostra analisi in termini più globali. Non avevamo scorte di mascherine, di tute, di respiratori; non avevamo piani di azione definiti… Semplicemente perché la “prevenzione” non fa notizia, non fa consenso, e quindi entra al massimo nelle agende tecnico-normative: ma non sarà mai al centro delle agende politiche nell’era dei media.

Ne è scaturita, inevitabilmente e necessariamente, una fase di politica emergenziale, tipicamente responsiva, quella del primo lock down: non si poteva fare altro. Ma – è il caso di dirlo – non si poteva fare altro proprio perché l’assenza di una politica di visione e prefigurazione di scenari riduce drasticamente le opzioni disponibili per il decisore, costringendolo di fatto ad “appiattirsi” sulle sfide immediate. Esattamente quello che è successo nei primi mesi della risposta politica alla pandemia.

Poi – col tempo – le cose si sono fatte meno pressanti, e c’è stato più spazio per le opzioni, le scelte, le prefigurazioni. Aprire o no le scuole, destinare le risorse a un tipo di ristoro o a un altro, a questa o quella categoria.

Tuttavia, è interessante notare come l’estate scorsa -appena il virus ha attenuato la sua morsa- non si sia verificata una “svolta” strategica, e la risposta si sia mantenuta nel registro del breve periodo. Era comprensibile e forse anche giusto, visto che non si era davvero fuori dall’emergenza, come poi l’autunno e l’inverno successivi hanno dimostrato. Sta di fatto però che i mesi della scorsa estate, di possibile “preparazione”, non hanno visto significativi investimenti sul trasporto pubblico, sugli spazi per l’edilizia scolastica, per fare due esempi.

Si è invece risposto fissando delle (teoriche) percentuali di accesso agli autubus, o comprando banchi e sedie che rendessero (ancora una volta, teoricamente) più “spaziosi” le aule scolastiche di sempre. Il salto dalla risposta emergenziale alla strategia non è certamente avvenuto. Ma era possibile?

L’esempio del piano vaccinale

Il caso dei vaccini – che viviamo in pieno in questi giorni – è forse il miglior esempio per il nostro ragionamento sulla politica come “rincorsa” o come “anticipazione”. Ed è anche l’esempio centrale: perché abbiamo oramai capito tutti che dalla capacità della politica di gestire i piani vaccinali nazionali dipendono le sorti e la ripresa di una intera società, di imprese, di ristoranti, di giovani scolari. La vita stessa delle persone anziane.

A riprova – sia detto per inciso – che la politica è ancora importante, enormemente importante e, soprattutto nei tempi di crisi, se fallisce trascina con sé tutta la società, anche quella che abitualmente la snobba o pensa se ne possa fare a meno. Ma il tema è un altro: la nostra politica (italiana, europea, mondiale) come ha gestito la questione vaccinale? In termini strategici e prefigurativi di scenari, o in termini emergenziali e solo responsivi?

È del tutto evidente che vi sono stati Paesi e contesti in cui la visione strategica e anticipatoria non è mancata. Paesi che hanno investito pesantemente su un vaccino, di cui non si sapeva nemmeno se sarebbe mai esistito.

Paesi che hanno programmato nuovi impianti industriali sul proprio territorio, appena si è intuito che un vaccino da produrre in grande serie ci sarebbe stato.

Paesi che – pur senza aver fatto questo – hanno saputo capire in anticipo le “strozzature” che il “mercato” vaccinale avrebbe sofferto, e hanno adottato strategie adattive (come Israele, che pur senza essere proprietario di brevetti o di impianti, ha saputo fare accordi intelligenti).

Oggi, chi rimane in ritardo nelle forniture è chi ha avuto meno visione strategica o, più semplicemente, che ha capito meno bene che scenari si sarebbero prefigurati, facendo accordi non sufficientemente solidi per essere esigibili nel successivo contesto di piani vaccinali universalistici e di capacità produttive limitate.

Costringendosi a dibattiti pubblici di retroguardia, come quello cui assistiamo oggi in Italia, bloccato sugli effetti collaterali dei vaccini, sulle categorie da vaccinare per prime o, peggio, concentrato solo sulla contabilità -vera o falsata- delle vittime.

Nelle crisi serve la visione

L’esempio del piano vaccinale ci conferma che, anche se fare politica di anticipazione è sempre più difficile, è anche molto importante, tanto più quanto si vivono tempi di crisi o di rapida evoluzione. Seguendo questo filo, la programmazione quinquennale dei Recovery found può segnare un’altra enorme differenza tra Paesi capaci di prefigurare e anticipare scenari, e Paesi che spendono il loro “bonus” per inseguire. La ripresa futura del turismo, dei consumi culturali, del mercato del lavoro andrebbero pensati e prefigurati adesso, per quando ne saremo fuori.

Ma istruzione, politiche di prevenzione sanitaria, politiche industriali, digitalizzazione e – su tutto – le politiche energetiche e ambientali sono altrettanti banchi di prova che non potranno essere affrontati solo coi criteri della politica che insegue il sentimento popolare, i likes e il successo immediato.

Per non parlare dei fenomeni migratori, legati all’ingiustizia nello sviluppo e nel cambiamento climatico, che – nel nostro Paese – sono sempre stati affrontati con la metrica emergenziale dello “sbarco quotidiano”.

Ecco perché nel nostro Paese il dibattito più importante, oggi, dovrebbe essere quello sulla durata di questo Governo (come fare programmi, se si governa 11 mesi?), sul Recovery Plan – di cui si continua a sapere pochissimo – e più in generale su come il nostro Paese affronterà i decisivi prossimi anni della ripartenza post-pandemica.

Su questo, invece, in Italia, tutto tace. Agenda e dibattito vertono su quotidiane polemiche e diatribe senza spessore. Mentre l’unica voce “strategica” e “profetica” sembra rimare quella di papa Francesco, quando sommessamente invita tutti ad avere una visione “mondialista” dei vaccini: e in questo caso, occorre ammettere che in tutto il pianeta non c’è stato – nel senso degasperiano – un solo vero statista.

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