Se la Raggi non regge…

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Quel che è accaduto nel Movimento 5stelle dopo la sontuosa affermazione nelle amministrative di primavera dimostra, anzi conferma, che in politica non basta vincere ma bisogna anche convincere. E come fai a convincere, mormorano a Roma, se la Raggi… non regge? Dove la Raggi è la sindaca strepitosamente eletta al ballottaggio, colei che ora Beppe Grillo, con amabile distacco, chiama “la signora”.

Le traversie dei cinquestelle nelle vicende istituzionali non portano serenità in quei siti. Tantomeno allegria. Quanti li hanno sostenuti si trovano alla soglia della delusione. Ma anche quelli che li hanno avversati non hanno motivo di gioire.

Se avessero dimostrato di saper governare, come pare avvenga a Torino, ne avrebbe guadagnato il bene delle comunità. Il problematico decollo della Giunta capitolina, con la serie di precoci decapitazioni e con gli incredibili ritardi nelle sostituzioni mette viceversa a fuoco l’esistenza di difficoltà che non sono occasionali e rimediabili ma investono l’intera struttura del movimento e ne condizionano il destino.

Tra onestà e capacità

La constatazione, per rimanere un attimo a Roma, nasce dal confronto tra le parole d’ordine della campagna elettorale – “onestà, onestà!”– e le ambigue incertezze nelle scelte operative sia per le persone da cooptare sia per il merito delle questioni affrontate. Tanto da costringere a rammentare che non basta l’onestà se mancano capacità e competenza.

Inutile a questo punto cercare se l’esposizione di assessori “sbagliati” o di collaboratori di dubbia ascendenza sia da attribuire più al dato, oggettivo, della mancanza di una classe dirigente “esperta” o all’influenza di consigli contraddittori, interessati o meno, sui centri decisionali. L’impressione è quella di una irresolutezza congenita che non offre alla comunità la visione di un tragitto tra un punto di partenza e un punto di arrivo.

È lo scarto tra la propaganda, come enunciazione di obiettivi generici ed esecrazione degli avversari (della serie “vaffa”) e la politica come attitudine a costruire soluzioni specifiche. Vale per i comuni e vale per il governo del paese.

In questa cornice ha assunto rilievo la revoca comunale al sostegno della candidatura di Roma per le Olimpiadi del 1924, bollate come «Olimpiadi del mattone», ossia zona franca per palazzinari e corruttori. Una sentenza fatalistica che esclude la possibilità correttiva di un intervento politico che intercetti le imprese del malaffare e affermi nei fatti l’onestà proclamata.

Tanto più seria pare la situazione di Roma se la si confronta con il diverso andamento della situazione gemella, quella di Torino: altra sindaca, ma anche altro modo di leggere le situazioni e di affrontarle. Il paragone mette in luce una differenza di classe dirigente a tutto vantaggio della realtà subalpina. Ma sarebbe banale ridurre a questo aspetto la sostanza del problema che va inquadrato all’interno della più vasta ambizione del movimento grillino per la guida del paese.

Il problema del governo

La conquista del primato nella Capitale è stata vissuta dagli esponenti del movimento come la prova d’accesso al governo nazionale, fino all’enucleazione di candidature presidenziali e alla configurazione di un assetto di vertice affidato ai “ragazzi” (così li chiama Grillo), presuntivamente maturati nei tre anni di apprendistato parlamentare. Per questo sulle vicende romane si è esercitata una pressione straordinaria volta a garantire la conformità delle misure locali al disegno strategico perseguito.

 E qui sono emersi quelli che Grillo, al grande raduno di Palermo, ha definito come “errori”, per rimediare ai quali ha ritenuto di dover uscire dal ruolo di “garante” che negli ultimi tempi si era assegnato, per riprendersi in prima persona quello di condottiero unico e insindacabile.

Ma, se sul giudizio di Grillo hanno sicuramente pesato le bugie o mezze verità circolate a proposito delle nomine per il Campidoglio (prova di sconnessione, di sfiducia reciproca e di lotte per il potere tra i maggiori responsabili), per i comuni cittadini non possono passare inosservati gli strafalcioni geopolitici di un dichiarato aspirante a Palazzo Chigi quando, nell’improba impresa di accostare Renzi a Pinochet, colloca le nefande gesta di quest’ultimo non in Cile, dove avvennero, ma in… Venezuela. Tra gli sghignazzi congiunti del mondo politico e di quello del web.

Il “principio del capo”

Quale sarà la navigazione dopo Palermo? Come si determineranno gli equilibri interni anche per l’effetto dall’avvenuta inclusione a pieno titolo dell’erede di Casaleggio? Quali energie nuove si immetteranno nella cabina di regia e con quali effetti, di ascesa o di discesa, per gli attuali protagonisti?

Sono domande senza possibilità di risposta in un soggetto che ha fatto della trasparenza la propria asserita ragione esistenziale ma non trova (e non cerca) il modo di rendersi esso stesso trasparente nelle sue scelte sui programmi e sulle persone. Il riferimento fideistico alla saggezza della “rete” (e al carisma del “capo”) non può pretendere credibilità dopo le rappresentazioni offerte nei fatti.

Lo stesso “regolamento”, vecchio o nuovo che sia, viene applicato con una discrezionalità che farebbe incanutire un onesto giudice di pace. Basti pensare al sindaco primogenito, il Pizzarotti di Parma, tenuto per mesi in sospensione per l’eventualità di un’accusa che il giudice non ha convalidato.

Resta solo – e pare sia quel che è avvenuto – l’affidamento al “capo” e la supremazia di questo su tutto e tutti. Che assume il patrocinio di un’unità che si potrebbe declinare nel senso di un “non so dove andremo, ma dobbiamo andarci insieme”.

Fine della rendita

Così il variegato populismo del Movimento 5stelle si integra in un tracciato in cui l’autorità copre l’intera superficie politico-programmatica, riproponendo una concezione solitaria del potere e l’esclusione di ogni contraria opinione.

Dicono i sondaggi che le ultime vicende hanno incrinato la fiducia di molti elettori a 5 stelle. Ha scritto sulla Stampa Federico Geremicca: «… Anche per Grillo e i suoi cinquestelle sta arrivando il momento in cui non sarà più possibile lucrare sugli errori degli altri o sulla propria verginità politica».

E qui sono chiamate in causa le altre forze in campo. Se qualcuna di esse riuscisse a qualificarsi su una linea credibile e a farlo nella verità di un confronto aperto, svanirebbe la rendita su cui il grillismo ha costruito le sue fortune.

È la sfida della qualità della politica che riguarda tutti, non solo gli addetti ai lavori. Ed è anche il crogiolo in cui le buone ragioni che pure i cinquestelle hanno rappresentato possono essere messe a frutto in una partecipazione estesa e intensa, nelle istituzioni e nel paese.

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