M5S tra implosione e rifondazione

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Il fondatore-garante Beppe Grillo, rompendo gli indugi e in deroga alle oscure e controverse procedure decisionali del M5S, ha preso d’autorità (non esattamente nel segno dell’uno vale uno) la decisione di affidare all’ex premier Conte la “rifondazione” del movimento. Nei suoi voti, una svolta o addirittura un nuovo inizio. Comunque si giudichi la cosa, merita seguirla.

L’implosione del M5S non ci ha colti di sorpresa. Era epilogo atteso, prevedibile e previsto. La crisi del governo Conte 2 e la fiducia al governo Draghi hanno solo prodotto la deflagrazione finale, ma la crisi lievitava da gran tempo.

Bastino i due dati più eclatanti: il dimezzamento del consenso del quale è accreditato il movimento rispetto alla clamorosa performance delle elezioni del 2018 (per tacere della loro marginalità nelle consultazioni regionali e amministrative) e l’emorragia di un terzo della loro folta rappresentanza parlamentare (330 a inizio legislatura).

Già furono, per loro, travagliate entrambe le decisioni di partecipare ai due governi giallo-verde e giallo-rosso, dopo avere a lungo teorizzato il proprio rifiuto di stringere alleanze. Tanto più lo è stata quella del loro ingresso nell’esecutivo Draghi. Per ragioni che è facile intuire. Non ultimo per il venir meno della garanzia rappresentata dalla premiership di un uomo di loro fiducia e da essi stessi indicato. Appunto Conte.

Di più: in un quadro radicalmente cambiato, si è giunti a quest’ultimo, difficile appuntamento differendo sistematicamente un chiarimento identitario palesemente necessario da gran tempo. Secondo Di Maio, «il voto su Rousseau (che ha autorizzato il sostegno del M5S al governo Draghi, ndr) è come se fosse il nostro congresso». Vero e falso insieme. Vero, perché corrisponde a un decisivo balzo in avanti come forza di governo. Falso, perché i congressi non si risolvono in un click, in essi ci si confronta vis à vis intorno a tesi e solo poi si vota su mozioni. Dunque, una ulteriore, positiva evoluzione, ma incompiuta. Perché le due cose si tengono: cultura di governo e organizzazione di partito.

Per inciso: le convulsioni del M5S sono anche il prodotto del deficit di un’effettiva forma-partito, nella quale sono contemplate regole e prassi atte a disciplinare il dissenso. Prima di andare per le spicce con le espulsioni.

Del resto, gli Stati generali del movimento, tanto attesi e a lungo rinviati, sono stati, con tutta evidenza, un’occasione mancata. Complici la congiuntura drammatica e la preoccupazione di non far deflagrare le divisioni interne, il confronto tra distinte piattaforme politiche intestate a distinti candidati alla guida del M5S è stato cloroformizzato. Ancora oggi non si è provveduto a definire l’organo di vertice e ora non si esclude di azzerare tutto, statuto e organigramma sortiti dagli Stati generali, per “consegnare” a Conte il movimento.

Sia chiaro, sin dalla sua origine erano manifesti i vistosi limiti del movimento di Grillo e Casaleggio e, in particolare, il suo tratto antipolitico (il vaffa) e tuttavia, ad un osservatore distaccato, non sfuggono elementi di giudizio meno sbrigativi:

  • la circostanza che il M5S abbia canalizzato nella politica e nelle istituzioni umori esacerbati che, in altri paesi, hanno preso una piega più inquietante e talora violenta;
  • la risposta a una domanda di partecipazione attiva da parte dei cittadini, segnatamente giovani, anche grazie alla loro familiarità con i social media;
  • l’espressione di istanze democratiche, legalitarie e ambientaliste riscontrabili, ancorché in forma teatrale e iperbolica, negli spettacoli di Beppe Grillo.

Diciamo così: il cuore ideologico originario del M5S. Anche i più severi critici non possono non interrogarsi sulle ragioni, giuste o sbagliate, che comunque tre anni fa portarono un italiano su tre a votare il M5S.

Sono passati dieci anni…

Dopo più di dieci anni e nel passaggio più critico per il M5S, merita una riflessione di bilancio sine ira ac studio sull’avventura di un movimento che ha terremotato il sistema politico italiano.

I detrattori si esercitano nel sarcasmo circa il tradimento, da parte del M5S, di talune bandiere del movimento e, in particolare, denunciano l’attaccamento alle poltrone parlamentari e ministeriali di chi, con toni esasperati e persino insolenti, bersagliava la casta politica. La legge del contrappasso dentro la polemica politica ci sta. È un pegno che i 5S è giusto paghino. E tuttavia, ripeto, fuor di polemica, certi ravvedimenti, certe correzioni di rotta possono essere lette oggettivamente come benvenute, come l’approdo di un processo di maturazione.

Qualche esempio:

  • la cultura di governo e l’europeismo (esponenzialmente rappresentate da Di Maio);
  • l’abbandono di una versione ingenua e ideologica della decrescita felice e dunque un’apertura ragionevole alla domanda di infrastrutture e alla cultura d’impresa (si veda l’apprezzamento delle stesse associazioni d’interesse per il giovane ex ministro dello sviluppo Patuanelli);
  • la sorprendente saggezza mostrata da Beppe Grillo in passaggi cruciali della vita del movimento, al netto del fastidio che suscita il tenore oscuro e sibillino delle sue esternazioni, che stride con la serietà della situazione e le alte responsabilità istituzionali dei suoi “figli” politici al vertice dello Stato.

Ciò detto e riconosciuto, a mio avviso, proprio la maturazione politica del movimento dovrebbe condurlo ad una onesta riflessione critica e autocritica su alcune idee-forza che spiegano errori e sbandamenti.

Esemplifico. Penso al mito ingenuo e fallace della democrazia diretta che, di regola, si risolve nel suo contrario (“diretta” dal vertice ristretto). Chi ha attraversato i movimenti del sessantotto conosce questo paradosso: l’assemblearismo che si rovescia in verticismo.

Penso al già menzionato mantra dell’uno vale uno. Eloquente la nemesi che, dentro la crisi di governo, ha condotto alcuni ex 5 stelle dispersi a farsi istruire e organizzare da un professionista politico capace come Bruno Tabacci.

Mi sovviene una formula dalemiana: «la politica è un ramo specialistico delle professioni intellettuali». Anche la politica esige competenze e tecnicalità appropriate.

Penso alla cultura del sospetto che genera derive settarie e giustizialiste. Il mondo non è abitato per intero da bricconi, come in certe rappresentazioni paranoiche del M5S delle origini.

Penso al deficit di democrazia interna al movimento che sbaglia nel vantarsi di non avere uno statuto, un corollario dell’art. 49 della Costituzione che disegna il profilo dei partiti politici. Penso al «né di destra né di sinistra». Un escamotage opportunistico, utile alla raccolta di un consenso trasversale, ma che, con il tempo, si risolve in una identità politica indefinita, degenera nel trasformismo e concorre a spiegare la diaspora degli eletti cui si è fatto cenno nelle direzioni più disparate.

È lecito sperare che – profittando della doppia occasione fornita dal “governo di tregua” tra i partiti e dall’impresa “rifondativa” affidata a Conte – questi nodi siano messi a tema e fatti oggetto di un franco, trasparente confronto? Dentro il movimento e tra i cittadini. Ciascuno può coltivare i giudizi e gli auspici più diversi circa la riuscita di un’operazione di sicuro ardua e dall’esito incerto.

Non è difficile invece fissare, in estrema sintesi, le tre sfide cruciali che attendono il M5S:

  • dotarsi di regole adeguate a configurarlo come un partito dotato di un suo metodo democratico interno;
  • portare a compimento la propria evoluzione da movimento a forza responsabile di governo;
  • operare una chiara scelta di campo lungo l’asse destra-sinistra, come si conviene alla natura competitiva e dialettica della politica democratica.

Decisiva, al fine di sciogliere questi nodi irrisolti, sarà la collocazione politica del M5S nel quadro delle famiglie politiche europee. Dove, dopo un lungo e contraddittorio peregrinare, sembra che il M5S si stia orientando verso il gruppo dei socialisti e democratici al parlamento UE. Per aderire ai quali, secondo regolamento UE, si richiede l’assenso del PD italiano. Sarebbe un viatico anche per l’eventuale consolidamento dell’alleanza sul fronte interno. Come è giusto, un po’ tutto si tiene.

La soluzione di Conte leader a tutti gli effetti del M5S e il conseguente venir meno della sua relativa distinzione/autonomia da esso farebbe svanire la suggestione di lui quale punto di equilibrio o addirittura guida del vasto campo di centrosinistra.

Non però la prospettiva di un’alleanza stabile e strategica alternativa al centrodestra che ripristinerebbe un sano assetto bipolare del sistema politico italiano. Quel bipolarismo che proprio l’irruzione del M5S aveva scompaginato. Soprattutto se, come penso, a dispetto delle chiacchiere, non si riuscirà a riformare l’attuale legge elettorale che penalizza i partiti che non stringono alleanze.

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