M5S: una vittoria con tanti padri

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Un dato emerge con chiarezza dai ballottaggi del 19 giugno: c’è uno sconfitto, il Pd, e c’è un vincitore, il Movimento5stelle. Poi c’è una destra sfilacciata che arranca e una sinistra-sinistra che si conferma inconsistente.

I “ragazzi” del M5S hanno dimostrato di sapersi muovere con accortezza tattica, concentrando le forze là dove un successo appariva possibile, intercettando dovunque il voto trasversale dello scontento antigovernativo e della protesta popolare. Le destre, sconfitte al primo turno, hanno dato un apporto ragguardevole al successo grillino: è una constatazione che va fatta e che non semplifica ma complica il quadro.

Il meccanismo dei ballottaggi porta automaticamente, al secondo turno, al rimescolamento delle carte: e si può stabilire un’alleanza non scritta ma efficace tra il secondo e il terzo classificato ai danni del primo. Con buona pace di tutte le distinzioni ideologiche e delle posizioni di schieramento. La destra, a Roma, a Torino e altrove, ha esplicitamente invitato a votare il candidato del M5S, il quale ha gradito il contributo senza curarsi dei rimproveri dei democratici: “ma come fate ad accettare i voti della destra”?

Il calcolo politico

Il fatto è che le demarcazioni tradizionali della politica italiana (quelle che imponevano di… rifiutare voti dell’avversario) non hanno più corso legale. E il movimento fondato da Grillo si guarda bene da restaurare certi confini. Preferisce fare da calamita del dissenso presentando, nei programmi, negli atteggiamenti e anche nelle persone, suggestioni in grado di appagare le più diverse pulsioni sociali e civili. Una volta si sarebbe parlato di interclassismo spicciolo o di trasformismo spregiudicato. Ma oggi l’unità di misura è quella del calcolo politico.

Soprattutto Roma ha poi funzionato, a vantaggio della candidata dei 5stelle, lo slogan dell’onestà e della trasparenza. Che potesse essere l’arma vincente era da prevedere. Il centrosinistra – e il Pd in particolare – non sono riusciti a proporsi al giudizio politico come entità diverse da coloro che, nei rapporti con la giunta Alemanno e nel periodo della giunta Marino, avevano intrecciato il proprio destino con vicende di opacità gestionale quando non di vero e proprio malaffare. Per far dimenticare “mafia capitale” non poteva bastare, e non è bastata, l’integrità del candidato sottoposto al vaglio popolare.

Si può dire, se si vuole, che gli elettori sono stati di bocca buona; che non hanno fatto una verifica accurata delle qualità della candidata, del suo curricolo, delle sue propensioni prima dell’incontro con Grillo. Valeva la pena di correre qualche rischio pur di cambiare gli inquilini del Campidoglio: a volte la gente ragiona così. E se, alla verifica del voto, certe difficoltà non sono considerate, ciò non vuol dire che siano infondate; vuol dire soltanto che erano mal poste o che mancava la credibilità di chi le poneva.

Un’ambizione nazionale

Adesso i grillini sognano in grande. La conquista di Roma (e di Torino) dà al loro successo un respiro nazionale. E molti, anche tra i commentatori, preconizzano un loro possibile avvento al governo del paese nel 2018, o anche prima se dovessero anticiparsi le elezioni. Intenzioni e aspirazioni tutte da vagliare nei fatti, a partire dalla selezione di candidature adeguate.

Ma è giusto riconoscere che, al netto degli atteggiamenti trasgressivi, a volte persino goliardici, i parlamentari dei 5stelle hanno superato la prova qualificandosi in competenza e anche in capacità di manovra. Si dirà che hanno fallito l’obiettivo di aprire il parlamento «come una scatola di tonno», ma c’è da chiedersi se questo davvero fosse il loro scopo e non invece quello di realizzare un periodo di collaudo e di rodaggio. Di cui ora si raccolgono i primi frutti a livello locale. Il resto a domani.

Gli orfani della sconfitta

L’attenzione dovuta ai vincitori non può lasciare in ombra la condizione degli sconfitti, in primo luogo il Pd. Il quale ha bensì confermato Milano, ma ha dovuto passare la mano in altre postazioni significative come Torino e Trieste, una volta a vantaggio dei 5stelle e una a vantaggio della destra.

Qui occorre concentrarsi su due aspetti peraltro connessi: lo stato del partito e il ruolo del presidente-segretario. Quest’ultimo – è vero – si era sottratto ad un eccessivo coinvolgimento nella campagna amministrativa, ma non è riuscito a distogliere da sé gli strali degli avversari esterni ed interni. Di fatto, il complesso delle politiche del governo è stato oggetto del confronto elettorale e anche le misure più positive adottate ultimamente hanno subìto la censura della propaganda avversa.

D’altra parte, quella del governo è stata l’unica faccia visibile della maggioranza. La “variante” del partito è stata solo marginalmente attivata, come con la discussa iniziativa per la celebrazione dell’abolizione dell’IMU sulla prima casa, anch’essa riflesso di una decisione del governo. Su questo aspetto, che coinvolgerà sempre di più la questione del “doppio incarico” del presidente del consiglio, si accentuerà il confronto in vista delle prossime scadenze, iniziando dal referendum costituzionale d’autunno. Ma già si parla di anticipare il congresso.

È difficile tuttavia immaginarne gli sviluppi. Quale scelta strategica? Recuperare un’alleanza a sinistra con le forze (scarse in verità) che si sono separate negli ultimi tempi? Oppure insistere su una vocazione “nazionale” che però non è andata, in pratica, oltre la contestata alleanza con Verdini? Ovvero prendere atto della presenza dei 5stelle e modulare verso di essi un atteggiamento che sia nello stesso tempo di considerazione e di sfida?

L’impressione è che le attenzioni del Pd siano ancora puntate essenzialmente sul fronte del centrodestra, sia in termini antagonistici sia in termini di possibili collaborazioni. Anche ultimamente il presidente Renzi prevedeva che il vero confronto dovesse essere con la destra. Come è accaduto a Milano, ma non altrove. Ma una strategia pensata per il bipolarismo può valere anche per il tripolarismo che ormai s’è manifestato?

Domande impegnative, alle quali va aggiunta quella sulla leadership renziana e sul suo carattere assorbente di ogni funzione politica, con in più la sovrapposizione del governo al partito e la sostanziale esautorazione di questo. Non è solo una questione personale o di carattere, anche se tali fattori pesano. È una questione di metodo politico in ordine alla ricerca e al mantenimento del consenso.

L’idea del governo… miope, che si occupa dei problemi del giorno, e del partito… presbite, che guarda lontano, è forse troppo scolastica. Ma che una distinzione di ruoli e di responsabilità sia necessaria è ormai fuori discussione. Specie in vista del referendum d’autunno, rispetto al quale circola nel Pd la suggestione di compiere una speciale… opera di misericordia: aiutare il premier-segretario a togliere il collo dal cappio in cui s’è messo da solo.

Ci sarà una direzione per analizzare la sconfitta: l’augurio è che non si risolva in una comunicazione assertiva con la richiesta finale di un allineamento che ormai può essere solo un risultato, non certo una premessa.

La destra in… riabilitazione

L’ultimo capitolo riguarda la destra. Quella a trazione leghista esce maluccio dal confronto, quella a trazione berlusconiana va un po’ meno peggio ma nessuna delle due sfonda. Il tutto cade nel mezzo della riabilitazione cardiaca di Berlusconi e dunque in un ciclo di accresciuta incertezza.

Le alternative in campo sono sostanzialmente due: quella della riaggregazione complessiva delle forze dell’area, ma qui occorre trovare una strategia univoca che oggi non c’è; o quella di uno sdoppiamento delle forze possibilmente con l’obiettivo di un’alleanza elettorale, che però esigerebbe una modifica del meccanismo dell’“Italicum”.

Al momento non è possibile formulare un’ipotesi sul destino di quest’area che pure mantiene un’importanza significativa, anche se ha perduto la capacità d’urto che aveva manifestato quando si era presentata come un’entità univoca. Si può solo auspicare che, anche su questo versante, un chiarimento possa prodursi in modo da fornire alle future scelte dei cittadini un quadro meno confuso e aleatorio di quello con cui hanno dovuto misurarsi il 5 e il 19 giugno.

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