Moro: laicità e cattolicesimo politico

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moroNella serata di ieri, mercoledì 13 luglio, è morta Paola Gaiotti De Biase (nata a Napoli il 26 agosto 1927): una delle figure emblematiche del cattolicesimo democratico del XX secolo.

Riprendiamo un suo saggio sulla figura di Aldo Moro, scritto a trent’anni dalla morte dello statista democristiano, pubblicato sul sito Sintesi Dialettica (qui).

Parlare di Aldo Moro alle giovani generazioni, dopo quasi trent’anni dalla sua fine tragica, non è facile sia per la complessità e ricchezza della sua figura, sia per l’insieme di incomprensioni e pregiudizi sulla sua autentica personalità che sono andati sedimentando quasi come senso comune,  in realtà come caricatura della storia italiana.

Affronterò questo compito da due punti di vista, dividendo cioè questa esposizione in due parti.

In primo  luogo vorrei  mettere l’accento su alcuni capitoli della lezione politica di Moro, almeno così come l’ho soggettivamente vissuta, senza pretese di esaustività, e per cenni sintetici.  In una seconda parte invece vorrei aggiungere la concretezza dei fatti a quelle idee, ripercorrendo, anche cronologicamente, l’azione politica di Moro, così come ha segnato la storia politica della Repubblica.

Le lezioni di Moro

Sul primo tema svilupperò quattro punti: 1) l’idea dello Stato, nel suo valore di fondo, nel suo rapporto con la società civile, nel suo articolarsi; 2) il rapporto intrinseco strettissimo, che è in lui fra laicità e ispirazione religiosa; 3) l’operare della politica fra complessità e coscienza del limite; 4) l’intreccio fra la forza del cattolicesimo democratico e il giudizio realistico sulla DC.

Ma ad essi va premessa una considerazione. Non è solo la qualità alta della concezione delle finalità della politica che fa grande Moro, il suo pensarla come liberazione dell’uomo, come spinta inesauribile mai appagante, insomma il suo idealismo. Tanti sono stati iniziati alla politica da una spinta ideale forte; poi nella stretta delle battaglie, nella contraddizione fra fini e mezzi, sono divenuti o impotenti o prevaricatori.

La grandezza di Moro sta nel porre, alla base della sua metodologia politica, la questione: a quali condizioni è possibile la democrazia? A quali condizioni l’agire nella battaglia democratica non si contraddice utilizzando strumenti e pratiche che indeboliscono l’humus democratico di un paese, il senso di responsabilità collettivo, la libertà dei singoli? Quali vincoli dunque l’azione politica democratica deve accettare non per astratto moralismo, ma per garantirsi quell’efficacia di fondo, di lungo periodo, che la giustifica?

Poche cose danno così netto il senso e la continuità fra la ricerca culturale, la produzione giuridica, la battaglia costituzionale e la strategia politica di Moro, quanto il superamento della contrapposizione astratta tra senso dello Stato o Stato di diritto, da una parte, e primato della società civile dall’altra.

Coscienza della statualità e ruolo della società civile sono ricondotti infatti attraverso una faticosa dialettica concreta, alla comune universalità che non è altro che il riflesso della universalità della persona.

Già le sue lezioni sul Diritto dei 1944‑1945, in cui sono ricchissime le suggestioni relative al rapporto dinamico fra diritto naturale e diritto positivo, sono caratterizzate non solo dal giusnaturalismo moderato proprio della cultura cattolica, ma anche da una forte consapevolezza storicistica legata alla tradizione giuridica meridionale in cui “l’avanzare del diritto naturale verso la positività contribuisce a quella liberazione dal diritto che è il punto di sbocco dell’ esperienza giuridica”.

Vi emerge così un senso forte, non  solo altamente responsabile, ma dinamico e non formale, dello Stato, segnato da un rapporto strutturale con la società civile. Da una parte «i profili più interessanti legati al problema complesso della autonomia della società di fronte allo Stato» sono già quelli che saranno al centro del suo contributo costituzionale: “e rivendicazioni liberali che tendono a contrapporre allo Stato positivo, un ideale di società come espressione dei diritti naturali dell’individuo”, e “il tema interessantissimo della pluralità degli ordinamenti giuridici”;(1) dall’altra la società è vista non come un momento altro ma come il luogo originario dei farsi e dello svolgersi dinamico dello Stato, non come entità separata fornita di una sua propria separata logica contrapposta ma come l’altro polo di una dialettica insopprimibile.

Questo ci aiuta a comprendere in modo specialissimo non solo quale è il senso e il significato della strategia politica di Moro ma anche il suo sentimento della crisi: la società civile non si salva da sola, ma si salva riconoscendosi e costruendosi come società già politica. E, reciprocamente, il quadro politico non si garantisce e preserva, non si ricostruisce di nuovo che nella misura in cui incrocia e incontra i fermenti vitali della società, le sue tendenze contraddittorie e le sue attese più alte.

Laicità anima dell’ispirazione cristiana

Entro questa idea dello Stato si prefigura anche la laicità di Moro. In Moro, e ne sono testimonianza già gli scritti giovanili dell’epoca fucina, del suo apprendistato, come è stato detto (2), la laicità non è né un limite, né un’aggiunta alla sua ispirazione cristiana, ne è l’anima.

Moro si è formato nella Fuci di Montini e Righetti, a una concezione insieme profonda e sobria dell’esperienza religiosa, a una pratica insofferente di formalismi e sentimentalismi, intrinsecamente inscindibile da un fortissimo impegno intellettuale, un’apertura fiduciosa nella cultura laica e al mondo, un senso fortissimo insieme dell’amicizia e della autonomia di giudizio.

La laicità non è una concessione al mondo ma è il segno di una coscienza religiosa che è maturata anche nel rapporto con i valori della modernità discernendone la loro dimensione provvidenziale; e la laicità politica è tutt’uno con il senso del limite della politica, il rifiuto di ogni ideologia totalizzante.

È del resto segno della sua “laicità” politica anche il rifiuto di sospendere l’impegno politico quando non ce ne sono le condizioni ottimali, rappresentazioni tutte univoche e chiare, di piena corrispondenza fra ideali e possibilità; è l’accettare, invece, di fare quel che si può, come si può, con le forze che si hanno, senza l’illusione di scavalcare i dati della storia, “i tempi che ci tocca vivere”.

Per Moro la testimonianza ideale del cristiano in politica non è l’astratta coerenza. Nell’ultimo discorso ai Gruppi parlamentari dirà: “La testimonianza è la cosa più pulita e quindi adatta a una coscienza cristiana… forse riscatta, con il suo valore spirituale, tante cose meno belle che ci sono nelle nostre esperienze. Ma se io dovessi decidere in base alla difesa, che pur tocca a noi, di alcuni interessi, non grandi interessi, ma i normali, i legittimi interessi di questi 14 milioni di elettori, se io dovessi scegliere, per quanto riguarda la loro integrità, la loro difesa, ecco, io avrei anche qualche esitazione a scegliere la via della testimonianza”.(3)

Non per questo c’è in Moro né la tentazione di fare solo la politica dell’esistente, di subire la società civile come è, né la rinuncia alla funzione e autonomia della politica, sentita anche come continuo confronto pedagogico reciproco con la società civile, l’assunzione di una funzione di guida che in tanto si legittima in quanto é consapevole dei primato della società civile.

Realismo cristiano

Più d’uno ha messo in evidenza, nell’analizzare l’opera di Moro, l’eccesso di prudenza, l’accento sulla gradualità, la preoccupazione di reazioni a destra che avrebbe guidato la sua complessa mediazione politica. Va invece rivendicata la capacità di Moro di porsi all’avanguardia, di spingere in avanti, utilizzando per questo le linee di tendenza emergenti.

Voglio dire: prudenza e audacia in Moro sono le forme di una sua attenzione ai trends sociali più forti e vitali, della consapevolezza che l’efficacia della politica non sta nelle tattiche politicistiche ma nella sua capacità di tener conto, favorire e rafforzare processi sociali già in atto e i loro elementi positivi.

È questo il suo realismo cristiano: e per questo realismo dirà che “vale così poco la sovranità tutta esteriore del potere”;  “non si dirige solo perché si può: ma perché si è promotori e depositari di una opinione comune dalla quale il partito muove, che vale ad orientare, senza opprimere e mistificare, la realtà sociale verso i suoi obiettivi naturali”.

È questo  rapporto continuo, stretto, strutturale, della politica con la società civile che fonda la metodologia politica di Moro che mi pare possa essere sinteticamente ricondotta alla coscienza della complessità e alla coscienza del limite.

Moro, a me pare, ha vissuto fino in fondo una logica dell’azione politica che è forse l’unica pienamente coerente con la democrazia. Fra il machiavellismo di chi privilegia gli strumenti per la conquista dei potere ‑ e si fa, lo voglia o no, tiranno e corruttore ‑  e il velleitarismo utopico e illuminista di chi predica gli obiettivi ma trascura i mezzi, Moro ha avuto dell’azione politica una concezione che chiamerei vichiana: ha cioè puntato su quanto nella storia si muove, fra passioni, peccati, egoismi, intenzioni di vario genere e natura, ma interpretandole, sospingendole secondo una logica segreta della storia che è quella che Vico attribuisce alla Provvidenza.

Moro non forza mai la natura delle questioni politiche: vi entra dentro, le segue nella loro complessità, le depura dalle loro contraddizioni asseconda le linee di tendenza, con quel tanto di intervento che ne impedisce la degradazione. Questo sentimento complesso della realtà storica entro cui insieme matura o si degrada la società civile e si disegnano i rapporti politici, traspare chiaramente anche nel linguaggio di Moro .

Il linguaggio di Moro ci ha educato un po’ tutti al rispetto della complessità del reale, a riconoscere le contraddizioni della vita per quello che sono, a riconoscere la difficoltà oggettiva delle sintesi e l’impossibilità delle sintesi totali, ci ha educati infine alla pazienza e alla umiltà.

Basterebbe prendere ancora come simbolo quella famosa espressione (che non è certo sia sua ma potrebbe esserlo) sulle convergenze parallele, che ha dato luogo a tante facili battute.

Quell’espressione è fra l’ altro fondata sul superamento della geometria euclidea delle superfici piane, in cui le parallele non si incontrano, e sul rilievo assunto dalle geometrie non euclidee, in cui le parallele si incontrano all’infinito; essa dice che lo spazio piano è astratto e lo spazio reale non è piano e che non si può disegnare una linea politica coerente sulla base di una concezione astratta dei piani della storia. In realtà il linguaggio di Moro è un linguaggio che socializza l’interrogarsi per capire e non pretende l’assenso a priori.

Politica e mediazione

La mediazione morotea non è dunque l’esaltazione del compromesso fra i soggetti politici ma lo specchio di questa complessità della politica. Certamente in questa complessità spesso sono sembrati poco presenti i problemi concreti nella loro immediatezza. È forse il capitolo più delicato e meno compreso della ricostruzione del personaggio.

Ho già espresso la convinzione che quanto più ci si sente legati al magistero del personaggio Moro, tanto più si può guardare dentro senza paura alle critiche mosse all’uomo di governo (le accuse d’insufficienza, di lentezza, di scarsa concretezza nella direzione dell’esecutivo) e all’uomo di partito (la tendenza a fare unità fra i leader di vertice, a privilegiare i movimenti lenti e indolori, ad addormentare e smussare le intemperanze) fino a vedersi in qualche modo, negli ultimi tempi, contrapposto a Zaccagnini, lui sì, leader del rinnovamento.

In realtà, a rileggere nei dettagli i suoi stessi discorsi politici dove espone programmi di governo, approcci tecnici a singoli problemi si avverte come talora un certo fastidio di Moro non fosse il segno, non di un rifiuto dei concreto, ma di una più profonda coscienza del concreto, contro il ritualismo di facciata delle sigle, delle corporazioni, delle stesse voci costituitesi rappresentative della società civile, più in chiave strumentale che in chiave politica.

Ha scritto Leopoldo Elia: “Tutta l’opera politica di Moro si muove in un contesto in cui non è preminente, come in altri paesi, l’ attuazione del programma governativo, il fare quella riforma…l’ elemento decisivo… è il rapporto con partiti che si trovano in una situazione di diversità rispetto agli elettori del paese stesso”.

Il carattere dell’anticomunismo democratico di Moro non è mai “di esclusione e di discriminazione rispetto al partito comunista e al partito socialista”; è anzitutto nel risultato di trasformazione e di legittimazione del suo e degli altri partiti perché potessero convivere”.(4)

Questa doppia coscienza, della complessità sociale e del limite dell’azione politica (che non può rovesciare i dati dell’esistente, che non può modificare arbitrariamente la realtà, che per certi versi non deve perché non deve forzare le coscienze) costituiscono il realismo di Moro malamente identificato con una passività orientale o un cinismo curiale, mentre é un altra cifra della sua laicità religiosa, il rifiuto della onnipotenza, della politica come dominio, e della presunzione di poter a priori programmare e determinare gli eventi entro un gioco tutto politico; mai però la consapevolezza della nostra piccolezza, dei limiti e dei rischi dei nostro agire, è rinuncia a intervenire nella storia, a farla progredire.

Anche nella sua concezione della politica  Moro é uomo mite, come lo ricorderà Paolo Vi nell’ultima preghiera. Ma egli accetta anche, a differenza dei veri conservatori, la legittimità del conflitto come un proprium della politica. Non rinuncia certo alle proprie battaglie; ma si affida alla categoria della mitezza per scegliere le armi proprie per difenderle. La durezza interviene raramente, quando c’é scandalo, incoerenza, tradimento, finzione.

Cattolicesimo civile

Ciò che ricavo da queste rapide e limitate riflessioni è che il magistero politico di Aldo Moro si pone nella storia dei cattolicesimo democratico in un quadro che a me pare individuarne la natura profonda e di lungo periodo: e cioè non come ideologia politica, che pretenda avere una sua ricetta esclusiva e compiuta per il governo della società, non come braccio secolare, nelle democrazie moderne, di una perenne dottrina sociale della Chiesa, ma piuttosto nella sua valenza pedagogica, di pedagogia civile.

Il “titolo a guidare il paese”, dirà a Udine nel 1969, non è affidato a una tradizione, per quanto significativa, né ad un mancanza di alternativa, per quanto drammatica” ma “ad una  vibrazione popolare connaturale a questo momento della storia”.

Nello stesso discorso, di fronte alla stessa crisi dell’interclassismo e alla intollerabilità della risposta della violenza rivoluzionaria  ricorda che “il basso tono della pubblica moralità e la progressiva decadenza dei costumi non preparano alla democrazia”.(5)

Questa pedagogia civile si costruisce nella compresenza insieme di tre riferimenti forti: il principio di non appagamento che è l’anima alta utopica della democrazia; il richiamo alla responsabilità politica personale, ai modi della vita sociale, della iniziativa di enti e formazioni sociali come dato primario della convivenza; il realismo di chi deve sapere di doversi sempre misurare coi peccato, inteso come limite, proprio e altrui.

Una tale pedagogia è legata ad alcuni intuizioni di fondo, una visione critica ma positiva della modernità, con l’assunzione dei grandi valori di libertà, solidarietà, democrazia, forma dei governo pacifico dei conflitti, una potenziale, ancora del tutto incompiuta, teorica dei rapporto fra fini e mezzi. E tale valenza pedagogica si é andata sviluppando, in reciproca contaminazione con le altre tradizioni politiche, a partire dalla elaborazione costituzionale.

La conseguenza di tale ipotesi, è che l’identificazione dei cattolicesimo democratico come partito é stata una identificazione nel migliore dei casi provvidenziale, certamente congiunturale, ma comunque contraddittoria, una scelta da rispettare ma tutt’altro che da perseguire. Alla nascita dei PPI, Martinazzoli giustamente ricordò Rosmini e Sturzo come simboli alti della lezione cattolico democratica, dei ruolo storico dei cattolicesimo democratico.

Ma Rosmini e Sturzo di tutto possono essere simbolo ma non della unità politica dei cattolici; le loro, alte intuizioni anticipatrici furono sconfitte non dagli avversari ma in primo luogo entro la stessa Chiesa, attraverso la condanna delle “Cinque Piaghe”, sotto la pressione dell’ambasciatore d’Austria, e dal voto a favore della legge Acerbo dai clerico moderati. Il terreno della loro sconfitta è segnato da un duplice conflitto: le ragioni dell’innovazione rispetto agli equilibri esistenti; il rapporto da stabilire fra strategie politiche e difesa dei cosiddetti “interessi cattolici”.

Certo tale ipotesi non è stata ancora intravista o esplicita in Moro. E tuttavia il giudizio di Moro sulla realtà effettiva del partito DC è andato divenendo sempre più severo, a partire da quel durissimo intervento nel 1969, che sanzionò  definitivamente la sua coscienza di essere minoranza e insieme la forza della sua leadership ideale.

Oggi, possiamo dire che, se De Gasperi e Moro hanno potuto determinare in modo alto la politica democratica, la loro grandezza sta proprio nell’averlo saputo fare dovendosi servire di uno strumento politico, nella concreta congiuntura storica provvidenziale, ma contraddittorio e inadeguato, esposto a spinte contrastanti. E questo spiega anche perché siano bastati solo pochi anni dalla morte di Moro per rovesciarne totalmente la strategia.

I passaggi chiave della biografia politica di Moro

Queste mie considerazioni di carattere generale,  nate entro un’esperienza soggettiva, come tale parziale, hanno tuttavia bisogno di una verifica nei fatti; nel quadro delle attuali conoscenze giovanili  (e non solo giovanili) su Moro, non possono essere appaganti convinzioni soggettive maturate in altro contesto e sparse citazioni. È dunque nei fatti, sia pure molto sinteticamente richiamati, della vita di Moro che si dovrà  verificarle.

La formazione del personaggio Moro si fonda certamente, come humus determinante, dopo le importanti suggestioni familiari iniziali, nella straordinaria formazione nella Fuci montiniana e nei suoi approfonditi studi giuridici.(6) Ma dopo i lucidi e anticipatori scritti di commento alla nuova realtà italiana della liberazione,(7) scritti sui giornali fucini, il primo passaggio pienamente politico  è ovviamente la Costituente, dove il ruolo di Moro fu decisivo. (8)

Sua la proposta di struttura del testo che va dai fondamenti generali ai diritti personali  alla organizzazione dei poteri; come membro del comitato di coordinamento dei 18 esercitò un continuo monitoraggio di tutto il testo, una costante alta mediazione. E va pur aggiunto che in tutta la vicenda andò comunque costituendosi una tensione comune, un impegno, uno scambio di esperienze e sensibilità  della nuova generazione di politici cattolici, che non fu senza effetti per la storia della Repubblica.

Ma a lui si devono anche interventi risolutivi su più punti, decisivi allora e oggi per evitare lo scontro. Nilde Jotti gli riconobbe in passato che fu l’incontro delle sinistre con il gruppo dossettiano che consentirono una formulazione “aperta e avanzata” sul tema della famiglia e che “il discorso di Moro costituì un elaborazione cattolica e ad un livello senza dubbio notevole”.

Uno degli uomini più vicini a lui ha scritto a proposito di quel dibattito che conferma “la validità della teoria pluralistica della vita sociale e giuridica. La quale togliendo allo Stato il monopolio della giuridicità ed impedendo l’identificazione fra eticità e legalità costituisce suprema garanzia della libertà e della democrazia”.(9)

Sul tema della scuola la rilettura degli interventi di Moro, nel confronto pur duro con Concetto  Marchesi, mette in evidenza una visione che sposta lo stesso interesse cattolico sulla libertà della scuola verso il principio generale di un governo non centralistico, ma autonomistico dei processi di formazione, di un ripensamento del ruolo generale dello Stato nelle politiche dell’istruzione, anche attraverso anche l’attenzione alle esperienze estere.

Anche per merito di Moro la Costituzione, con le sue autonomie e il suo pluralismo non è quella che avrebbero fatto i ceti moderati liberaldemocratici;  se è un compromesso non lo è fra una borghesia illuminata o conservatrice che fosse e la pressione del proletariato, entro il quale i cattolici sarebbero stati  inconsapevoli notai.  In realtà essa è più di un compromesso; è una mediazione alta in cui una lettura comune dell’esperienza mondiale della crisi, dei totalitarismo e della guerra, traversa gli uomini di buona volontà per una  rinascita collettiva.

Dopo la Costituente

Negli anni Cinquanta,  Moro resta vicino al dossettismo, pur con accenti diversi soprattutto di fronte alla linea degasperiana di alleanza con i partiti laici; aderirà a Iniziativa democratica dopo le dimissioni di Dossetti, pur restando in parte defilato. Nella seconda legislatura è già però, prima Presidente del Gruppo parlamentare DC alla Camera, poi ottimo Ministro di Grazia e Giustizia e Ministro della P.I.  cui si deve, fra tanti altri provvedimenti, l’obbligo, così poco rispettato e approfondito, dell’insegnamento della Educazione civica.

Il suo venire alla ribalta come leader è tuttavia segnato dalle improvvise doppie dimissioni di Fanfani, da segretario del partito e da Presidente del Consiglio, un Fanfani insidiato dal dilagare sia delle critiche alla sua conduzione troppo organizzativistica e centralistica del partito, sia all’apertura a sinistra, che appare fra l’altro, di segno eccessivamente pragmatico, tattico, un’apertura motivata con lo “sfondamento a sinistra”.

Le critiche, si vedrà bene poi, non sono tutte dello stesso segno politico; vi sono arroccamenti conservatori, privilegi da difendere, insieme a concezioni più rigorose e aperte delle strategie da costruire. Ma l’elezione di Moro alla segreteria è vista insieme come provvisoria e come una garanzia, proprio in ragione dello stile personale sobrio e della sostanza forte del suo pensiero politico.

E sarà una segreteria decisiva nella storia della DC. Ho scritto nel 1979 e ripeto qui: “L’errore dal quale dovrà difendersi lo storico di domani sarà quello di identificare nella segreteria di Moro, nel suo imprevisto rivelarsi come leader naturale, non più che un momento, un episodio, per quanto nobile ed alto, della storia della DC, continua e in qualche modo tutta racchiusa nella sua nascita del 1943”.

In realtà  con Moro alla segreteria la DC inaugura una fase della sua storia – pur se non va sottovalutata la continuità col ruolo nazionale definito da De Gasperi una volta per tutte, e con le condizioni materiali del suo ruolo autonomo nella realtà del paese, costruite nello sforzo organizzativo di Fanfani – che compie davvero, in senso politico, la saldatura  fra la riscoperta del popolarismo e quanto è restato politico della esperienza dossettiana, della utopia cristiano sociale, nei i termini dei problemi posti dallo sviluppo e dal Concilio  Vaticano II.

Questa operazione culturale, tradotta pubblicisticamente, nella reiterata, continua riaffermazione del carattere “popolare e antifascista” della DC (tanto più insistito dopo la vicenda Tambroni) ha i suoi capisaldi nel discorso di Napoli del 1962, in  quello di commemorazione di Sturzo,(10) che stimola nella nuova generazione, quasi una riscoperta, nei Convegni di San Pellegrino che volle come riflessione collettiva,  nel passaggio a classe dirigente dei giovani usciti dalla scuola di formazione della Camilluccia; e ovviamente nella strategia d’apertura a sinistra condotta da Moro, rinsaldando anche un certo rapporto con Fanfani, fondata ora però soprattutto nell’esigenza di allargamento della base popolare dello Stato, di maggiore rappresentatività delle classi subalterne.

Nel discorso congressuale di Firenze nell’ottobre del 1959, lo definisce la sua utopia: “In una società democratica, come quella che abbiamo contribuito a delineare nella Costituzione e che vogliamo costruire nella realtà, vi è un problema fondamentale di valorizzazione generale e compiuta dell’intera società. Cioè generalità dell’esercizio del potere e generalità dei benefici dell’esercizio del potere. Nessuna persona ai margini, nessuna esclusa dalla vitalità e dal valore della vita sociale… Questo è il problema immane della immissione delle masse nella vita dello Stato”.

Ciò può essere reso possibile solo dal maturare della coscienza democratica ed alimentata dalla consapevolezza del valore dell’uomo e delle ragioni prevalenti della giustizia. Nello sfondo c’è l’obiettivo ancora utopico, di portare tutti ii partiti nella  loro piena legittimità democratica: un obiettivo complesso, dei cui limiti Moro ha piena coscienza: da una parte una democrazia cristiana, il cui ruolo è essenziale, ma “divisa e in larga parte incapace di elaborazione politica”, dall’altra un comunismo ancora “organicamente negato alla iniziativa e alla libertà dell’uomo”; e tuttavia Moro respinge “l’anticomunismo rabbiosamente negativo” perché “il comunismo è chiamato, in una società aperta al progresso nella libertà… ad occupare un posto, nell’area della libertà, a fruire dello Stato di diritto”. La minaccia si fronteggia solo “con l’impeto innovatore, la spinta democratica, la vocazione popolare” della DC.

Indipendenza dalla Chiesa e la DC degli anni ’70

Moro non solo riuscirà comunque a portare un partito ancora diviso alla collaborazione con i socialisti, ma resisterà, grazie anche alla novità conciliare, anche per la coerenza con essa nella sua storia spirituale, alle pressioni della Chiesa italiana, ai “Punti Fermi” della appena nata CEI, riuscendo nel suo obiettivo senza fratture insanabili.

Non si trattò, come troppi la lessero, di una sorta di machiavellismo clericale. In realtà nessun leader politico sembra aver avvertito più di Moro il peso negativo della mancanza di alternativa in questo paese; pochi hanno operato quanto lui per l’unificazione socialista che avrebbe pur potuto esserne una prima forma. E non è un caso che proprio il fallimento dell’unificazione sia destinato a coincidere anche con la sua sconfitta personale.

L’attività di governo di Moro come leader del centro sinistra ha, mi pare ancora bisogno di un approfondimento storico degno.

Certo è che egli è costretto a misurarsi con difficoltà diverse, da una DC spesso insofferente, a un socialismo, che accanto a stimolazioni progettuali alte, ai disegni progettuali di Giolitti e Ruffolo, è ancora carico di schematismi, dalle difficoltà economiche che spingeranno verso la riduzione dell’impegno riformista, agli inizi di quelle manovre occulte che segneranno i decenni successivi, allo scoppio di una contestazione universitaria, cui non si seppe o non si poté rispondere con la riforma dell’Università, alle diffidenze americane per il suo disegno politico. In ogni caso resta a suo carico una politica estera più dinamica, la legge sulla programmazione, l’istituzione delle regioni con l’approvazione della legge elettorale regionale, la legge che imponeva la giusta causa per i licenziamenti.

Va riconosciuto comunque che al centrosinistra di Fanfani si deve l’introduzione della media unica e  la pur discussa nazionalizzazione dell’energia elettrica.

Dopo le elezioni del 1968 Moro è condannato dalla classe dirigente democristiana a una sostanziale  emarginazione. Sarà allora che pronuncerà, al Congresso del 1969, uno dei discorsi più duri della sua carriera, contro  la deriva moderata che avanza, la cosiddetta dottrina della centralità, a cui esplicitamente approderà il doroteismo, ma soprattutto contro le prassi opportunistiche e clientelari dei gruppi dirigenti, contro la corruzione.

Ma da quella DC egli sarà umiliato prima dai numeri (la corrente morotea non raccoglie ora mediamente che il 13% dei consensi), poi dai gruppi parlamentari che per pochi voti gli preferiranno Leone nella candidatura a Presidente della Repubblica nel 1972. La stessa vicenda della sua candidatura (la candidatura di un uomo ancora giovane, che stupisce molti che lo apprezzano e che lo vorrebbero ancora impegnato nella battaglia politica) suggerisce l’ipotesi della sua consapevolezza dei rischi che incombono sulla democrazia italiana, da garantire al livello più alto.

Minoritario e leader

Egli resta comunque leader non solo con una strategia politica di lungo periodo ma con una capacità, unica nella DC, di interpretare la congiuntura culturale di quegli anni. È lui che affronta le sfide storiche della contestazione giovanile In un discorso straordinario del 1968 segnato dalla frase “Tempi nuovi si annunciano”: “il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra non siano ulteriormente tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze dell’intera umanità, la visione del diritto degli altri, il fatto che i giovani non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni dei grandi cambiamenti e del travaglio doloroso da cui nasce una nuova umanità”. “Di contro a sconcertanti e forse transitorie esperienze quello che solo vale e a cui bisogna inchinarsi è un nuovo modo di essere della condizione umana”.(11)

Sullo stesso piano di attenzione al nuovo, senza cedimenti e subalternità, c’è una lettura del femminismo, al Congresso della Dc del 1973, forse unica negli ambienti DC: “di fronte alla rivendicazione della totale proprietà del proprio corpo, espressa dalle donne, per quanto si sia turbati, bisogna guardare al nucleo essenziale della verità, al modo di essere della nostra società, che preannuncia soprattutto una persona più ricca di vita  e più consapevole dei propri diritti”.

Pur senza cedimenti di principio Moro resta freddo e diffidente di fronte ad una strategia cattolica che reagisce alla secolarizzazione della società riproponendo integralismi e illusioni di rivincita con il referendum sul divorzio, e terrà il suo governo del 1974, volutamente estraneo alla questione dell’aborto.

Ma non è irrilevante che il più significativo progetto di mediazione fra favorevoli e contrari alla interruzione di gravidanza sia stato scritto, sulla rivista Il Mulino, da suo fratello Carlo, magistrato di grande valore e esperienza e che era stato come lui Presidente della Fuci; e si tratta di un articolo che ispirerà di fatto, pur con accentuazioni liberalizzanti, la scelta della prevenzione sulla repressione proprio della 194, proposta dai cattolici di sinistra.(12)

Negli anni Settanta Moro ha comunque il merito di tenere aperto un dialogo con una realtà giovanile cattolica, coinvolta nelle nuove attese, critica nei confronti della DC, ma che andrà sempre più riscoprendo il valore del cattolicesimo democratico, attraverso un nuovo radicamento generazionale di esso.

In un contesto politico segnato dalla contestazione giovanile poi dagli inizi del terrorismo e dalla strategia della tensione, in un contesto ecclesiale giovanile come quello degli anni Settanta, estremamente articolato, in cui emergono fratture interne fra movimenti della diaspora, aggregazioni giovanili  di segno opposto come Comunione e Liberazione, diffidenze dalla politica, tentazioni utopistiche, scelta religiosa dell’AC, Moro e poi Zaccagnini resteranno riferimento, accolti spesso con entusiasmo da grandi assemblee, di una cultura giovanile, forse elitaria ma significativa,  che riscopre il rapporto fra fede e politica in chiave di autonomia laicale, di cultura dell’intesa, moltiplicando decine di circoli locali, dedicati ai popolari antifascisti dell’esilio come Ferrari e Donati.

Si può parlare a questo proposito di una nuova fase del radicamento della cultura cattolico-democratica dopo la nascita del PPI e la riscoperta della sua storia dalla generazione di giovani resistenti  che si esprimerà più tardi nell’azione antimafia, nell’impegno per la riforma della politica, a partire dai referendum elettorali.

Intuire i tempi che verranno

Ma la sua capacità di anticipazione dei problemi degli anni seguenti è evidente in un discorso rivolto ai suoi amici, nel luglio del 1971, e che una indiscrezione inopportuna renderà pubblico,(13) in cui si denuncia: la responsabilità dei partiti che non hanno capito e accolto il “grandi sommovimento della società italiana che cercava un crescita democratica; l’esistenza di una destra tracotante più potente di quanto risulti dai voti e non esistenza di un pericolo a sinistra; la congiura della mediocrità e dell’incultura che traversa la democrazia cristiana e la sua somma di errori; il  pericolo del referendum sul divorzio e la leggerezza con cui è affrontato; l’impossibilità di denunciare apertamente partito e governo per l’incertezza degli  esiti di una tale azione”.

Di questa fase, inoltre, si deve recuperare il ruolo di Moro come Ministro degli Esteri, dal 1969, nominato nel Governo Rumor, in sostituzione di Nenni dimissionario per ragioni interne socialiste, al 1973, con un’attenzione, insieme utopica e realistica alla politica estera che continuerà come Presidente del Consiglio dal 1974 al 1976.

Mentre il ruolo di uomo di partito di Moro è stato molto studiato, poco indagata è stata la sua azione di politica estera, sulla quale ha pesato il giudizio negativo di Henry Kissinger. Un suo importante collaboratore, l’ambasciatore Gaja, invece sottolinea l’ampiezza e la concretezza della visione internazionale del politico democristiano, che definisce “diplomatico per ispirazione e per nascita” e di cui dirà che “ha saputo indicare ai suoi partner la via da percorrere insieme e prevedere quale sarebbe stato, per ciascuno di essi il punto d’incontro”.(14)

Moro esordisce nell’ottobre 1969, così esprimendo la sua “utopia” all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: “stiamo per entrare in una nuova fase della storia”. Manifestava la sua percezione del momento storico in un programma definito “una pace integrale”, nel quale enunciava insieme agli obiettivi della politica estera italiana i principi di una nuova etica internazionale.

È stato giustamente scritto che “il discorso di Moro rappresentava la sintesi tra la visione cattolica, maturata nell’associazionismo giovanile, in sintonia con quella del papa Paolo VI, cui era legato del resto da vincoli di personale amicizia e la necessità di favorire la distensione internazionale”.

Moro non è solo cosciente del nesso fra politica internazionale e problemi interni della democrazia italiana: fa di questo nesso l’asse della sua politica con il sostegno alla distensione, su una linea apparentemente meno caratterizzata dall’ afflato pacifista come quella di Fanfani e La Pira, più operativa e concreta, e per certi versi in continuità con quella di Nenni, assumendone tutti i dati complessi. Accanto ad una continuità indubbia colla politica estera precedente,  il nesso atlantismo- europeismo-distensione rappresenta il passo necessario, e fecondo, per procedere sulla linea del confronto.

In questo quadro non si deve dimenticare che tutto il processo che porta alla  Conferenza di Helsinky è segnato dal suo realismo e dalla sua determinazione, nell’ipotesi di fondo che l’accompagna (fra Est e Ovest non solo una conferenza per la sicurezza militare ma un insieme di rapporti regolati in materia di diritti e di scambi culturali, di rapporti di mercato; non solo un dialogo fra due superpotenze ma un ruolo decisivo dell’Europa per superare il bipolarismo) e dandone il segno indicando gli sforzi del paese per superare dissidi che duravano dal dopoguerra, con la Jugoslavia e con l’Austria, sostenendo la Ostpolitik di Brandt, offrendo di fiancheggiare iniziative per la pace nel Mediterraneo e in Medio Oriente, continuando a cercare punti d’intesa coi paesi dell’est europeo.

Sarà del resto proprio Helsinky a innescare, con la dottrina dei tre cesti, gli inizi di una contestazione nell’URSS, con la diffusione dei samizdat, di risposte economiche variabili entro il quadro dell’ Est, coma fra Polonia e Ungheria. È lecito insomma pensare che senza Helsinky non saremmo mai arrivati alla caduta del muro di Berlino.

Moro resta dunque un leader in questi anni, anche se sostanzialmente emarginato nella DC. Si è già detto del voto dei gruppi parlamentari riuniti che gli negano, preferendogli per tre voti Leone, la candidatura ufficiale della DC alle elezioni del Capo della Stato, con il pretesto che non si poteva votare un Presidente che sarebbe stato votato anche dai comunisti.

La segreteria Forlani e il governo Andreotti hanno assunto una linea politica di restaurazione centrista dopo le elezioni del 1972 col compito prevalente di affrontar la crisi economica, ma attraverso una linea di dilatazione della spesa pubblica che sarà definita “politica delle mance”, una politica che è però anche impopolare e insidiata da agitazioni di base.

Di fronte al rischio di una crescente  debolezza politica della DC, Moro affronta il Congresso del 1973 mettendo in campo un gesto di straordinario realismo politico, che lascerà inizialmente sconcertati anche molti morotei, cancellando, di fronte al degrado che incombe, polemiche e rivalità precedenti: si tratta dell’ accordo con Fanfani e Rumor, che andrà sotto il nome di Palazzo Giustiniani, per costruire una nuova maggioranza interna che riporta Fanfani alla segreteria del partito.

Nasce da lì, pur fra contraddizioni e velleitarismi,  una politica che sanzionerà definitivamente  la fine della strategia della centralità, così come era stata concepita dal doroteismo. Fanfani punterà sul referendum contro il divorzio, ma sarà drammaticamente smentito dai numeri, che confermano la legge sul divorzio, con percentuali assai più alte di quelle stesse ottenute in Parlamento.  Più tardi i risultati delle amministrative del 1975, con la forte affermazione del PCI e la diffusione delle giunte rosse, quelli politici del 1976, con una sostanziale parità fra DC e PCI, un’affermazione di cui è stato segno proprio il mutamento del voto femminile, indicheranno la nuova fase politica.

Dal 1974 comunque, nella nuova fase che si è già aperta, Moro è Presidente del Consiglio; ed è già questo che indica che il quadro è cambiato. Moro è il leader che ha inventato “la strategia dell’attenzione”, privilegiato il dialogo con l’opposizione invece dello scontro, che ha coscienza dell’anomalia del caso italiano, il leader che potrà rispondere ai risultati elettorali del 1975 e del 1976 con la nuova strategia del confronto che va oltre quella del dialogo.

È soprattutto il leader che ha posto le basi, con la strategia della distensione, del quadro che consente al PCI la presa di distanze da Mosca e la proclamazione dell’eurocomunismo di Berlinguer, in cui la costruzione europea inizia a disegnarsi come nuova vocazione internazionalista del PCI, fino ad ammettere il ruolo positivo, di garanzia per tutti, del Patto Atlantico.

L’ultima fase di Moro uomo libero

L’intreccio fra la sconfitta referendaria sul divorzio e i risultati delle amministrative del 1975, con la moltiplicazione delle “giunte  rosse”, aprono nella DC e nella segreteria Fanfani una crisi seria che sarà risolta in un drammatico consiglio nazionale, chiusosi in una data simbolica, la notte fra il 25 luglio e il 26 del 1975.

Da esso uscirà eletto, grazie anche alla abile e paziente determinazione di Moro nelle trattative, un personaggio per certi versi imprevisto, anomalo nel ceto politico democristiano, legatissimo a Moro, Zaccagnini, che diverrà presto quasi un’icona della nuova passione politica giovanile, simbolo, con la sua sobrietà di vita e l’autenticità del suo messaggio, di una etica della politica altra.

Lo sforzo di Zaccagnini per rinnovare il partito tuttavia  troverà troppi nemici e non basteranno le pur importanti novità introdotte a fatica, due segnali anti-correntizi, l’elezione diretta del segretario e la progressiva costruzione, fra le tre correnti morotea, di Base e di una parte di Forze Nuove, di quell’area Zac che rafforzava la logica maggioritaria e non compromissoria nel governo del partito.

Con questa segreteria, il disegno moroteo, che non è solo un disegno astratto, la sua utopia di sempre, ma è ora l’unica risposta possibile alla instabilità e ingovernabilità italiana, all’attacco terroristico, riprende vigore.

In Moro c’è la piena coscienza che  la riforma del sistema politico italiano passa per il superamento dell’impossibilità dell’alternanza, senza la quale l’impunità e l’irresponsabilità della classe politica è destinata a crescere;  ma questo stesso obiettivo suppone fra le grandi forze politiche contrapposte un momento, un passaggio armistiziale, di condivisione degli obiettivi riformatori del sistema,  una pur temporanea messa in mora della conflittualità per ritrovare lo spirito che fu della Costituente.

Di qui prima con più prudenza, poi in forme più impegnative dopo le elezioni politiche del 1976, -che, pur non avendo sancito il sorpasso del PCI, avevano comunque fatto emergere DC e PCI come vincitori quasi alla pari- la proposta della politica della solidarietà nazionale, risposta DC alla proposta berlingueriana di un compromesso storico, avanzata già nei commenti  alla tragedia cilena.

Alla base di questa proposta, come dirà nel suo ultimo discorso ai gruppi parlamentari, “c’è l’emergenza… c’è la crisi dell’ ordinamento democratico, questa crisi latente con alcune punte acute. Io non temo le punte, temo il dato serpeggiante  di questo rifiuto dell’autorità, questa deformazione della libertà che non fa più accettare vincoli e solidarietà”.

Ma “l’accordo misurato, opportuno, legato al momento nel quale viviamo” non pretende di anticipare il futuro. In questo Moro sarà nettissimo: da una parte sa e dice che “potrà esservi qualcosa di nuovo” ma ammettendo che non sa cosa di nuovo; dall’altro insiste che condizione di esso è l’unità della democrazia cristiana, è “preservare l’anima, la fisionomia, il patrimonio ideale, della Democrazia cristiana”.

In nome di questa unità da salvaguardare, di un immagine  interna ed internazionale da non turbare troppo, l’ adesione comunista sarà ancora esterna al governo, e sarà ancora Andreotti a presiedere il secondo passaggio chiave della solidarietà nazionale, mentre Moro è Presidente del partito, un ruolo che forse gli stava  un po’ stretto.

Ma il governo costituito da Andreotti,  che doveva presentarsi in aula per la fiducia il 16 marzo del 1978, era strutturato ahimè in forme assai poco accettabili, con nomi che mettevano esplicitamente in difficoltà i comunisti, tanto da rischiare un insuccesso in aula. Fu, come si sa l’emergenza drammatica legata al rapimento di Moro, il senso di un attacco terribile allo Stato che spinse il PCI, superando tutte le critiche, a dare la fiducia ad Andreotti.

La storia politica di Moro uomo libero non può che finire qui.

La prigionia e le lettere

E tuttavia la storia dei 55 giorni di prigionia resta un capitolo chiave della storia italiana. Non si può che condividere il giudizio diffuso che finché non avremo chiaro (e non abbiamo ancora affatto chiaro il quadro delle responsabilità personali e politiche, la logica degli eventi ) questo che fu il culmine della tragedia terroristica continuerà a pesare negativamente sulla storia italiana.

Non si tratta di farsi tentare dalla dietrologia; si tratta di verificare, come in molti hanno già messo in evidenza, e ovviamente non posso che rimandare qui alla vasta bibliografia esistente,  le contraddizioni di troppo confessioni, l’omissione di troppe testimonianza, la sottovalutazione di troppe coincidenze. In particolare rimando all’equilibrato, documentatissimo lavoro dedicatogli dal fratello  magistrato.(15)

Per quanto riguarda la biografia di Moro, e quindi la ricostruzione del personaggio, del suo carattere e della sua strategia, l’insieme di quella tragedia, l’intreccio fra le lettere della prigionia e il Memoriale raccolto dai brigatisti, restano certamente documenti che non possono essere rimossi. Chi ha vissuto allora, non può liberarsi delle emozioni e degli interrogativi che l’accompagnarono. In una chiave che resta ancora tutta soggettiva, primo fra tutti il dilemma fra trattativa sì-trattativa no.

Per quel che può valere, la mia personale convinzione, durante i 55 giorni, (e ne ricavo conferma evidente il 9 maggio con la sua morte proprio mentre sembrava che il partito della trattativa potesse prevalere)  ed ancora oggi, è questa: l’obiettivo dei terroristi non era la trattativa, ma la disarticolazione, la divisione del quadro politico italiano, anche attraverso la pressione sulla trattativa; e troppi caddero nella trappola di prendere la proposta della trattativa sul serio.

Su questa vicenda non si può ancora fare storia. Si possono solo riassumere l’emozioni soggettive, la ricerca delle risposte, i tentativi di capire,

In una drammatica lettera a Zaccagnini, pubblicata dal giornale “Vita”, Moro scriveva queste due frasi: “non voglio funerali di Stato”, “ il mio sangue ricadrà su di voi”. Queste indicazioni contengono la convenienza oggettiva dei rapitori di Moro ad ucciderlo, nel senso che ne scaricava la responsabilità su altri e impediva le manifestazioni popolari del cordoglio collettivo.

Poteva Moro averle scritte di sua iniziativa in un impulso di rabbia, senza tenere conto dell’effetto contro sé stesso che produceva? Moro non era né impulsivo né sprovveduto; sapeva l’insostituibilità  del suo ruolo, voleva difendere la sua vita. Almeno queste frasi non potevano essere sue, o comunque non scritte di sua iniziativa.

Fu allora che decidemmo di far uscire il documento che prese il titolo “Amici di Moro ”, con le prime firme di Gabriele De Rosa e di mons. Pellegrino, che era meno di un no alla trattativa, era soprattutto la riaffermazione della responsabilità diretta dei rapitori.

Alla distanza la realtà è andata apparendo ancora più complessa e ha dato luogo a numerose ricerche. La mia impressione, parziale e soggettiva, tutta da verificare, è che i destinatari naturali delle lettere di Moro, almeno per le parti che erano sue, erano i suoi stessi rapitori: Moro forse, scrivendo all’esterno, in una sorta di estrema tattica di difesa, cerca di convincerli che era loro convenienza lasciarlo libero perché avrebbe avuto comunque un effetto destabilizzante sul sistema politico; è questo il suo obiettivo immediato.

E c’è un dato che potrebbe confermare questa tesi: Moro non ha mai scritto, salvo ovviamente che a Zaccagnini segretario, agli uomini che gli erano politicamente più vicini: dal fratello Carlo a Morlino, da Elia a Andreatta, da Salvi a Belci, quasi a non volerli coinvolgere nel suo tentativo; con due sole eccezioni l’0n. Renato Dell’Andro e il suo amico e allievo Tullio Ancora.

La tragica fine di questa figura chiave della storia d’Italia,  ha condizionato tutta la storia posteriore e anche l’immagine da trasmettere alle nuove generazioni. Ma la sua straordinaria ricchezza resta e tocca alle giovani generazioni che vogliano contare e costruire una nuova idea della politica, riscoprirla  con i loro occhi, con la freschezza delle loro domande.


1) “Il Diritto”, Bari, Cacucci Editore, 1978, pag. 17.
2) Aldo Moro , “Al di là della politica e altri  scritti”, 1942-1952”, a cura di G. Campanini,  Studium, Roma 1982: ma per quanto riguarda tutta la sua formazione è essenziale il saggio di Renato Moro “La formazione giovanile di Renato Moro ”, in “Storia contemporanea”, 1983, n.4-5. pp.803sg.
3) Discorso pronunciato ai Gruppi parlamentari D.C. il 28 febbraio 1978, in Aldo Moro , .”Discorsi politici”, Roma ed. Cinque Lune, 1978, pag.190.
4) “Il segno di Aldo Moro”, Appunti nr. 20, 1979, p.10, 11
5) In “Nella società che cambia, discorsi della prima, seconda e terza fase”, a cura di Giovanni Capua, Appunti nr 15-1/1978, p.190
6) Vedi in particolare R. Moro “La formazione”, cit.
7) Cfr. in particolare “Al di là della politica e altri scritti “ Studium 1942-1952, a cura di G. Campanini, Studium, Roma 1982.
8) Per un primo approccio cfr. U. De Siervo,” Il contributo di Moro alla Costituente”, in “Cultura e politica nell’ esperienza di Aldo Moro”, Giuffrè, Milano 1982. Di Siervo tuttavia è ritornato più volte con importanti contributi in occasione di celebrazioni e volumi collettivi in tutti questi anni.
9) “Aldilà”, cit., prefazione di G.B. Scaglia, p. 33.
10) Il discorso commemorativo di L. Sturzo, del 24/9/59 è pubblicato nella raccolta A. Moro “Nella società che cambia, discorsi della prima, seconda e terza fase”, Appunti, nr. 15-17, 1978, editrice EBE, p.9.
11) In “Nella società che cambia”, cit., p.157.
12) Su questi temi cfr. il mio “Cattolici e cattoliche di fronte all’aborto”, in Genesis, rivista della Società italiana delle storiche, numero su “Gli anni Settanta” III 2004.
13) Riportato nell’ottima ricostruzione complessiva di F. La Rocca “L’eredità perduta: Aldo Moro e la crisi italiana”, Rubbettino, Catanzaro 2001, p.113 sg.
14) Riportato, come le citazioni seguenti seguenti, nel recente lavoro di Carla Meneguzzi Rostagni “La politica estera italiana e la distensione: una proposta di lettura”, in Nazione, interdipendenza, integrazione. Le relazioni internazionali dell’Italia (1917-1989), a cura di F. Romero e A. Varsori, Roma, Carocci, 2005, pp.355-371. Vedi anche G. Formigoni “L’Italia nel sistema internazionale degli anno Settanta”, in L’Italia Repubblicana negli anno Settanta, a cura di A. Giovagnoli e S. Pons,  III vol., Rubbettino, Catanzaro 2003.
15) Alfredo Carlo Moro, “Storia di una morte annunciata”, Editori Riuniti, Roma, 1998, con ampia bibliografia.

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