Netanyahu, il vero sconfitto

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Dopo le elezioni di aprile, c’è il rischio che lo stallo politico in Israele prosegua anche dopo le nuove elezioni di martedì scorso. La società israeliana appare anche in questa tornata elettorale come estremamente eterogenea, caratterizzata da segmenti di popolazione che non si incontrano e che vivono ciascuno nella propria “bolla”. Un’eterogeneità che si riverbera perfettamente in un sistema elettorale proporzionale semplice come quello israeliano, che non prevede premi di maggioranza, e che anche a queste ultime elezioni non ha visto nessun partito prevalere nettamente.

Il peso accreciuto dei partiti arabi

Se ad aprile il Likud era ancora il primo partito, oggi tale posizione viene ricoperta da Kahol Lavan. Una triplice alleanza, che ha visto il centrista Yair Lapid scendere in campo insieme a due ex generali dell’esercito israeliano, Benny Gantz, uomo forte della coalizione, e Moshe Ya’alon, già ministro della difesa del governo Netanyahu durante lo «Tzuk Eitan», operazione militare condotta all’interno della Striscia di Gaza nell’estate del 2014 quando Gantz era a capo dell’esercito. E se, da una parte, i processi a carico del premier uscente Netanyahu non hanno particolarmente scalfito la sua popolarità, la quale gli ha permesso ancora una volta di superare i trenta seggi alla Knesset, dall’altra egli è indubbiamente il grande sconfitto di questa tornata elettorale, avendo perso voti e seggi anche dopo avere inglobato all’interno del Likud il partito Kulanu.

Altra differenza rispetto ad aprile è che stavolta i palestinesi con cittadinanza israeliana hanno votato in massa, con un aumento di circa il 10%. E ciò è avvenuto probabilmente in risposta alla violenta campagna elettorale di Netanyahu. Conseguenza di tale voto è la concreta possibilità che la Lista Unita dei partiti arabi – terza forza della Knesset con tredici seggi – indichi durante le consultazioni Gantz come primo ministro.

Per dare l’idea di quanto possa essere storico un tale passaggio, l’ultima volta che qualcosa di simile è accaduto è stato nel 1992, quando Yitzhak Rabin diventò premier con l’appoggio esterno dei partiti arabi. L’unico ostacolo sembra al momento essere l’opposizione di Balad, uno dei quattro partiti della Lista Unita. Parallelamente, va però sottolineato quanto queste elezioni abbiano ulteriormente sancito la netta minoranza all’interno dell’arco parlamentare della sinistra sionista, che, con undici seggi divisi tra due liste, è ormai destinata a un ruolo di secondo piano nella politica israeliana.

La religione, tema cruciale

Vero vincitore di queste elezioni è stato invece Avigdor Lieberman, leader del partito di estrema destra Israel Beitenu. Proprio i contrasti tra Netanyahu e Lieberman erano stati la causa principale dello stallo politico che aveva costretto il Presidente Rivlin a indire nuove elezioni. Liberman, ad aprile, aveva infatti posto il veto a un nuovo accordo con i partiti religiosi, necessario per fornire a Netanyahu i seggi necessari a ottenere la maggioranza in parlamento. Mentre gli altri partiti – Likud su tutti – lo rincorrevano a destra, Lieberman ha cinicamente posto l’accento sulla laicità dello Stato e si è definitivamente smarcato da Netanyahu, da sempre in accordo con i partiti religiosi, i quali hanno sempre impedito ogni riforma volta a laicizzare lo Stato.

Oltre all’introduzione di qualcosa di simile a un matrimonio di rito civile (a oggi, incredibilmente, ancora non riconosciuto in Israele), i punti fondamentali della campagna elettorale di Lieberman sono stati il divorzio, un accesso più facile alla conversione (che in Israele, va ricordato, porta con sé diritti civili), la possibilità di avere trasporto pubblico al sabato, l’introduzione di ore di lezione di matematica e inglese nelle scuole degli ebrei ultraortodossi e la leva obbligatoria per gli stessi ebrei ultraortodossi, a oggi esentati dal servizio militare. Una strategia vincente, grazie alla quale Israel Beitenu ha guadagnato tre seggi, dai 5 di aprile agli 8 di oggi – analizzando i flussi elettorali, in gran parte a scapito di Kulanu, partito laico di centro-destra recentemente entrato nel Likud –, e che l’ha portato a essere il vero e proprio ago della bilancia delle consultazioni per la formazione di un nuovo governo.

La religione è dunque diventata definitivamente un tema cruciale nelle elezioni israeliane anche per parte dell’elettorato laico di destra, fino a ieri disposto a giungere a compromessi con i partiti religiosi pur di non avere partiti di centro-sinistra al governo. Proprio in tale direzione va un sondaggio condotto nell’agosto scorso dallo Smith Polling Institute, che ha visto la maggioranza degli stessi elettori del Likud rispondere negativamente a un nuovo governo con i partiti religiosi. La stessa risposta data da più del 90% dagli elettori di Kahol Lavan e di Israel Beitenu.

Cosa cambia per i palestinesi senza cittadinanza

Oggi sono iniziate le consultazioni, trasmesse online in tempo reale. Lieberman probabilmente chiederà a Rivlin di puntare alla costruzione di una grande coalizione, con all’interno sia il Likud sia Kahol Lavan. Quest’ultimo sembra disposto a accettare tale soluzione, ma senza la presenza della figura di Netanyahu nell’accordo con il Likud.

Se però, da una parte, la posta in gioco per i cittadini israeliani è altissima, dall’altra, qualunque sia l’esito delle consultazioni, è lecito presumere che per i palestinesi senza cittadinanza israeliana non cambierà nulla o quasi, e le uniche differenze, come ha dichiarato il primo ministro Mohammad Shtayyeh, tra la futura amministrazione e quella precedente potranno essere paragonabili a quelle tra una Pepsi e una Coca Cola.

A ciò va aggiunto che i palestinesi non possono partecipare a elezioni politiche da ben quattordici anni. All’orizzonte, dunque, ancora non appaiono segni di un cambiamento reale oltre uno status quo che realisticamente non sembra poter essere scalfito. E mentre la società israeliana e i giornali di tutto il mondo si interrogano su chi sarà il nuovo primo ministro, decine di detenuti palestinesi sono da tredici giorni in sciopero della fame. Vale la pena ricordarli, mentre lo sguardo dei media è rivolto alla Beit HaNasi, luogo delle consultazioni condotte dal presidente Rivlin.

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