Non è un paese per migranti

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salvini stop invasione

Immigrazione come “calamità”

Il governo giallo-verde non è andato in porto, ma l’accordo di programma rimane molto istruttivo per comprendere in che direzione intendono muovere le forze politiche oggi premiate dal voto dei cittadini italiani. Per questo vale la pena di analizzarlo con attenzione. Al punto 13, già il titolo chiariva bene gli intenti dei proponenti: «Immigrazione: rimpatri e stop al business».

Il testo va esaminato, a mio avviso, secondo quattro criteri: il tono complessivo; l’appropriatezza delle analisi; la fattibilità delle proposte; la loro accettabilità dal punto di vista costituzionale ed etico.

Per quanto riguarda il primo aspetto, il titolo spiega molto. Il contratto Lega-M5s vede nell’immigrazione una calamità, una «questione insostenibile per l’Italia, visti i costi da sopportare e il business connesso», nonché una minaccia per la sicurezza. Ripetuti sono i riferimenti a rimpatri, controlli, infiltrazioni criminali, misure di detenzione. I cenni ai diritti umani sono pochi e marginali, ad esempio riferiti ai centri di detenzione. Quelli relativi ai 2,4 milioni di immigrati che lavorano e pagano tasse e contributi mancano del tutto.

Appropriatezza delle analisi

Quanto alla qualità delle analisi, fin dall’attacco il contratto confonde immigrati e rifugiati. Gli immigrati sono più di cinque milioni e non sono per niente un fardello insostenibile per il nostro paese. Le tasse e i contributi che versano superano nettamente i costi che comportano. I rifugiati e richiedenti asilo erano 200 mila circa a fine 2016, ora sono forse intorno ai 300 mila. Comportano costi, ma sono tutelati dalla nostra Costituzione e dalle convenzioni internazionali. Soprattutto, sono molti meno di quelli accolti da vari paesi assai più poveri del nostro.

Anche il riferimento a 500 mila immigrati irregolari da allontanare non tiene conto della loro composizione: nelle ripetute sanatorie attuate da vari governi (sette in 25 anni, più altre implicite o nascoste), si trattava soprattutto di donne impiegate presso famiglie italiane. Oggi sarà aumentata la quota dei richiedenti asilo denegati, ma è altrettanto probabile che la componente femminile non sia scomparsa.

Fattibilità

Veniamo alla fattibilità. Espellere 500 mila persone richiede che prima vengano trattenute: serve non un centro per regione, ma bisogna trasformare una regione grande come la Basilicata in un centro di detenzione. Poi occorre identificarli, scoprire da dove vengono, prendere accordi con il loro governo, organizzare voli di rimpatrio, scortarli. Nessun paese democratico ha mai ottenuto grandi successi in questo campo. Si può prevedere che un futuro governo giallo-verde allungherebbe i tempi di trattenimento, riportandoli a 18 mesi, come del resto promette l’accordo. Potrebbe organizzare qualche volo di rimpatrio a favore di telecamere e si gioverebbe persino delle proteste delle organizzazioni umanitarie: darebbero agli italiani l’impressione che il governo stia facendo sul serio.

Sull’accoglienza dei richiedenti asilo l’accordo semina sospetti e promette maggiori controlli: non tanto sul livello di integrazione raggiunto dalle persone accolte (il concetto nel testo non compare), quanto sui conti.

Il punto più interessante è la previsione del passaggio della gestione dell’accoglienza al sistema pubblico e segnatamente alle regioni. Il problema è che i privati sono stati coinvolti proprio perché la grande maggioranza dei comuni non ha accettato di partecipare al sistema pubblico SPRAR (sono appena 1.200 su 8 mila, per oltre la metà situati nelle regioni del Sud più il Lazio, per un totale di soli 35 mila posti). Trasferire le competenze alle regioni richiederebbe tra l’altro un passaggio normativo, con relativo trasferimento di fondi. Un’inutile complicazione, giacché lo stato, oltre a decidere sull’accoglienza delle istanze di asilo, dovrebbe poi comunque gestire le eventuali espulsioni. Inoltre, prevedendo ancora l’assenso dei comuni, si rischia di non poter aprire i centri che occorrono per accogliere le persone. E non è detto che la gestione pubblica faccia diminuire i costi: di solito succede il contrario, si affidano servizi ai privati per risparmiare.

I diritti negati

C’è poi il profilo dell’accettabilità giuridica ed etica. Segnalo solo alcuni aspetti.

L’accordo programmatico annuncia la presentazione delle domande di asilo nei paesi di transito o addirittura di origine. Qui siamo alla fantapolitica. Dovremmo immaginare uffici in Siria o in Eritrea, evidentemente gestiti o autorizzati dai governi locali, in cui le persone si presentano a chiedere asilo contro gli abusi di quegli stessi governi. Non sorgerà solo un problema di condizioni dignitose di accoglienza, come si è già visto in Libia, ma di cortocircuiti tra sistema internazionale dell’asilo, governi chiamati in causa e persone da proteggere.

Sulle organizzazioni non governative impegnate nei salvataggi in mare, va ricordato che Matteo Salvini aveva promesso di chiuderle tutte, mentre Luigi Di Maio aveva formulato una classica teoria pentastellata del complotto spiegando che le ONG in mare erano in combutta con le mafie che a terra gestiscono l’accoglienza. Di tutto questo nell’accordo è rimasto un contorto passaggio, in cui si richiede una «verifica sulle attuali missioni europee nel Mediterraneo, penalizzanti per il nostro paese». La retorica roboante ha partorito un topolino politico. Qui il problema etico concerne il divario impressionante tra le campagne di discredito, il danno provocato alle organizzazioni umanitarie e le soluzioni proposte al momento di assumere responsabilità di governo.

Per quanto riguarda le minoranze religiose e i luoghi di culto, l’accordo prefigura una sorta di comma 22. Promette la chiusura dei luoghi di culto irregolari (oggi lo sono quasi tutti, perché ottenere le autorizzazioni è quasi impossibile), annuncia una legge-quadro sulle moschee, ma richiede anche il coinvolgimento delle comunità locali. Il che significa che se i comuni negheranno l’assenso, i musulmani o altre minoranze rimarranno prive di luoghi di culto e quindi di libertà religiosa.

Ma forse le misure più inquietanti sono quelle che riguardano i più deboli. Si annuncia una stretta sui ricongiungimenti familiari, visti ancora una volta come fonte di costi e di abusi. Significa negare ai minori la possibilità di vivere con i genitori, alle famiglie di ritrovarsi, agli adulti di uscire dalla solitudine e dallo sbandamento.

Al successivo punto 14 del contratto si accenna invece ad asili-nido gratuiti solo per le famiglie italiane. Su misure del genere, tipo bonus-bebè, la magistratura si è già pronunciata più volte e per la verità fin qui non ha dato molte soddisfazioni ai teorici del «prima gli italiani».

A quanto sembra, però, i diritti umani universali non fanno parte del lessico dei partiti che presto si ricandideranno a governare il nostro paese.

Maurizio Ambrosini è docente di Sociologia delle migrazioni all’Università degli studi di Milano, dove coordina il corso di laurea in Scienze sociali per la globalizzazione. Insegna inoltre nell’università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova, dove dirige la rivista Mondi migranti e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni. Il suo articolo è apparso sul sito di informazione lavoce.info il 29 maggio 2018.

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