E se non fosse questione di profughi…?

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Immaginare che il potere abbia comunque una sua razionalità interna può rivelarsi, talvolta, errore fatale. Certo, esso può avere le sue ragioni e la sua logica – corrispondervi non è semplicemente atto di fantasia o di morbosa bramosia, ma non è ancora quella razionalità come tecnica del potere che dovrebbe essere ciò che continuiamo a chiamare politica. Proprio quando essa sta diventando completamente altra cosa da quello che è stata, partorita dal lungo e oramai concluso processo della modernità europea.

La condizione di crisi permanente in cui il ministro degli interni tedesco Seehofer ha deciso di porre il suo governo fin dagli inizi è la segnatura più evidente di questo lento, ma inesorabile, affievolimento del politico e della sua razionalità. La politica non governa più, ma è oramai ostaggio dei rigurgiti passionali ed emotivi della gente, la maggior parte dei quali è oramai votata alla venerazione individualistica di sé. Anche nel paese di Kant, Fichte e Hegel.

Contrassegnare e separare

Il cinismo, che è uno dei tratti della politica come tecnica e razionalità, senza quest’ultima diventa immaginario fanatico di un’adorazione delle proprie pulsioni più ancestrali, incapace di onorare l’impegno di cittadinanza che i molti hanno contratto tra di loro. Oggi questa matassa di identitarismo instabile e narcisistico si riversa contro i “migranti” di ogni sorta, domani può abbattersi su qualsiasi categoria inventata al momento per poter scaricare l’insostenibile tensione che esso genera in se stesso. Senza alcuna pietà per l’umano in sofferenza, senza nessuna idea per il mondo che lasceremo ai nostri cuccioli.

Non poter accogliere tutti è un cinismo che fa parte della politica come tecnica e razionalità. Non voler accogliere nessuno, oltre a essere impossibile e non conveniente, oltre a essere la fine di uno stato di diritto, è la dichiarazione esplicita della fine di ogni cittadinanza, implicitamente attesa dal cittadino stesso che sacrifica la sua responsabilità pubblica sull’altare del proprio io narcisistico e auto-referenziale. Può farci star bene con noi stessi, forse, certo non ci aiuta a vivere insieme. Ma è proprio questo che sembra non interessarci per nulla.

Il politeismo del sé

L’asservimento della politica al politeismo del sé è l’esito inevitabile del suo assorbimento e consunzione all’interno delle potenze economico-finanziarie cui abbiamo concesso di disegnare non solo il nuovo ordine mondiale, ma anche i tratti maggiori di quella che potremmo chiamare la post-cittadinanza degli uomini e delle donne, delle loro relazioni, dei loro immaginari.

Ci viene concessa l’illusione che tutto quello che ci riguarda sia sacro e intangibile, così che qualsiasi cosa che rimane esterna a questa sacralità dell’io bulimico di sé diventa irrilevante – niente più che merce che può essere spostata da un porto all’altro. Senza accorgerci, che prima o poi, su uno di quei barconi ci finiremo anche noi.

Ma questo sembra andarci bene, nella convinzione che avremo sempre un “altro” a disposizione da iscrivere nella lista di coloro che non sono nulla più che una merce da allocare altrove, così che non disturbino il conventicolo che ci siamo organizzati a nostro esclusivo (e illusorio) vantaggio. Conventicolo dove nessuno sta con nessuno, ma ognuno solo con l’immagine di se stesso e la paura che lo specchio incantato possa andare in frantumi da un momento all’altro.

Resistenza (senza resa)

L’abusivo sfruttamento del destino dell’altro si nutre, però, della tacita disponibilità allo sfruttamento compulsivo di sé. Questo le potenze lo sanno benissimo e ci banchettano sopra. A questa logica, priva di ogni razionalità non mercantile, ci siamo tutti allegramente consegnati. Ma la categoria contro cui abbiamo scommesso per ottenere la massimizzazione di vantaggi che non durano neanche l’arco di una giornata, ossia le generazioni più giovani, coltivano un senso di nausea e sana rivolta davanti a questo ordine che abbiamo deciso per loro. Non tutti, certo, comunque una parte non irrilevante.

Vivono di un’attesa, che è anche una speranza: quella che qualcuno assuma il compito di una regia umanista della storia in cui viviamo, che rivitalizzi e dia senso a legami che incrocino i nostri destini, capace di riattivare una ritualità politica che sia generatrice di forme di convivenze riconosciute e riconoscibili perché umanamente comuni.

E guardano alla “religione” come l’ultima istanza rimasta per mettere mano a questa impresa. La domanda è se da noi la “religione” si sta accorgendo di questo, o se invece non sia invece affaccendata in tutt’altro ritenendolo più importante del desiderio di futuro e socialità coltivato dalla resistenza dei nostri ragazzi contro un sistema che ne dichiara l’irrilevanza.

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