Piddì

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C’è un articolo che viene scritto ogni anno nello stesso tempo e nello stesso modo. Il tempo è quello delle grandi piogge d’autunno con relativi disastri e il modo è quello dell’invocazione di una politica di prevenzione che scongiuri le conseguenze del dissesto idrogeologico non curato.

Qualcosa di analogo sta avvenendo ormai – obbligatoriamente – dopo che ogni scadenza elettorale, anche in primavera, registra una sconfitta del Pd.

Il desiderio sarebbe quello di non scriverne più oppure di compilare un’epigrafe definitiva da ricopiare ad ogni ricorrenza. Ma non si può, perché il il peso degli eventi politici cambia in rapporto alle circostanze e perché, comunque, c’è un dovere, in politica, di non smettere di ricercare.

Ciò vale soprattutto in una situazione come l’attuale che, con i ballottaggi delle elezioni comunali di giugno, ha depennato il Pd dalle regioni rosse, dai luoghi cioè del suo più solido radicamento. Come era giusto ritenere a proposito delle città in cui più solidi erano l’insediamento e la tradizione, cioè il radicamento popolare, di questa forza politica.

Approcci possibili

Due sono gli approcci possibili ad una ricerca non superficiale. Il primo riguarda la sequenza degli eventi e delle responsabilità e riporta alla figura di Matteo Renzi, icona della sconfitta di uno che, avendo vinto una volta, si era comportato come se il trionfo gli fosse sempre dovuto.

Ma questa è un’esplorazione che è stata abbondantemente compiuta anche su queste colonne, con tutti gli arredi di una nomenclatura negativa: la pervicacia, l’arroganza, il rifiuto della critica, l’ostinazione nell’errore e via deprecando.

Non c’era bisogno di aspettare le amministrative di giugno per sapere che un partito lasciato allo sbando dopo la catastrofe delle elezioni politiche del 4 marzo, non avrebbe potuto aspirare ad una rivalsa sotto le torri civiche.

E l’idea dello sbando era più che fondata se si pensa che, dopo quella disfatta, al Pd era stata preclusa – per una volontà interna – ogni pur residua opportunità di interagire col resto delle forze politiche nella ricerca di un assetto governativo necessariamente diverso da quello battuto nelle urne.

Quello che non si poteva immaginare era l’entità del disastro che ha avuto il timbro di qualcosa di più di una rottamazione, perché ha manifestato i tratti di un vero e proprio sradicamento; e, in molti casi, di un vero trapianto, nel senso che i voti perduti dal centrosinistra sono andati diritti, e senza mediazioni, agli antagonisti della stessa destra che sta conducendo il paese su strade tanto impervie quanto inesplorate.

Ed è qui che si sviluppa necessariamente il secondo approccio dell’analisi: come si spiega cioè che, dalle matrici stesse di un orientamento indubitabilmente democratico, ancorato cioè ai capisaldi della democrazia rappresentativa imperniata sul parlamento e sulla capacità di orientamento dei partiti, sia scaturito un impulso che ha portato a far prevalere le idee, i progetti, i metodi di forze organicamente e programmaticamente avverse, o meglio alternative.

Verso un’altra sponda

È il punto da indagare. Non perché non ci siano stati precedenti anche clamorosi in passato. Giustamente s’è fatto riferimento al giorno di fine Novecento quando a Bologna, la città più rossa d’Italia, salì al potere un sindaco di nome Guazzaloca in uno sventolio di bandiere di Forza Italia.

Stavolta però non si è trattato di una… libera uscita di quel genere, un episodio isolato e rimarginato. S’è capito che il guasto è più serio e profondo. Perché, nel frattempo, la proposta della destra s’è strutturata in modo tale da presentarsi come completa di tutte le qualifiche del caso.

Stavolta, infatti, la destra non è solo protesta o nostalgia o secessione territoriale; stavolta la destra è sovranismo, ostilità al mondo, intolleranza verso i diversi, diffidenza verso le procedure, disintermediazione istituzionale; è tutto questo, ed è qualcosa di più. È vincente.

Ed è a questa destra che si atteggia come se già fosse fuori dall’Europa e che, per bocca del suo capo, mostra “tenerezza” per i conati d’autonomia del suo alleato “grillino”, che è andato il consenso, se non la fiducia, di tanti che fino a ieri avevano idolatrato Berlinguer o circondato di rispetto e di ammirazione De Gasperi.

Quel che è avvenuto nelle consultazioni di giugno, a conferma della svolta di marzo, non è stato insomma un travaso di voti tra entità distinte nei progetti ma omogenee nel sentire democratico; è stato un guado verso un’altra sponda, quella della sicurezza garantita, dei confini blindati, delle tasse tarate al più basso livello, dello stato che ti protegge mettendoti in mano un’arma e che, soprattutto, ti dispensa dall’esercizio di una qualche virtù civica.

La querelle se il guado ora descritto sia avvenuto per una superiore attrazione di quella sponda o per un’assimilazione progressiva avvenuta nel tempo, è interessante ma non conduce lontano. Ne riassume il nucleo essenziale una frase di Massimo Gramellini: «Perché un povero dovrebbe vergognarsi di andare a destra, se la sinistra ha smesso di andare da lui?».

È chiaro che, evocando i poveri, che come è noto sono cresciuti assai, si evoca la crisi di questo inizio di secolo e, con essa, la responsabilità di averla gestita in un modo che, per dirla con Ezio Mauro, «riconfigurava il sociale, trasformando le disuguaglianze in esclusioni». In tal modo, «la sinistra usciva fisicamente dal sociale, perdendo sia i disuguali che gli esclusi… col risultato di trovarsi tagliata fuori dal paese reale, persino dalle zone rosse, come un ramo secco».

Chiamarsi “Partito Democratico”

Il dibattito sul Partito Democratico si svilupperà su molte direttrici, a partire da quelle che riguardano l’assetto interno, non ultima cagione del suo dissesto. Ma, per chi osserva le cose da un punto di vista più attento alla dimensione umana della politica, la preferenza va data alle questioni che riguardano le risposte ai bisogni, alle aspettative e soprattutto alle necessità delle persone e dei gruppi sociali nel contesto di una modernità non sempre attentamente esplorata.

Sono le questioni della pace, che non possono essere lasciate ai rapporti di forza di una diplomazia malata; sono le questioni del lavoro di cui si stanno appena sfiorando le conseguenze dei mutamenti dettati dalle tecnologie e dalle convenienze capitalistiche; e sono i problemi di una democrazia che vorrebbe essere partecipata ma che sempre di più tende a rifugiarsi nella concentrazione in poche mani del potere politico.

Con un paradosso sullo sfondo. Alcuni si innestano nel dibattito per invitare a «ripartire da zero» (come fa Galli della Loggia che, pure da storico, dovrebbe sapere che nelle vicende umane ciò non può mai accadere).

Altri si sbracciano nell’indicare l’esigenza di un «andare oltre il Pd» (Prodi), che esprime un desiderio ma non riesce a precisarlo. Altri, infine, si avventurano sulla prospettiva di una «Alleanza repubblicana», (Calenda), che echeggia il Macron vittorioso dello scorso anno.

Dove sta il paradosso? Sta nel fatto che, se ci si ferma soltanto alle parole, il Pd possiede già nella sua attuale definizione un bagaglio sufficiente. In una situazione in cui la capacità di produzione politica dei partiti è visibilmente rarefatta e in cui c’è un bisogno primordiale di rigenerare la democrazia, chiamarsi “Partito Democratico” sarebbe già una risorsa. Sarebbe…

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