Politica e corruzione: polemiche senza sbocco

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Dice Camillo Davigo, gloria di Mani Pulite e ora presidente dell’Associazione nazionale magistrati, che oggi, in politica, si ruba di più e ci si vergogna di meno che in passato.

Dice un sondaggio tempestivamente organizzato che quasi nove italiani su dieci concordano con Davigo.

A sua volta, il responsabile dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone, sostiene che in politica sono tanti quelli che sono in attesa di… ricevere un’offerta.

Nella rincorsa delle opinioni (ma spesso hanno il tono delle sentenze) si distinguono le voci del presidente del consiglio (il governo farà la sua parte, i magistrati si sbrighino a giudicare), del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Giovanni Legnini (le ragioni sono divise, meglio smorzare i toni) e, infine, quella del presidente Mattarella, per il quale la corruzione «è più grave se coinvolge i rappresentanti dei cittadini» e sollecita in ogni caso l’impegno concorde di tutti i poteri dello stato.

Sapore d’antico

I toni e gli aggettivi rivelano che ogni affermazione offre il retrogusto di polemiche antiche sulle prerogative dei “togati” e su quelle dei politici, con risvolti che vanno dall’eccessiva durata dei processi, su cui attecchisce l’amnistia silenziosa della prescrizione, alla querelle sul taglio delle ferie dei magistrati. Con l’inevitabile estensione del confronto sul tema del ruolo di coloro che amministrano la giustizia, se debbano concentrarsi sulla scoperta dei singoli responsabili dei reati oppure applicarsi al compito di una bonifica del paese anche sul piano etico. Il tutto a sostegno della contrapposizione storica tra giustizialisti e garantisti che, puntualmente, si riproduce ogni volta che scoppia un caso o che qualcuno dei protagonisti non riesce a… contenersi. Dai tempi di Cossiga in qua, la traccia pare sempre la stessa.

E qui verrebbe da chiedersi su quali prove (o almeno indizi) si basi l’affermazione rivelata dal citato sondaggio per cui, a parere di una schiacciante maggioranza (82%), c’è più corruzione oggi di quanta ve ne fosse vent’anni or sono, o, che so, ai tempi di Giolitti o di Cicerone. Dove si compie lo scambio tra situazione percepita e situazione reale, senza neppure attivare la via di fuga dell’ironia che imboccavano, nella Roma plebea dei tempi di Napoleone, le “statue parlanti”, Marforio e Pasquino: l’una che ripeteva l’opinione del francesi (gli italiani sono tutti ladri) e l’altra che impunemente rispondeva: Tutti no, ma… Bonaparte.

Introdurre la distinzione tra percezione e realtà non sarebbe un modo per ridimensionare il problema (che potrebbe anzi risultare ancora più grave) ma almeno consentirebbe di muoversi su un terreno meno incerto. La distinzione, infatti, consentirebbe di depurare il fenomeno dall’incrocio delle accuse che le parti politiche si scambiano e che determina un saldo che moltiplica gli effetti negativi e… allunga le ombre. E permetterebbe di selezionare gli interventi in modo il più possibile aderente alle esigenze che l’analisi rivela una volta depurata dalle semplificazioni strumentali.

Una lezione da riprendere

Ciò che conta non è un generico appello a combattere la corruzione ma l’individuazione dei modi più appropriati per prevenirla e reprimerla. E se, su quest’ultima direzione, si tratta di approntare nel modo più razionale ed efficace gli strumenti che il sistema offre, a partire dalle indagini di polizia e a finire nella celebrazione (ovviamente tempestiva) dei processi, sul campo della prevenzione c’è molto da scavare e forse, più che da inventare, da mettere o rimettere in funzione.

C’è, in particolare, da rileggere lo svolgimento dei fatti politici da tangentopoli in poi per misurare quel che s’è fatto per impedire il riprodursi del fenomeno e quel che s’è lasciato accadere per ottenere il risultato opposto.

Che una grande lezione sia stata archiviata, può essere dimostrato da pochi esempi.

Sul piano legislativo, non c’è ancora una legge efficace sul conflitto d’interessi.

Sul piano educativo, non s’è diffusa tra le nuove generazioni una coscienza del bene comune che consenta di individuare nella corruzione una violazione dei doveri di solidarietà su cui l’intera società si regge.

E, sul piano dell’amministrazione, dove pure sono stati introdotti codici e regole di moralizzazione e di trasparenza, non s’è ancora affermato quel rapporto stringente per cui, se i comportamenti del funzionario contrastano con quel che ha dichiarato, all’atto della assunzione, a proposito della sua situazione particolare, il rapporto si interrompe.

Qui non c’è da inventare, ma solo da copiare quel che si fa altrove. Ad esempio, il “questionario” che debbono compilare i candidati a entrare nello staff del presidente degli Stati Uniti.

Un libro non più recente di Rodolfo Brancoli (Il ministero dell’onestà, Garzanti 1993) notava che da noi si presume l’integrità del pubblico ufficiale e si aspetta di sorprenderlo in fallo, mentre altrove, negli Stati Uniti ad esempio, si ha ben presente che l’indole umana è disposta a… lasciarsi tentare e se ne tiene conto nel modo in cui si stabilisce, in ambito pubblico, una relazione basata sul criterio della responsabilità.

Bene comune, solidarietà, responsabilità: chi sostiene che siano concetti astratti rifiuta di misurarsi con le conseguenze concrete che derivano dalla loro valenza pratica. Così, in sostanza, ne nega la sostanza impegnativa.

Viceversa, una rilettura degli avvenimenti politico-giudiziari dell’ultimo ventennio alla luce di tali principi – soprattutto la responsabilità – potrebbe aiutare ad uscire dal vicolo delle polemiche senza sbocco.

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