Tutto è politica, ma la politica non è tutto

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staglianòIn questo scorcio di campagna elettorale non è senza significato il rimando ad una lettera pastorale di mons. Antonio Staglianò, vescovo di Noto (Sicilia). Un testo corposo che mostra l’interesse e la modalità di intervento della Chiesa in ordine all’impegno della carità politica. Oltre agli elementi fondativi delle prime tre parti, vi sono due sottolineature da cogliere. Da un lato, la riproposta dei “valori non negoziabili” che vengono così specificati: la difesa degli ultimi; il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo; il superamento della logica del profitto; la crescita della libertà umana; l’umanizzazione del vivere sociale; la “spoliticizzazione” di alcune strutture sociali da tanto tempo succubi di logiche clientelari. Dall’altro lato, l’insistenza sulla questione meridionale.

L’impegno del cristiano cattolico per il servizio al bene comune

Orientamenti per la coscienza dei cristiani nella diocesi di Noto, in occasione del voto politico nazionale del 4 marzo 2018

«Facendo il vescovo, vado maturando la convinzione che il problema più grande che si impone alla Chiesa italiana è la cura della qualità della fede dei suoi membri. Le eventuali sbavature e i limiti che talvolta si registrano per quanto riguarda la presenza della Chiesa nella vita della nazione, derivano da carenze e storture nell’esperienza di fede a causa, anche, di una mancata recezione degli impulsi del Vaticano II» (Cataldo Naro)

«Di fronte ai problemi, sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è politica» (Don Milani ai ragazzi della Scuola di Barbiana)

 Lo spazio della politica nell’esperienza della fede cristiana

1. Dio è “per” l’uomo. Pienamente inseriti nella società umana, profondamente solidali con i suoi drammi e le sue aspirazioni, i cristiani sono chiamati a vivere il giubilo di una certezza credente irrefragabile: nell’Incarnazione del Figlio, nella sua passione-morte e risurrezione, il Padre è vicino a ogni uomo, anzi, nel Padre di questo Figlio, Dio è “per” l’uomo. Poiché, secondo Gesù di Nazareth, «Dio è amore», gli uomini potranno amarsi, riconciliandosi tra loro, entrando in una connessione che oltrepassa grandiosamente le possibilità tecnologiche (internet, social network), perché unifica «tutti nel tutto» di una storia “nuova”: là dove Dio c’è, è presente, esiste vivendo, e resta sempre ancora – nonostante il soffrire umano – provvidenza nell’Amore. Il Dio di Gesù è un Dio-per-gli uomini.

2. La pro-esistenza nell’amore di Gesù. L’esistenza di Gesù di Nazareth è “per gli altri”, assolutamente, “per tutti”. È pro-esistenza d’amore per ogni uomo, per tutti gli uomini, per tutto l’umano. L’uomo che si autocomprende come un viandante – le cui durature radici sono ben salde nel cielo della sua vera patria –, saprà/potrà accoglierlo con la fede, decidendo in libertà di lasciarsi illuminare dalla sua sapienza infinita, senza alcuna evasione, senza alcuna paura. Nell’esperienza della fede, infatti, si apprezzano i tratti paterni del volto di Dio, la graziosa delicatezza della sua incessante premura all’esistenza umana, aprendosi/esponendosi al suo giudizio: è il giudizio della distruzione del male e dell’esaltazione del bene; è giudizio di risurrezione che solo il Padre del Crocifisso può elargire agli uomini per liberarli dalla morte definitiva e dal loro continuo quotidiano morire.

3. La salvezza cristiana non è intimista. Il cristianesimo cattolico crede che il Crocifisso rigenera l’uomo dal profondo, realizzando una sua purificazione da ogni interiore ambiguità, dal peccato. Lo orienta così al suo destino eterno nel suo Regno. Questa salvezza non riguarda solo l’interiorità umana, ma tutto l’umano. Esige pertanto di impiantarsi sulla terra, nella società. Chiede di instaurarsi – per dirla con un linguaggio più tecnico – nell’ordine temporale. L’agire della Chiesa cattolica potrà/dovrà, pertanto, essere verificato anche a questo livello, quanto alla sua capacità di liberare l’uomo dalle schiavitù vecchie e nuove, attraverso la predicazione del Vangelo. Fatte salve le doverose distinzioni, e nel più profondo rispetto dell’autonomia della sfera della civitas, è sempre più necessario superare certe ambigue separazioni tra “la fede privata” e “l’etica pubblica”, invocando la legittimità di guardare al sociale, per illuminarlo con la luce del Vangelo, senza per questo scadere in ingerenze indebite entro ambiti che sarebbero di non pertinenza della fede e della Chiesa: a cominciare proprio dal luogo più delicato, ma anche maggiormente compromesso, quello della politica.

4. Nella krisis della politica: evangelizzare la politica. La politica ha, infatti, il compito di guidare e orientare il vivere sociale. Essa rappresenta un servizio importantissimo per la soluzione di tanti problemi che travagliano l’esistenza di ogni giorno, facendosi carico della loro inevitabile complessità in tempi di radicata crisi. Eppure la politica, che dovrebbe aiutare al superamento della crisi, è essa stessa oggi “in crisi”, “dentro la crisi”, “condotta dalla crisi”. L’urgenza di un’evangelizzazione della politica, affinché essa possa riscoprire il proprio prezioso ruolo e riappropriarsi delle modalità concrete e oneste del suo esercizio, è oltremodo visibile nelle grandi questioni internazionali della pace, e nelle notizie circa le sofferenze di tanti popoli oppressi, ma più localmente nelle contraddizioni tipiche dei territori umani dell’Italia e dell’Europa: le attese di fondo della gente vengono quasi sempre deluse e mai soddisfatte, mentre cresce il disorientamento dei giovani e il loro sentimento di sfiducia, che li rende fragili prede delle suggestioni devianti della droga e della mafia e, in generale, della corruzione.

5. Risveglio della partecipazione alla vita pubblica. Sfuggendo la banale tendenza a demonizzare la politica e le istituzioni che la esprimono, l’appello rivolto alla coscienza di tutti, specie dei giovani, è quello di un necessario risveglio di partecipazione alla vita pubblica e di corresponsabilità civica, auspicando la nascita di forti esperienze di aggregazione quali luoghi di formazione, di incontro, di elaborazione e di proposta. Papa Francesco ha invitato giovani e meno giovani «a prepararsi adeguatamente e impegnarsi personalmente in questo campo, assumendo fin dall’inizio la prospettiva del bene comune e respingendo ogni anche minima forma di corruzione» (Incontro con la cittadinanza a Cesena, il 1° ottobre 2017). La fede cristiana non è separabile dal dovere civico, perciò essa dovrà diventare anche esperienza educativa in questa stessa direzione. Qui s’innestano i ripetuti tentativi per la realizzazione di una vera e propria Scuola di formazione socio-politica: si trattava di acculturare i cristiani disponibili a un impegno nel politico, con i princìpi cardini della dottrina sociale della Chiesa. Il cristiano cattolico deve contare sulla possibilità di un percorso educativo, perché – educato all’agire politico dalla Dottrina sociale della Chiesa cattolica – possa esprimere il suo umile servizio (anche a nome della comunità cristiana), nel luogo umano della politica, guardando a figure e modelli significativi di rettitudine, di pazienza, di oggettiva percezione del “bene di tutti”, il bene comune, baluardo intranscendibile per una buona politica, oltre la tentazione dell’equilibrismo tattico, del compromesso tra i gruppi, nella lottizzazione del potere. Per papa Francesco: «la corruzione è il tarlo della vocazione politica. La corruzione non lascia crescere la civiltà. E il buon politico ha anche la propria croce quando vuole essere buono […] finisce sempre per essere un “martire” al servizio, perché lascia le proprie idee ma non le abbandona, le mette in discussione con tutti per andare verso il bene comune». Qui non si può non pensare a La Pira (che nacque a Pozzallo), ma anche al prete siciliano, il beato don Pino Puglisi (palermitano dell’altro ieri), la cui coerenza cristiana portò al “martirio”.

6. La politica come carità sociale. In quest’avventura di ridefinizione della politica come carità – Giorgio La Pira parlava della dimensione eucaristica del servizio della politica –, la fede cristiana si connota socialmente: è carità sociale, quale disposizione a servire l’uomo in piena onestà e coerenza, senza favoritismi, ma nel rispetto dei diritti di ognuno e di tutti. Ai cristiani laici è richiesto di “soffrire” per una testimonianza autentica nello spazio prezioso della politica, organizzando e donando volto alla “coscienza critica” che la fede implica. In quell’incontro a Cesena, papa Francesco ha parlato della necessità di una buona politica: «una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo; che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione; che non lasci ai margini alcune categorie, che non saccheggi e inquini le risorse naturali […] una politica che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza». Questo è il «volto autentico della politica», la sua ragion d’essere dice il papa, essendo un «servizio inestimabile al bene dell’intera collettività. E questo è il motivo per cui la dottrina sociale della Chiesa la considera una nobile forma di carità».

7. Identità cristiana e apertura al dialogo. Le questioni aperte sono diverse e tutte delicate. Considerata la condizione pluralistica della nostra società, nella quale convivono moltissime visioni del mondo e della realtà: si pensi oggi ai grandi temi delle immigrazioni, o le criticità di leggi legate all’inizio e alla fine della vita, la procreazione assistita o il testamento biologico. Il problema di fondo è, anzitutto, quello di pensare la possibilità di un dialogo leale e non strumentale, con tutti, senza abdicare alla propria identità. “Affermazione dell’identità cristiana” e “apertura nel dialogo” sembrano a prima vista dimensioni non componibili. Nella dialettica dell’esistente, tuttavia, il cristiano può dare buona prova di sé, di quella capacità – tipica della fede cristiana – di far “coincidere gli opposti”. Occorre, però, entrare nel travaglio della vita, assumendone senza evasione i drammi e le sofferenze, sempre fiduciosi, ancorati all’esperienza di risurrezione di Colui che ha vinto ogni morte aprendo il mare chiuso della disperazione per tutti e, così, a tutti donando speranza.

Politica

Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Buon governo (dettaglio)

Per costruire la polis, a misura d’uomo

8. L’impegno della comunità e del prete. Certamente il cristiano impegnato in politica non può vivere il suo percorso isolatamente e individualisticamente, dovrà essere supportato da tutta la comunità. Nella Chiesa, nessuna figura può definirsi da sé soltanto, o a parte. Ogni ruolo si comprende in un sistema d’inter-relazionalità, costitutivo del popolo di Dio, quale corpo ben compaginato. In questo anche il prete nella parrocchia ha il suo compito: l’identità del presbitero, infatti, appare decisiva per la nascita di una nuova laicità nella formazione di tutti i credenti. Non si tratta di politicizzare i preti, ma di farli diventare con consapevolezza “animatori dei laici nei cantieri di una città per tutti”, affinché la presenza dei cristiani in politica sia anche profetica, annunzi cioè il venire di Dio negli stessi fallimenti umani.

9. Per ringiovanire la politica. Oltre ogni privatizzazione del fatto religioso che pretenderebbe relegare Dio nel cantuccio intimistico della propria coscienza interiore, i cattolici lotteranno nello sforzo di incarnare una “politica per la libertà”. Senza evadere dal misterium crucis sapranno irradiare nel sociale la salvezza cristiana, testimoniando non solo la loro capacità di convertire i cuori dalla cupidigia, dall’intolleranza, ma anche dal clientelismo, dal malaffare, costruendo un nuovo stile dialogico e progettualmente costruttivo, nella valorizzazione di tutte le energie positive disponibili, per la creazione di una città “a misura d’uomo”. Se si tratta proprio della costruzione della città a misura dell’uomo, allora si capisce meglio l’urgenza del servizio d’illuminazione e di testimonianza che la fede deve offrire, per un ringiovanimento della politica e per una sua feconda animazione.

10. L’uomo “secondo la fede” misura la politica. L’antropologia cristiana, infatti, getta luce su dimensioni dell’umano, difficilmente percettibili all’occhio nudo della ragione, specie se disorientata da certo laicismo. La fede ha dell’uomo una visione che non riduce l’umano alle condizioni materiali della sua esistenza storica, riconoscendovi un’apertura al trascendente, qualificata a sua volta dall’autocomunicazione stessa del Trascendente assoluto, “Dio come Padre e Amore/agape”. Una declinazione della rivelazione di Dio in Cristo, nella definizione dell’uomo, comporta che la politica misuri la città su un tipo di umano, la cui valorialità è colta dal credente come frutto della creazione di Dio ed è considerata nella sua autenticità e pienezza in Cristo, il quale è la verità dell’uomo. Il rapporto tra fede e politica non implica, perciò, soltanto una riflessione circa la determinazione di un modus vivendi tra due sfere separate, di cui occorra trovare una convergenza in alcuni punti. C’è in gioco molto di più: si tratta di una dialettica circa le concezioni dell’uomo, della profondità del suo bene-essere e delle finalità del suo agire. Poiché la politica ha sempre un’ispirazione che crea le regole e orienta le scelte, il dibattito culturale – al quale i credenti non possono sottrarsi, né permettere che chiunque vi sfugga – riguarderà alcuni requisiti di natura etica e spirituale, costitutivi della vita pubblica e fondanti il bene comune di tutti.

11. Guidata dai valori, la politica guida l’economia e non viceversa. Irrecusabile è, allora, la convinzione che la politica debba essere guidata da alcuni valori essenziali e che non è riduttivamente riconducibile alla sola amministrazione: deve continuamente cercare un orientamento culturale per poter meglio gestire il suo doveroso rapporto con l’economia, da cui non si deve lasciare incastrare, in tempi di globalizzazione e di accentuata complessità. La politica deve guidare l’economia e non viceversa (come spesso accade oggi). È, d’altra parte, proprio lo snaturamento di questa relazione a divaricare sempre più l’efficienza dalla solidarietà, i valori dal consenso, le aree forti dalle aree deboli del paese, con un consistente danno per quella fiducia sociale che, in una convivenza civile, è la forza della buona amministrazione politica. Da queste divaricazioni, poi, derivano purtroppo forme e comportamenti politici evidentemente inutili e dannosi, per la promozione di ogni persona e di ogni cittadino: si pensi alle frontiere dischiuse dalla scienza e dalla tecnologia in ambito etico, o anche alle decisioni in materia di politica familiare, senza considerare le mancanze di rispetto per la vita umana in ogni dove, magari perpetrate come “conquiste civili della libertà”. L’attuale congiuntura politica mostra non poco disorientamento, con il rischio radicale di restare un recipiente invecchiato, senza contenuto. La crisi, allora, richiede al cristiano un supplemento d’impegno e di autocomprensione, di crescita e di maturazione per un servizio illuminato di formazione ed educazione, dove l’uomo si sviluppa o si perde inesorabilmente. Su questo la Chiesa è chiamata a praticare con generosità la «carità intellettuale» (A. Rosmini).

Lorenzetti, ALlegoria del buon governo (dettaglio)

Riscoprire una vera laicità nel dialogo tra fede e politica

12. La Chiesa è dialogo, si fa dialogo. L’allora arcivescovo di Crotone-S. Severina, S.E. Mons. Agostino, nella sua lettera pastorale per la quaresima, dell’anno 1989, su “Fede e politica: quale dialogo” – alla cui stesura ho avuto la gioia e la responsabilità di partecipare, insieme ad altri – chiedeva autorevolmente di riscoprire la vera laicità della politica. In un tempo di grandi stravolgimenti politici internazionali e di ricerca di nuovi assetti tra Ovest ed Est, – anche per alcune difficilissime situazioni locali di particolare stallo e di mortificazione della vita sociale –, quel vescovo, pastore illuminato, sentiva il dovere di ribadire profeticamente la natura dialogica propria della Chiesa e della fede, ricordando sin dall’incipit le parole di Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam: «La Chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa colloquio».

13. Risanare l’agire politico. È ovvio, il dialogo tra la fede e la realtà socio-politica va perseguito e attuato non come gioco al compromesso, ma come cura particolare per individuare gli spazi della comunione possibile. Cosa però impossibile senza uno “scavo alle radici”, per una rivisitazione di alcuni presupposti culturali che appaiono indispensabili al risanamento dell’agire politico, e dello stesso vissuto credente. L’indagine si fa puntuale perché individua strutture comportamentali precise: la mancanza di educazione all’ascolto e l’imperante presenza “litigiosa” di una cultura del nemico, del sospetto, della diffidenza, dell’avversario politico. Entro queste premesse, il dialogo è impraticabile e totalmente illusorio. Occorre, d’altra parte, purificarsi da una duplice tentazione: quella del dominio sulla società, attraverso l’esercizio del potere per i propri interessi, e quella del lasciarsi strumentalizzare e asservire, perdendo la propria libertà interiore. È di sicuro difficile collocarsi nell’ottica del servizio e della gratuità, in tempi nei quali certo prassismo pressapochistico monopolizza atteggiamenti e pensieri.

14. Laicità non è laicismo. Più di ogni cosa, tuttavia, è urgente scaricarsi da un pregiudizio inibente ogni dialogo tra fede e politica, e, purtroppo, molto diffuso da certo laicismo poco criticamente avvertito: l’idea che la laicità si possa definire come qualcosa di separato dalla fede. Sicché, per essere “laico”, bisognerebbe non avere riferimenti credenti o mettere la propria fede tra parentesi. Da qui l’idea che alcuni spazi della vita – come quello della politica – sarebbero “laici”, e per ciò stesso non praticabili dai “credenti”, men che meno dai loro pastori, dai vescovi. Di conseguenza, è diffusa anche un’altra bizzarra idea: che su problemi di laicità è necessario intervenire da “laici”, cioè da gente che usa la propria testa (= ragione) senza presunte ingerenze dogmatiche.

15. La politica non è un mestiere. La confusione linguistica è evidente. È necessaria una bonifica del linguaggio per resistere al degrado di una progressiva deculturalizzazione, che ha evidentemente depauperato non poco l’agone politico: il rischio è visibile a tutti ed è quello di ridurre la politica a mestiere eseguibile da tutti (ballerine, pornostar, escort), a prescindere da competenze precise e, spesso, senza quel minimo di acculturazione, sempre necessaria per diventare interpreti delle esigenze della gente ed essere capaci di progettualità, oltre che di dialogo.

16. Non chiudere la Chiesa nella sagrestia. In nome di un’equivoca e imprecisa concezione della laicità non si può pretendere di chiudere la Chiesa e i suoi rappresentanti ufficiali nella sagrestia, o nel tempio, o anche nell’impegno esclusivo della vicinanza agli emarginati, ai più miseri, ai poveri. La sua presenza di “carità”, tuttavia, non può essere mal interpretata come un vago altruismo, incapace di organizzare una pressione culturale e politica, per cambiare dal di dentro certe strutture inique o non soddisfacenti, incidendo così nelle vicende sociali e politiche. Ben diverso è, invece, il “Vangelo della carità”, secondo le illuminanti indicazioni del Convegno ecclesiale di Palermo (1995), quale modalità propria dello «stare del cristiano dentro la storia». Il Vangelo si declina in tutti gli ambiti della vita, in particolare nella cultura, nel sociale, nella politica, com’è sottolineato dalle Settimane sociali dei cattolici, ma anche dal Convegno ecclesiale di Verona (2006), dove Benedetto XVI sottolineò il dovere della Chiesa di indicare ai laici il rischio di leggi che contraddicono valori e principi «radicati nella natura dell’essere umano», riferendosi in modo preciso al «rischio di scelte politiche e legislative» legittimanti forme di amore ritenute deboli e deviate, «unioni diverse dalla famiglia fondata sul matrimonio», leggi che non tutelano la vita dal concepimento alla morte. D’altronde, il cristianesimo genera un nuovo umanesimo, com’è stato ribadito al Convegno ecclesiale di Firenze (2015) che, nell’ultima delle “cinque vie” (uscire, annunciare, abitare, educare e trasfigurare) chiede al cristiano di «trasfigurare tutta la realtà che lo circonda», anche la politica, dunque. Se la carità è quella del Vangelo, è quella di Gesù di Nazareth, il Vangelo vivente di Dio, allora il farsi prossimo al fratello va ben oltre una generica emozione umanitaria: si distingue radicalmente da una più o meno profonda filantropia. La carità diventa la forma della vita del cristiano, perché ha assunto essa pure una forma dalla vita del Figlio di Dio incarnato, morto e risorto, la forma eucaristica del farsi per tutti «pane spezzato e sangue sparso» per amore.

17. Illuminare cristianamente la politica è ispirarla eticamente. Proprio perché la fede opera per mezzo della carità, è chiamata a stare dentro ogni spazio umano della politica per illuminarla cristianamente, ispirarla eticamente: la mission è che la politica si viva come politica “genuina”, cioè una politica corrispondente alla propria definizione, alla propria essenza. Sulla scia di Giovanni Paolo II – che nella Christifideles laici del dicembre 1988 ha definito al n. 42 la politica come la «molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune» – si può notare il carattere, diremmo trascendentale, della politica, con uno slogan quanto mai efficace: “tutto è politica, ma la politica non è tutto”, evitando che si dia una interpretazione soltanto partitica di essa. L’esperienza partitica è solo “una espressione” della politica, perciò l’orizzonte della politica è molto più ampio: ogni lavoro sociale e culturale, infatti, aiuta a costruire comunitariamente la polis, anche quello che la comunità cristiana, quale comunità di fede, deve svolgere e di fatto realizza.

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Incontrarsi sui valori, sapendo e potendo riconoscere “i valori non negoziabili”

18. Le esigenze della fede nel bene comune. Poiché lo scopo della politica è la realizzazione del bene comune, tutti devono concorrere a raggiungerlo, cominciando a declinarlo: qui la fede mostra esigenze esplicite, perché vengano riconosciute come bene comune alcune sue concretizzazioni importanti, quali:
* la difesa degli ultimi;
* il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo;
* il superamento della logica del profitto;
* la crescita della libertà umana;
* l’umanizzazione del vivere sociale;
* la “spoliticizzazione” di alcune strutture sociali, purtroppo da tanto tempo succubi di logiche clientelari.
L’urgenza di rifondare i partiti è, allora, solo una tappa di un disegno organico più ampio, volto a eticizzare complessivamente la politica. La fede può e deve intervenire: i credenti sono cittadini e, da cittadini, a nome proprio, devono direttamente impegnarsi in politica. Come cittadini sono credenti e, dunque, non disdegnano di accogliere, in libertà e ragionevolezza, l’illuminazione che dalla fede proviene per la loro coscienza.

19. Dogmi e verità liberano creatività e intelligenza. Questo riferimento veritativo e dogmatico nulla toglie alla propria creativa intelligenza, poiché la fede permette l’incontro con la Verità di Dio, la quale non sacralizza le realtà terrestri, ma le autentica, restituendole alla loro verità, le purifica da ogni ambiguità, le riorienta al loro originario senso, quello stesso che il Dio, «traendole dal nulla», ha messo dentro di loro, secondo il suo eterno piano creativo. La Verità di Dio – che illumina la coscienza del credente attraverso la fede –, è Cristo stesso, il «vero uomo», il modello a cui specchiarsi per riconoscere la vera umanità e poterla realizzare nella sua più profonda dignità.

20. Laicità e autonomia delle realtà terrestri. Da qui, si deve riconoscere la rilevanza politica della laicità cristiana, che si distingue e, anche, si separa da ogni forma degenerante di laicismo. Si tratta di una laicità che scaturisce dalla fede, e, dalla fede, è sostenuta. È laicità (sine glossa), tutta immersa a vivere le realtà del mondo con intensità, senza evasioni di sorta, ma in tutta responsabilità, nella vita normale di ogni giorno, quando si studia, si lavora, si stabiliscono relazioni professionali, sociali, culturali o si progettano politicamente le tendenze necessarie del futuro della convivenza civile. Il nodo vero da sciogliere – per un’adeguata opera di chiarimento, d’altra parte basilare per un dialogo vero tra fede e politica – è l’intendersi sul concetto di autonomia delle realtà terrestri. La lezione del Concilio, in Gaudium et spes n. 36, resta impareggiabile: la giusta autonomia del mondo (seculum) non legittima per nulla lo scardinamento delle scelte politico-sociali-economiche dal loro doveroso riferimento etico e, per tanti versi, dal loro rilevante riferimento religioso, quando la religione si pone come una necessaria interpretazione veritativa del momento etico.

21. La questione etica della politica, i valori comuni (non negoziabili?). Con non poca retorica nominalistica, viene sbandierata da qualche tempo e da tutte le parti «la questione etica della politica». Nel 1989 essa aveva assunto anche nella politica di governo la dignità di «priorità programmatica». Le difficoltà erano, e sono ancora oggi, non risolte. L’appello generalizzato ai valori comuni, quale piattaforma di interesse pubblico su cui convenire, e da cui ripartire, per un dialogo effettivo tra tutte le parti, si scontra infatti con la presenza di un contesto culturale frantumato, «liquido e gassoso» (Z. Bauman). Le variazioni ideologiche pluralistiche sembrano impedire – fino allo scoraggiamento – una percezione del valore che sia oggettiva e, dunque, universalmente valida. “Incontrarsi sui valori” può avere oggi il sapore amaro di uno slogan dialogico illusorio quando non si voglia o non si possa convergere sull’identificazione di un fondamento del valore (chiamalo pure “principio irrinunciabile”), per un suo oggettivo riconoscimento. Nel cattolicesimo odierno c’è tanto disorientamento: dopo la stagione dei valori non negoziabili da identificare come paradigma per discernere, giudicare e agire, si è passati alla stagione della loro inesistenza. L’espressione “valori non negoziabili”, può essere brutta (imposta dalla congiuntura culturale nietzschiana secondo cui «tutti i valori sono negoziabili e interscambiabili»), ma dice la verità oggettiva del valore riconoscibile e la possibilità conoscitiva della persona umana di identificare il valore in quanto valore e perciò di poterlo/volerlo condividere universalmente in quanto valore. Per restare sull’attualità, con un solo esempio: si può “negoziare” il valore (non negoziabile) dell’accoglienza degli immigrati e dei loro inalienabili diritti, in quanto esseri umani, di vivere una vita degna di un essere umano? La dignità umana delle persone non è un principio irrinunciabile che fonda il valore non negoziabile della loro doverosa accoglienza? Una cosa è «governare politicamente un fenomeno complesso», un’altra è “negoziare” (spesso anche solo economicisticamente) sulla vita degli altri. E in nome di quale potere?

22. Crisi della ragione e capacità dell’uomo di sapere la verità. Dietro a questo c’è il grande tema della crisi della ragione, da riprendere nel dibattito ecclesiale, a vent’anni dell’enciclica Fides et ratio, per rifondare la cultura del terzo millennio, a fronte di alcuni stili teorici dominanti nel pensiero. Un’ipertrofica autocomprensione moderna di sé ha portato la ragione allo svilimento di tutte le sue forze, e a una sua stabilizzazione scetticizzante e debolistica, che non può ovviamente soddisfare il pensiero della persona, capax veritatis, capace di verità. Se la ragione non riesce più a sapere la verità o se la verità, per la ragione, non esiste perché le è irraggiungibile, come potrà avere un minimo di senso umano l’annuncio cristiano che Gesù di Nazareth è la Verità? Il debolismo veritativo della ragione sembra allora togliere le premesse linguistiche al kerigma del credente, il quale invece sa che, nell’evento della crocifissione-morte e risurrezione del Figlio di Dio, la verità di Dio e la verità dell’uomo si sono offerte al riconoscimento umano. Questo riconoscimento è certo “credente”, avviene nella fede e per mezzo della grazia di Dio. Non di meno poggia inesorabilmente su tutte le energie dell’uomo, anche sulla ragione che, dell’uomo, è uno dei grandi segni di distinzione rispetto all’universo cosmico.

23. La Verità assoluta esiste e, per il cristiano, è Gesù Cristo. Così, la fede può e deve far affidamento sulla «forza della ragione» per una mediazione razionale possibile delle sue verità centrali. Proprio per questa mediazione razionale, esse mostreranno, da una parte, la loro misteriosa eccedenza e, dall’altra, la loro sapienza per l’uomo, perché sapienza portata da «un uomo vero», saputo dalla fede quale il Figlio stesso di Dio nella carne umana. Gesù è la Verità in persona o, meglio, la persona della Verità. Questa Verità-in-persona, in quanto è il Figlio di Dio, è Verità assoluta. Lo è assolutamente, veramente: non perché è sciolta da ogni legame – come indurrebbe a pensare l’etimo di absolutus, contraddicendo la notizia biblica della verità che è sempre personale e relazione (Dio è Trinità, Gesù è una persona) –, ma perché, certo, è sciolta da tutti quei legami che gli impedirebbero di essere ciò che è dall’eterno, Amore sempre e solo Amore, Amore assoluto. L’assolutezza di questa Verità splende nel Crocifisso: qui, dove la morte che gli uomini danno a Dio, non impedisce a Dio di continuare ad amare nel perdono, mostrando così la sua «gloria» (Kavod), l’essere eternamente amore, solo amore, sempre amore.

Politica

Attenzione alle nuove povertà

24. La fede non è un’opinione, ma è un sapere. In questa direzione appare impossibile – benché invece il laicismo la persegua con certa pervicacia – la riduzione della verità della fede a opinione. La fede è, invece, un sapere vero e pieno, integrale. Mentre accoglie la rivelazione di Dio, essa è, infatti, riferita all’uomo, a tutto l’uomo, nella totalità dei suoi fattori e delle sue manifestazioni vitali. La fede nel Crocifisso di Dio illumina, allora, la croce di una politica incapace di rinascere dal vuoto di fondamento valoriale in cui si trova seppellita da tempo.

25. Un cristianesimo rivoluzionario, piuttosto che un cattolicesimo convenzionale. Il cristianesimo dovrebbe, così, mostrare la sua forza sociale, la sua carica rivoluzionaria, proprio permettendo alla politica di risuscitare da quella morte che la rende sempre più cadaverica, ridotta alla sola cura dell’amministrazione del denaro pubblico o all’esercizio di procedure, continuamente sempre cangianti, perché dipendenti dalle congiunture del momento. Un nuovo respiro, una nuova speranza, una nuova apertura di orizzonti dovranno rianimare la politica. I tempi lo richiedono, la società globalizzata lo esige e la fede non può non farsene carico: le negligenze e le insufficienze a tutti i livelli della convivenza civile e religiosa non possono diventare un pretesto per il disimpegno. Il cattolicesimo convenzionale – nella misura in cui non riesce a stringere fortemente la ritualità cattolica dei sacramenti con l’operosità della carità in tutti i campi – non è all’altezza del cristianesimo rivoluzionario di Gesù, di cui oggi c’è bisogno. Anzi, vivendo una frattura tra verità e storia, tra fede e cultura, il cattolicesimo convenzionale diventa progressivamente sempre meno cristiano. Nei grandi cantieri aperti al futuro, il nuovo secolo richiede cristiani impegnati con il Vangelo della carità, operosi e costruttivi sui terreni dell’intelligenza e della libertà. Cristiani cattolici (e non cattolici convenzionali) capaci di entrare nelle contraddizioni del mondo col desiderio di cambiare tutto, di innovare l’esistente, con una particolare attenzione ai drammi della vita umana, quando è impoverita dalla mancanza di lavoro, o disorientata per l’assenza di un nucleo familiare stabile, o manipolata dalle potenti tecnologie o incontrollatamente privata dal suo habitat naturale. Perciò lo slogan – “dall’eucarestia celebrata in chiesa all’eucarestia vissuta per le strade del mondo”, tra le periferie esistenziali (papa Francesco) delle grandi metropoli –, ha un significato politico preciso.

26. Oltre ogni integralismo. Una nuova presenza cristiana nella società non potrà che arricchirla, ma deve essere possibile una laicità cristiana profondamente dialogica, «non neutrale, ma nemmeno aggressiva». Anche qui il Crocifisso è un modello insuperabile: contemplando la croce, infatti, si viene a sapere che la fede non strumentalizza mai nulla, ma dona tutto; non boicotta l’umano, ma lo serve integralmente, autenticandolo e portandolo a pienezza. Così la fede cristiana risulta efficacemente antiideologica, perché non coglie un elemento del tutto per assolutizzarlo, mentre invece si immerge umilmente nel tutto per farlo lievitare e fermentare. Ogni integralismo va espunto come innaturale per la fede cristiana. Chiarezza, mitezza, fiducia, prudenza, saranno le caratteristiche – già indicate da Paolo VI nella Ecclesiam suam –, di questa nuova laicità dialogica che serve la verità e non cerca il consenso e – per dirla con una simpatica e provocante espressione di don Mazzolari – «fa strada ai poveri senza farsi strada».

27. L’attenzione privilegiata ai poveri. L’attenzione privilegiata ai poveri è un’opzione preferenziale della evangelizzazione della Chiesa. Qui l’insistenza di papa Francesco su «una Chiesa povera per i poveri» deve avere anche la forza di “un comandamento per la politica”, che si rigenera e diventa servizio. Da questo versante, l’Evangelii gaudium è una mappa sicura per il cristiano che vuole impegnarsi in politica: come un paradigma di riferimento, una grande istanza su cui la politica deve costruire il proprio servizio per il bene comune e la fiducia sociale. Senza, con questo, voler ridurre la povertà ad assenza di denaro e di condizioni materiali, adeguate per il sostentamento. Povero è, infatti, «colui che manca di un bene essenziale alla vita»: esistono pertanto poveri di cultura, di sapere, di amicizia, di affetto, i quali troppo spesso cercano risposte impossibili ed equivoche nell’idolatria del sesso, del successo, del potere. Esiste, in particolare, una povertà diffusa, non solo economica ma anche d’interiorità e di autostima, per la sempre crescente disoccupazione giovanile o per lo stillicidio dei posti di lavoro già esistenti. È questa una croce umana difficilmente sopportabile, che accomuna purtroppo tanta gente al Sud. È una croce alla quale s’inchioda – forse con troppa superficialità – diversi padri e madri di famiglia, rendendo precario il futuro e innestando paure dolorose.

28. Questa economia uccide. «Questa economia uccide» (papa Francesco). Il Sud, e in particolare la Calabria e la Sicilia, è vittima dei continui colpi di una logica economica in cui l’uomo resta schiacciato dal mercato che fa prevalere il profitto sulla persona. Pensando alle famiglie e, soprattutto ai figli dei colpiti, il cristiano impegnato in politica – penso a un La Pira – esprime non retoricamente, con la propria prossimità, la vicinanza di Dio alla sofferenza di chi giustamente chiede lavoro e, così, vivere dignitosamente. Senza pertanto volersi sostituire all’azione sindacale – anzi rispettandone il ruolo e richiedendone un impegno indefesso –, sarà necessario riaffermare il principio importante secondo il quale l’economia e le scelte aziendali vanno illuminate dalla solidarietà e non solo dal profitto, essendo eticamente fondate sui diritti della persona, in quanto la persona umana è «diritto sussistente» (A. Rosmini).

29. Osare il lavoro. La discussione intorno ai problemi sociali e del lavoro va dunque rilanciata, oltre la visibile stanchezza che su questi temi sembra serpeggiare in ambito ecclesiale. È questo un interesse vitale per l’evangelizzazione della Chiesa, perché negli affetti e nel lavoro si sintetizza la vita stessa dell’uomo. Una fede rassegnata, o distante, rispetto al lavoro non sarebbe la fede dell’Incarnazione, ma dell’alienazione. “Osare il lavoro” diventa allora un modo con cui la comunità cristiana riannuncia oggi la Buona novella del Regno di Dio, che viene a liberare la povera gente dalle sue croci, ridando senso all’avventura della vita.

Politica

Il lavoro che manca e la “questione meridionale”

30. Il Sud d’Italia come laboratorio di speranza. Giovanni Paolo II, nella sua visita in Calabria nell’ottobre 1984, in uno dei suoi 17 discorsi aveva ben identificato il problema calabrese chiarendo che la questione sociale in questa regione si chiama “questione meridionale», precisando: «si tratta di una questione che investe complessivamente tutti gli aspetti della vita di un popolo: c’è l’aspetto economico relativo al diverso grado di sviluppo tra Nord e Sud d’Italia, c’è l’aspetto sociale riguardante le differenti condizioni di vita delle popolazioni meridionali, c’è l’aspetto morale legato a talune forme di comportamento e a talune manifestazioni di criminalità, vi sono tante preoccupazioni sociali, la prima delle quali è la disoccupazione e in particolare quella giovanile e intellettuale che richiedono urgentemente di essere sanate». In tempi di transizione, si esige un pensiero che aiuti a non lasciarsi travolgere dalle emergenze, ma anche tale da prospettare percorsi possibili di speranza. E ci sono, poi, luoghi in cui i problemi sono drammatici e, proprio per questo, possono spingere maggiormente a cercare delle vie d’uscita. Nel nostro tempo, il nostro Sud, il Sud d’Italia – se la lettura diventa capace di cogliere i suoi valori – potrebbe diventare un laboratorio di speranza concreta, capace di misurarsi con le sfide più difficili e le esigenze più alte.

31. La disoccupazione giovanile e il suo risvolto umano ed ecclesiale. La repentina trasformazione della nostra società segnala cambiamenti sensibili a tanti livelli, ma si orienta al benessere come sua nota fondamentale. Per questo la disoccupazione giovanile diventa la più drammatica delle emergenze: ritenere che sia soltanto una mancanza di lavoro che impedisce l’accesso al denaro, è del tutto fuorviante e superficiale, perché non tiene in dovuto conto il suo risvolto antropologico di insicurezza e di inquietudine nella stessa percezione di sé, oltre l’aspetto psicodinamico della frustrazione costante con la quale si è purtroppo costretti a convivere, fino talvolta all’ebetismo in casi non rari e, comunque, in una condizione di adolescenza interminabile. In questo degradante contesto, il lavoro cambia non solo nelle sue modalità concrete, ma anche nella sua definizione essenziale: è colto più come mestiere per vivere, per conseguire il successo e far carriera e sempre meno come spazio per autenticare l’esistenza, per vivere le relazioni con gli altri, ambito in cui scoprire e imparare a trovare un significato, una vocazione, un valore in sé. Il problema della disoccupazione filtra e investe una serie di problematiche sociali e politiche, e anche ecclesiali. Come tutti i pastori della Chiesa cattolica possono annotare, sempre molte più persone vanno dal vescovo per bisogni poco direttamente inerenti al suo ruolo ecclesiale, pastorale e di direzione spirituale. Chiedono, invece, il posto di lavoro, il superamento di un concorso, l’assegnazione di una casa, un trasferimento, la recezione in un ospedale e “altre strane richieste”, dentro la logica ancora persistente della raccomandazione (anche se ora è più denominata “segnalazione”).

32. Comprensione equivoca del ministero del vescovo. Il disagio sociale porta a “una comprensione equivoca” del servizio apostolico del vescovo, mentre la sua missione della Chiesa non è di potere, d’influsso, ma di profezia: la degenerazione del vivere sociale e politico, d’altronde, tocca non solo l’impegno attivo delle comunità, ma anche culturalmente il modo di sentire una presenza. Allora, l’urgenza di ricostruire il tessuto sociale e politico apparirà anche un modo per riscattare la visione della Chiesa da ogni banalizzante approccio, potendo chiarire che, se il pane è un problema importante, resta pur vero che «non di solo pane vivrà l’uomo». Il peregrinare doloroso e speranzoso alla casa del vescovo segnala il bisogno di un approdo d’anima, di una confidenza possibile, di un’attenzione di ascolto preclusa dappertutto. Più globalmente, rimanda ad un’emarginazione avvilente, la quale dovrebbe essere insopportabile all’occhio politico, mentre appare all’occhio credente come una squalificante «struttura di peccato».

33. Elevare un grido di verità. Nel deserto arido di tante ipocrite e inconsistenti promesse, mai mantenute, non solo il vescovo, ma tutta la comunità cristiana è tenuta a elevare un grido di verità, per contrastare il malcostume clientelare, che lede alla fine i diritti di tutti, per orientare a vivere l’onestà civica, chiedendo la condivisione dei problemi dell’oggi, compiendo gesti concreti di servizio all’uomo, facendo la scelta degli ultimi, denunziando profeticamente ogni ingiustizia, animando con serietà il proprio territorio, dialogando costruttivamente con quanti operano in tanti modi nel sociale e costruendo speranza e pace dentro ogni situazione, anche nelle situazioni-limite.

34. Eucaristia sociale. La presenza eucaristica – fonte e culmine dell’agire della Chiesa – è presenza del dono del Crocifisso per perpetuare nella vita il gesto di Gesù che si fa pane spezzato e sangue sparso per amore. È condivisione del pane comune, è cum-panis, compagnia alla vita di tutti, specie dei più poveri e sofferenti. È un portare il Vangelo di Gesù nella storia degli uomini per aver condotto, anzitutto, la storia degli uomini nel Vangelo che è Gesù. È un saper con-soffrire e con-morire, condividendo le inquietanti domande di ognuno, al di là di ogni evasione inconcludente, permettendo alla forza scandalosa della croce di Cristo di entrare con la sua carica liberante nelle croci e nelle passioni delle vicende umane. Avere la forza di affrontare i sacrifici necessari con un nuovo gusto di vivere, dipenderà dalla riscoperta di alcuni valori propri del bene comune, quali la tolleranza, la solidarietà, la giustizia sociale, la corresponsabilità. Soprattutto comporterà un’inedita capacità d’identificazione degli emarginati e di lettura delle situazioni dell’emarginazione, prendendo atto concretamente dei drammi che si consumano tra le persone e portandone il peso, “caricandosele addosso”, sopportandole.

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Farsi voce di chi non ha voce, attraverso il meridione d’Italia, per tutti i Sud del mondo

35. La questione sociale “è” questione morale. Una lettura credente della crisi generale, cioè una lettura non epidermica o solo socio-politica, può spiegare come il fallimento dell’umano è dovuto direttamente dal suo progressivo scardinamento da Dio, dall’estromissione del Vangelo della croce dall’orizzonte di senso dell’uomo di oggi, idolatricamente attratto e abbagliato da nuovi miti. Sicché, allora, la questione sociale è questione morale, e diventa questione della verità integrale da riannunciare all’umanità: perché, infatti, non c’è moralità senza verità, fondamento ultimo e anima di ogni giustizia. Il “farsi voce di chi non ha voce” è, pertanto, impegno che non può essere ristretto entro i confini di un territorio particolare, proprio per l’inter-relazionalità che caratterizza l’odierna società dell’interdipendenza. È necessità che si dilata a raggi concentrici e, dal proprio cuore, attraverso le comunità cristiane del Meridione d’Italia, si estenda per raggiungere i Sud del mondo: in un abbraccio universale che tiene uniti e stretti tutti i nuovi poveri della terra, uomini e donne, piccoli, giovani e vecchi, manipolati e violentati dai grandi apparati del potere economico, più o meno occulto, dominato dall’efficienza e dalla smaniosa urgenza di autorigenerazione, in una assurda e drastica noncuranza dell’uomo-persona.

36. Testimonianza cristiana e trasformazione sociale. Per tutti questi nuovi bastonati dalla storia – samaritani che sono costretti a vivere nel rovescio dell’esistenza –, la profezia della Chiesa non smette di proclamare la verità della croce di Cristo. Con l’Evangelii gaudium si deve insistere sul fatto che il servizio ai poveri è parte integrante dell’evangelizzazione. L’urgenza di legare indissolubilmente la testimonianza cristiana con la trasformazione sociale, per meglio visibilizzare l’esperienza liberante della sequela di Gesù, non è più procrastinabile. L’Episcopato italiano nel 1989 con Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, denunciava lo sviluppo incompiuto, distorto, dipendente e frammentato del Meridione d’Italia, e chiedeva a tutti un impegno organico per la costruzione effettiva dell’unità del paese, anche economica, costituita su una maggiore giustizia sociale e su una vera condivisione solidale, per rifondare l’identità del popolo su basi, appunto, «più solide». Prospettive rilanciate dal nuovo documento del 2010, Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno. I cristiani impegnati in politica – specie quelli che giustamente lamentano di essere stati abbandonati dalla Chiesa cattolica – dovrebbero interrogarsi se conoscono bene la dottrina sociale della Chiesa e i documenti dei vescovi italiani sul Mezzogiorno. La retorica denigrante della “montagna dei documenti” suggerisce la disaffezione alla lettura di queste piste che, invece, potrebbero motivare cristianamente l’impegno politico per il bene comune e di servirlo come l’autentica politica ha fatto, fa e farà: un servizio fattivo alla società civile, quale contributo al superamento della crisi economica, sociale e politica, in uno stile di riconciliazione e di disponibilità, contro ogni atteggiamento di estraneità e di contrapposizione.

37. Il Mezzogiorno è questione comune di tutti i vescovi italiani. Il problema del Mezzogiorno riguarda tutto il Paese. Perciò, tutti i vescovi italiani, e non solo quelli del Sud, hanno la mission evangelica di generare una presa di coscienza collettiva dei problemi che gravano su una parte significativa del territorio nazionale. L’evoluzione economica nel periodo post-unitario ha, infatti, prodotto un effettivo squilibrio tra Nord e Sud, un divario riconoscibile dagli indicatori socio-economici disponibili ogni anno. La questione tocca inesorabilmente la vita stessa della Chiesa, poiché il modello di sviluppo imposto al Sud pare non abbia proprio fatto perno sui valori tipici del popolo meridionale, non riuscendo, così, a interpretare la sua identità culturale e la sua vocazione per il futuro del Paese, con effetti disgreganti per il tessuto economico-sociale e culturale contestuale. L’evangelizzazione del Regno di Dio, quando è realizzata in modo incarnato, tiene conto del fatto che il Mezzogiorno è stato più “oggetto“ che “soggetto” del proprio sviluppo. Uno sviluppo dipendente non è autosviluppo, impedisce l’autopropulsione nella crescita e perpetua le forme clientelari con le quali i gruppi di potere locali istituiscono il consenso della base. La piaga del fenomeno mafioso, particolarmente aperta in alcune zone, va situata proprio in questo contesto.

38. Formare le coscienze alla solidarietà. La Chiesa ha il compito di umanizzare la stessa idea di sviluppo: poiché si tratta sempre di sviluppo umano, esso non può essere concepito unilateralmente ed esclusivamente come sviluppo economico. Solo così – nel quadro di una concezione integrale dello sviluppo – si può apprezzare la “parola di concretezza” che la Chiesa proclama per la soluzione del problema, quando ribadisce il suo compito primario della formazione della coscienza, attraverso l’annuncio della verità evangelica. In definitiva, la vera urgenza sta nel riorientamento etico della società italiana in funzione di una scelta di sviluppo coerente e solidale. Il Paese deve crescere insieme – simpatico che anche la “ex Lega Nord” lo debba riconoscere. Perciò deve recuperare la solidarietà, quale categoria strutturante dell’agire politico. È quella della solidarietà, infatti, la risposta ineluttabile alla nuova situazione mondiale che le trasformazioni in corso hanno ormai creato e che, con espressione divulgata, è definibile come «villaggio globale».

39. Mondializzazione e immigrazione. La mondializzazione diventa sempre più caratteristica propria anche dei problemi più spiccioli. L’interdipendenza s’impone come un dato di fatto. Da qui l’urgenza dell’impianto di una nuova coscienza e la crescita di una nuova cultura, nella quale i valori della condivisione, della gratuità, della reciprocità e della comunione abbiano priorità assoluta. Anche l’economia nazionale va strappata alla logica utilitaristica del profitto e immersa in un rinnovato supporto etico nel quale il lavoro prevalga sul primato della proprietà e l’individualismo sparisca di fronte alla solidarietà come neve al sole. Il fenomeno dell’immigrazione, che sta assumendo proporzioni enormi, impone un cambiamento e un’apertura non solo di cuore, ma d’intelligenza e di coscienza, oltre che di strategia politica solidale.

40. Per una nuova cultura della gratuità. Qui, d’altra parte, s’innesta il grande contributo della fede per una nuova cultura della gratuità, esatta dal Vangelo di Gesù. In riferimento alla storia concreta di Gesù, – propriamente all’evento del Crocifisso nel quale appare fin dove si spinge l’amore che dona la vita per il bene dell’altro –, la solidarietà non rischia più di essere confusa con un sentimento vago e indiscriminato di compassione, una tenerezza romantica verso il dolore dell’emarginato, e diventa, invece, forza operativa di cambiamento e progettualità storica, spazio effettivo di testimonianza dell’amore di Dio che ha sempre solidarizzato con gli uomini, non disdegnando di morire in croce per loro. Anche la Chiesa è impegnata a rinnovare la propria testimonianza di solidarietà affinché, libera da ogni potere, sia profezia per il mondo, autentico segno di contraddizione rispetto a qualsiasi dinamica socio-politica deviante nei confronti dell’autentico bene comune, sul presupposto che il bene comune si coniuga localmente in considerazione della storia di una porzione di popolo e in riferimento alle sue sofferenze strutturali e ai suoi bisogni specifici.

41. Solidarietà, nuovo nome della pace. La pace non è solo assenza di guerra, e tuttavia la situazione di non-guerra è anche pace e, funzionalmente, spazio aperto a ogni possibile e imprevedibile ricerca di fecondi strumenti per una pacificazione più universale. Qui la pace – per rendere ragione della concretezza del vissuto umano – sfugge il sofisma del binomio che la vede troppo rigidamente e unilateralmente dipendente dalla maggiore o minore presenza o assenza di armi, per dichiarare il suo strutturale, originario e fondativo rapporto con lo sviluppo integrale dell’uomo in tutti i paesi del mondo, nella promozione dei suoi diritti fondamentali. Ora si ha veramente difficoltà a intravedere una relazione tra creazione di armi e sviluppo, mentre inversamente appare palese e incontrovertibile il rapporto tra corsa agli armamenti e sottosviluppo, specie per l’eccessivo investimento di risorse economiche, divenuto intollerabile di fronte alla sconcertante miseria e povertà dei più. Come sostenne la Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II, lo sviluppo nella solidarietà è il nome nuovo della pace: sviluppo non solo economico, ma culturale e religioso che porti l’uomo, attraverso il godimento di tutti i beni della terra, a riconoscere praticamente la sua dignità di figlio di Dio, fatto a sua immagine e somiglianza per la comunione e l’amore, depositario di un contenuto di trascendenza che lo proietta oltre se stesso, divenendo il vero fondamento ultimo dei suoi gesti di carità e di giustizia, di onestà e di verità, di pace.

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