Polonia, altro segnale preoccupante

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Il Senato di Varsavia, dominato dal partito conservatore Diritto e giustizia (PiS) del leader Jaroslaw Kaczynski, nonostante le proteste dell’opposizione, ha approvato il 1° febbraio la controversa legge che prevede una pena fino a tre anni di carcere per chiunque, polacco o straniero, accusi la Polonia di complicità con i crimini nazisti o si riferisca ai campi di sterminio nazisti definendoli polacchi. La legge, che ha scatenato una disputa diplomatica con Israele, era già stata approvata dalla Camera il 26 gennaio e attende ora soltanto la firma del presidente Andrzej Duda. L’operazione che tocca la memoria storica, affermando una sorta di «verità di Stato» e mettendo a rischio la libertà di parola e di ricerca, è un ulteriore segnale preoccupante – dopo le leggi sul controllo della magistratura – che viene da un Paese nel quale il futuro della vita democratica pare sempre più minacciato. Una deriva già coraggiosamente denunciata su Settimana News dall’ex segretario generale della Conferenza episcopale polacca, mons. Tadeusz Pieronek, in un articolo pubblicato il 16 gennaio che qui riproponiamo.

Cracovia, 10 gennaio 2018.

È difficile vivere in un paese che è sopravvissuto alla Seconda guerra mondiale quando i polacchi venivano trattati dall’occupante tedesco come una specie subumana di cui bisognava sbarazzarsi con tutti i mezzi in quanto incapace di tenere il passo alla razza dei superuomini che i tedeschi si credevano essere. Il tipico razzismo nazista si rivolgeva non solo contro gli ebrei che consideravano all’epoca la Polonia come la propria patria, ma anche contro i cittadini degli stati occupati.

È difficile vivere in un paese che per 45 anni è stato prigioniero del sistemascorso comunista, che si contraddistingueva per la mancanza delle libertà fondamentali e il continuo indottrinamento ideologico mirante a distruggere l’identità nazionale e religiosa dei polacchi.

È difficile vivere in un paese che, per merito della sua grande forza interiore, si è opposto all’invasione comunista internazionale e ha condotto alla sua sconfitta generando un movimento sociale di massa detto Solidarność e accendendo così in tutto il mondo la fiaccola della libertà.

Oggi, invece, questo paese cammina verso la dittatura di fatto. Dopo diversi anni dall’ingresso nell’Unione Europea, che ha creato in Polonia ottime condizioni di sviluppo, il nuovo governo polacco, formatosi a seguito delle elezioni democratiche, che dispone sì di una maggioranza parlamentare ma non tale da procedere alla revisione costituzionale, ha deciso comunque di violare la Costituzione e di modificare la forma di governo che vige attualmente in Polonia.

Il primo atto di violazione della Costituzione tuttora in vigore è stato il rifiuto della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della sentenza della Corte Costituzionale del 9 marzo 2016, secondo la quale la modifica della legge su questa Corte presentata dalla maggioranza parlamentare non era conforme alla Costituzione. La premier, pur essendo obbligata a pubblicare la sentenza, non l’ha fatto ritenendola solo l’opinione di un «gruppo di amici» (sic!) e non una vera sentenza.

Ed è stato un primo passo che ha permesso alla maggioranza parlamentare di approvare altre leggi incoerenti con la Costituzione, non solo quelle che riguardavano l’ordinamento giudiziario, ma anche molti altri aspetti del sistema politico.

Polonia: leggi sulla magistratura

Una purga dei giudici scomodi

La procedura legislativa avviata dal Parlamento e dal presidente polacco è in pratica sfociata in una specie di interdizione della Corte Costituzionale tramite la sostituzione arbitraria e incostituzionale dei suoi giudici e la sua definitiva sottomissione al potere esecutivo.

In seguito, il Parlamento ha approvato altre tre leggi riguardanti la magistratura: sulla Corte Suprema, sul Consiglio Nazionale della Magistratura e sui tribunali ordinari. Il presidente ha promulgato solo quest’ultima ed ha invece posto il veto sulle altre due, malgrado tutte e tre contenessero delle disposizioni chiaramente contrarie alla Costituzione.

Ancora prima delle feste di Natale si sperava che il presidente della Repubblica Polacca, essendo il custode della Costituzione, prendesse le sue difese e ponesse di nuovo un veto alle leggi emendate in quanto sempre incostituzionali. Molti polacchi nutrivano la speranza di poter trascorrere così in modo relativamente tranquillo il Natale e il Capodanno.

Questa speranza non è stata esaudita e, per di più, è stata scelta la soluzione peggiore: non il veto ma la promulgazione motivata dall’esistenza di leggi simili in alcuni altri paesi. Tale decisione ha infranto un’altra volta la Costituzione, cioè la legge suprema che vincola tutti i cittadini, ma dovrebbe vincolare soprattutto coloro che governano e stabiliscono le leggi.

Per questo motivo dovremo ora vivere in un mondo diverso, in quanto le nuove leggi che sono state approvate, innanzitutto quelle sulla giustizia, hanno privato i giudici dell’indipendenza e della libertà di pronunciare le sentenze in conformità alla Costituzione. Lo stato democratico di diritto, qual era prima la Repubblica Polacca, deve rispettare il fondamento del sistema politico, cioè la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.

Per adempiere ai requisiti di un regime politico democratico, è necessaria una magistratura indipendente e autonoma, e magistrati che possono pronunciare le sentenze definitive e irreversibili, non sottoposte a ulteriori controlli. Laddove invece la magistratura, quindi il potere giudiziario, è sottomessa al potere esecutivo, non si può più parlare di democrazia e dello stato di diritto, bensì di uno stato antidemocratico e poliziesco. E quando questo stato è gestito da un solo leader capo di un partito politico che ha la maggioranza parlamentare non in grado di fare una riforma della Costituzione, in questo caso si può parlare di una dittatura di fatto. Tale stato non può restare d(i)ritto, è come la base di un tavolo che, privo di una gamba, non si regge più in piedi e cade.

L’attuazione del disegno del “buon cambiamento”, invocato dall’attuale maggioranza, che consisteva nel togliere ai tribunali l’indipendenza e l’autonomia, dimostra con chiarezza che il principale obiettivo del nuovo sistema non era altro che una purga ai vertici statali e nei ranghi del ceto impiegatizio di tutti i livelli al fine di sottomettere all’attuale équipe governativa tutti coloro che avevano un minimo potere decisionale durante il governo precedente.

Guai ai vinti

Non è stato difficile realizzare tali cambiamenti in quanto i candidati che ambivano a nuovi incarichi erano numerosi. Tuttavia non si è riusciti a sostituire tutti con persone competenti, come dimostrano numerose dimissioni che si sono susseguite nell’ultimo periodo nell’ambito delle alte cariche della polizia e in altri ambiti, dove i compiti estremamente complessi e le funzioni importanti venivano affidati a persone incompetenti e impreparate.

Il sistema giudiziario distrutto in questa maniera non soddisferà le aspettative dei legislatori: le procedure giudiziarie non saranno accelerate, i ritardi non saranno eliminati, perché le nuove leggi non contengono neanche una disposizione che permetterebbe di velocizzare i tempi dei processi. Al contrario, un facile accesso alla cosiddetta revisione straordinaria davanti alla Corte Suprema allungherà all’infinito la durata dei processi.

La Polonia, essendo membro dell’Unione Europea, deve rispettare sia i trattati europei che la propria Costituzione. Da quando, a seguito delle vittoriose elezioni politiche nel 2015, nelle quali la destra unita, cioè il partito Diritto e Giustizia (in polacco Prawo i Sprawiedliwość, abbreviato in PiS), ha raggiunto la maggioranza parlamentare, sono cominciate ad accadere cose strane.

I vincitori ritengono di aver ricevuto un mandato del popolo sovrano e ora possono fare tutto ciò che pare e piace loro e, siccome vogliono realizzare “un buon cambiamento”, si adoperano con tutte le forze per cambiare il sistema politico e la forma di governo.

Il colpo sferrato alla Corte Costituzionale ha fatto centro, in quanto i suoi giudici, non essendo di fatto indipendenti né autonomi, in pratica garantiscono al governo l’impunità.

Il precedente ministro degli Esteri, per dimostrare ai cittadini che tutti i cambiamenti si realizzavano in conformità alla legge, aveva perfino invitato in Polonia la Commissione di Venezia – organo consultivo del Consiglio d’Europa –, perché essa affermasse la legalità degli interventi del governo nei confronti della Corte Costituzionale.

La Commissione non ha condiviso l’entusiasmo degli iniziatori della riforma e, dopo ardue indagini e difficili colloqui con i rappresentanti del governo polacco e di altre istituzioni pubbliche, ha emanato due ampi pareri in cui sono state messe in rilievo le cause delle soluzioni difettose e il mancato adempimento dei doveri costituzionali da parte del presidente e del primo ministro polacchi nel percorso verso la riforma della magistratura.

Vorrei segnalare due frammenti del parere della Commissione di Venezia sugli errori e sulle inadempienze fondamentali che fanno sì che la riforma in questione non risponda agli standard dello stato di diritto.

Il primo riguarda la comprensione dei diritti della maggioranza parlamentare nei confronti della minoranza. Chi ritiene che il mandato di chi ha la maggioranza autorizzi quest’ultima a intraprendere azioni contro coloro che hanno perso le elezioni, viola i principi fondamentali della democrazia.

Il secondo frammento attira l’attenzione sul fatto che il “peccato originale” del “buon cambiamento” polacco, cioè la mancata pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale del 9 marzo 2016, blocca qualsiasi soluzione costituzionale dei problemi polacchi; tale “blocco” può essere superato con la pubblicazione della sentenza.

Recentemente, la controversia tra il governo polacco e la Commissione di Venezia riguardante la riforma della magistratura e lo stato di diritto democratico in Polonia si è spostata alla Commissione Europea la quale ha iniziato la procedura di controllo ai sensi dell’art. 7 dei Trattati affermando che vi è in Polonia «il chiaro rischio di una seria violazione dello stato di diritto».

La Commissione Europea, contrariamente alla Commissione di Venezia che emana solo pareri, ha competenze di controllo e il mandato di avviare procedure e azioni correttive nei confronti dei paesi che violano gli standard dello stato di diritto. Tale paese può, di conseguenza, essere escluso dal diritto di voto nelle questioni che riguardano le comunità europee, il che porta indubbiamente alla sua emarginazione e alla riduzione a un membro senza nessun potere decisionale.

I polacchi sperano

I polacchi sperano che non si arrivi a tali sanzioni.

Una prima premessa che dimostra che si vogliono evitare simili conseguenze è la recente ricomposizione della compagine governativa e la nomina del nuovo capo del governo che tenterà di alleviare il conflitto con l’UE.

L’altra premessa della speranza è la garanzia del governo ungherese che ha promesso di non votare a favore delle sanzioni, mentre in questo caso è previsto il voto all’unanimità.

Le due visite del nuovo premier a Bruxelles dimostrano che un amabile sorriso non è sufficiente per risolvere il conflitto. E il governo polacco non vuole neanche sentir parlare di fare un passo indietro e modificare le leggi che violano gli standard dello stato di diritto.

Il 10 gennaio 2018 la Commissione Europea ha avviato una procedura contro la Polonia sulla base dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea. Tuttavia, prima che venga intrapresa una decisione definitiva, passerà ancora molto tempo. Alla decisione sull’avvio della procedura, la Commissione ha allegato una raccomandazione, la quarta, al governo polacco che elenca i passi che la Polonia dovrebbe compiere entro i prossimi tre mesi per evitare le sanzioni. È il primo caso nella storia delle Comunità Europee in cui si palesa l’eventualità che venga applicato l’art. 7 e non è decisamente motivo di vanto per il governo polacco.

Il popolo polacco deve trovare un modo di svolgere nell’Unione Europea un ruolo tale da permettere al proprio Paese di partecipare a pieno titolo alla vita e allo sviluppo dell’Europa.

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