I populisti al potere

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Ogni volta che, nella realtà politica, si realizza la marcata prevalenza di un determinato orientamento, non si riesce a resistere alla domanda sul destino che ci attende. Di volta in volta, nella mia ormai longeva esperienza, mi è accaduto di ascoltare pronostici come: “Dunque, è destino che moriremo democristiani”, oppure “comunisti”, oppure “berlusconiani”.

Così vivo la sensazione del sopravvissuto quando, dopo l’esito elettorale del 4 marzo e in presenza delle operazioni di coniugazione tra Cinquestelle e Lega, mi sento investito dall’ultima legittima curiosità: “Dunque è destino che moriremo populisti”?

Democrazia indebolita

La risposta che mi viene spontanea è questa: se moriremo populisti non posso saperlo, ma in ogni caso è giusto prendere qualche precauzione, perché il rischio è evidente e le difese alquanto scarse.

Le precedenti fasi storiche, quelle sommariamente rubricate dall’ipoteca democristiana, o comunista, o berlusconiana, si sono tutte interamente svolte all’interno di un contesto sostanzialmente omogeneo – quello della democrazia – che ha impedito che una di quelle tendenze acquisisse quelle caratteristiche di stabilità e di durata che sono proprie di un “regime”.

Oggi lo stato della democrazia si è indebolito non solo perché sono state numericamente sconfitte alcune forze che ne esercitavano il patrocinio ma anche perché è venuta meno, in larga misura, la capacità della stessa democrazia di offrirsi come sinonimo di speranza alla domanda politica del popolo.

Situazioni di divorzio

L’inventario della ragioni per cui ciò è avvenuto non è stato ancora completato. Ma non si sbaglia se si rileva una frammentazione della prospettiva democratica tale da determinare situazioni di divorzio tra ideali e interessi immediati.

È plausibile ritenere che ciò sia dipeso dal tramonto delle ideologie che pure, anche nei loro tratti più ostinati, offrivano una giustificazione a quella cultura del differimento dei benefici che, al netto dell’asprezza del conflitto sociale, accomunava il costume della borghesia produttiva e quello della classe operaia più evoluta e cosciente. L’una orientata a risparmiare per poter profittare, l’altra disposta a graduare le rivendicazioni e la lotta per realizzare l’equilibrio più giusto.

La rivincita del capitale

La storia del riformismo occidentale delle varie scuole – quella marxista non meno di quella cattolica – è segnata da queste caratteristiche e in essa si trova una delle spiegazioni del mancato avvento del comunismo nell’area del capitalismo avanzato, dove si è affermato il compromesso tra libertà economica, democrazia politica e sicurezza sociale.

Il secondo centenario della nascita di Marx obbliga tuttavia a registrare che l’avvenuta sconfitta del socialismo reale, nella sua versione sovietica, ha per così dire scatenato una sorta di rivincita del capitale, nella forma della finanza globalizzata, che ha scardinato lo stato sociale nelle sue basi culturali prima ancora che in quelle economiche. E ha ripristinato, nelle società abituate all’abbondanza e alla certezza delle tutele, le condizioni dell’isolamento degli individui proprie dell’età precedente.

L’antefatto di Berlusconi

Il forte ripristino della povertà che ne è conseguito ha trovato i popoli, e per essi i soggetti storici dell’iniziativa sociale e politica, in una condizione di pieno disadattamento, anche come stato di impotenza o di inutilità, pur nel mantenimento delle strutture e delle procedure consolidate.

L’onda del populismo nelle sue molteplici espressioni comincia da qui e trova rapidamente i propri canali politici. In Italia la sua prima manifestazione è quella che si coagula nell’iniziativa di Berlusconi (anni 90) che pure si ammanta di una patina di rivoluzione liberale.

In realtà, è l’inizio della disintermediazione istituzionale e sociale che va di pari passo con l’ostensione fisica e prestazionale del capo, immortalato mediaticamente nella sua attitudine a stipulare un contratto con il popolo senza alcun filtro procedurale di carattere parlamentare.

Il populismo totalitario

Il nucleo del populismo, come rapporto diretto tra il leader e il popolo, è già tutto racchiuso in questo atteggiamento, che trova espressione anche – perché dimenticarlo? – in quel timbro “FATTO” applicato alle delibere del Consiglio dei ministri a certificazione della corrispondenza tra la promessa e il suo adempimento. Che poi non fosse pieno o fosse del tutto assente è materia di un’altra indagine, volta a cercare le cause della disaffezione dalla politica.

L’evocazione di Berlusconi e del suo populismo narcisistico porta a considerare che il fenomeno viene da più lontano delle elezioni del 4 marzo 2018. Richiama, infatti, un precedente remoto, quello del fascismo, al quale fu dato il tempo di affermarsi e di consolidarsi come regime con un carattere totalitario che si manifestò soprattutto nella vocazione a “plasmare” le nuove generazioni secondo un modulo, non solo retorico, condensato nel motto “Mussolini ha sempre ragione”.

La guida e i seguaci

Una formula che conviene sottolineare perché rivela come, nel rapporto tra capo e popolo, fosse ben netta la divisione delle parti, quella attiva propria del numero uno e quella passiva riservata ai seguaci.

Così come è doveroso segnalare che noi italiani abbiamo vissuto, sognato, gioito e sofferto per ben quattro lustri in una realtà organizzata secondo quello schema. Per dire che, se avessimo studiato un po’ di più di storia, forse ci saremmo accorti un po’ prima di essere rientrati nell’orbita di un già vissuto che, nel tragico finale, la nostra comunità nazionale aveva solennemente ripudiato.

Un populismo democratico?

Ma tant’è. Qualcuno deve aver scritto che i popoli che non conoscono il proprio passato sono condannati a riviverlo. Ed ecco che a noi è toccato di conoscere, inaspettatamente, anche un’incarnazione di populismo in campo democratico. Come altrimenti valutare l’inseguimento della formula berlusconiana da parte del Partito democratico nella sua versione a trazione renziana? Legittimo e meritorio il desiderio di sottrarle voti, meno l’operazione di mimetismo imbastita per realizzare il tentativo, del resto non riuscito. Ma anche questo va annotato come un precedente di contaminazione populistica.

Un’avanzata generale

Naturalmente le ragioni del declino del Pd tra il 2016 e il 2018 sono molto più complesse ma resta sbalorditivo lo scarto tra il 40% ottenuto alle europee del 2014 e il 18% dell’ultimo 4 marzo. Sta di fatto che quello che era stato presentato anche in Europa come il più solido antemurale contro la pressione populista è franato senza rimedio.

Ma a certificare l’avanzata populista non è solo il Movimento5Stelle. Anche il Centrodestra (Lega+Berlusconi) ha portato acqua allo stesso mulino anche se, dopo la prova, l’ala che fa capo a Salvini si è disconnessa dall’alleanza elettorale che pure l’aveva vista prevalere.

Programma misto

Oggi – cioè mentre scriviamo – le cose sono disposte in modo tale che l’accoppiata Lega-M5S ha le maggiori probabilità di formare un governo. Che sarebbe, per stare al tema, la somma di due populismi tenuti insieme da un programma che mescola elementi sovranisti e sciovinisti con suggestioni assistenziali di matrice sociale.

Tenuto conto del fatto che le due forze in questione detengono la maggioranza nelle due Camere e che il gruppo di Berlusconi ha in qualche modo consentito al varo dell’operazione, si può dire che l’orizzonte politico è occupato in larga misura da una presenza populista.

Divergenze d’impianto

Non è omogenea. La Lega ultima versione è approdata ad una sponda lepenista arricchita da venature filorusse, il che rende arduo il suo approccio alle istanze europee e occidentali che pure connotano la tradizionale collocazione italiana.

Il M5S, viceversa, ha compiuto in fase elettorale una vigorosa conversione ad U nel campo della politica estera e mostra una flessibilità che, almeno in superficie, non dovrebbe alimentare difficoltà di collocazione.

M5Stelle: incognite e problemi

La questione principale che il Movimento pone è invece quella della sua natura, della sua struttura e del suo funzionamento. Suscita allarme la sua relazione con la così detta “Piattaforma Rousseau”, lo strumento digitale di consultazione e di formazione delle decisioni, agganciato ad una iniziativa privata e congegnato in modo da garantire, o per consenso o per obbedienza, l’ossequio dei “cittadini” alla linea prestabilita. Certamente è una fisionomia diversa da quella che la Costituzione delinea a proposito dei partiti politici come premessa della loro funzione di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

Un’altra questione si pone anche a proposito della dichiarata volontà dei 5Stelle di istituire il “vincolo di mandato” degli eletti rispetto alla linea stabilita e rimessa nella mani della figura del Garante. L’immagine è quella di una struttura verticalizzata assai più rigida e disciplinata di quello che era, ai suoi tempi, l’impianto del Partito Comunista; con tutte le relative preoccupazioni per la deriva autoritaria che potrebbe conseguire ad una gestione del potere così ispirata.

Dubbi da coltivare, varchi da esplorare

Quanta strada potrà fare una combinazione come quella che si va delineando una volte che il presidente Mattarella, ammirevole per pazienza e lucidità, le abbia conferito l’incarico di governare? I dubbi sono molti.

Vi sono i contrasti tra le due componenti, che riguardano anche le rispettive ambizioni personali che non sembrano mediate da un criterio di bene comune. Vi sono i contraccolpi nel rapporto tra gli alleati del centrodestra, dove il Berlusconi escluso non starà certamente immobile. E vi sono anche le incertezze dei 5Stelle non tutti entusiasti della soluzione prescelta.

Uno spazio per il Pd

Ma qualcosa dipende anche dagli esclusi, in particolare dal Pd, al quale, francamente, non si addice il ruolo dello spettatore che aspetta in tribuna il tracollo delle squadre avverse. Vi sono contenuti da non far deperire, a cominciare dall’impianto solidale degli interventi sull’immigrazione e dal rilancio di misure di giustizia come lo jus soli. Ma vi sono anche le opportunità di lavoro parlamentare offerte, ad esempio, dal presidente della Camera.

Il discorso di Fico

Nel suo discorso di insediamento l’on. Fico ha detto, tra l’altro, che «le decisioni finali (della Camera) devono maturare solo e soltanto nelle Commissioni e nell’Aula, perché soltanto un lavoro indipendente può dare vita a leggi di qualità». Vuol dire – se non leggiamo male – che sarà sbarrata la via a quegli espedienti procedurali utilizzati dai governi (compresi quelli di centrosinistra) per aggirare le “lungaggini parlamentari” e arrivare rapidamente al voto.

Poiché è fisiologico che il governo in carica sarà tentato di percorrere le strade già battute, si deve immaginare che l’impegno di Fico costituisca un oggettivo aiuto alle opposizioni. Comprese quelle “costruttive”.

***

E il “domandone”, se davvero siamo destinati a morire populisti? A questo punto si può rispondere soltanto che “dipende”. Non solo dai populisti al potere.

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