Il potere populista tra manovra e storia

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Nel grande emporio delle cose mai viste prima d’ora ha fatto ingresso la «manovra del popolo», ultima, o penultima, trovata retorica del repertorio dell’enfasi politica che costituisce la cifra del governo gialloverde venuto alla luce dopo le elezioni del 4 marzo.

Nessuno ancora ha tentato di fare l’inventario delle espressioni sopra le righe adottate dai membri dell’esecutivo per presentare, come gesta straordinarie, anche le più normali operazioni di ordinaria amministrazione.

In nome del popolo

Dal presidente «avvocato del popolo» alla «terza repubblica» fondata e rifondata ad ogni curva del tragitto e ora al «coraggio» di un indebitamento pubblico di dimensioni – queste sì – mai registrate finora: tutto è fatto, detto e recitato in nome del popolo di cui gli eletti riflettono e interpretano anche i più reconditi desideri. Come dire l’importanza di chiamarsi populisti…

In più, c’è la coreografia di un manipolo di ministri che stappa bottiglie di champagne sul balcone di palazzo Chigi per festeggiare il traguardo del 2,4% del debito sul Pil.

È l’entusiasmo per la grande vittoria ottenuta del duo Di Maio-Salvini sull’inerme ministro Tria, a scorno e monito per i malcapitati guardiani dei conti indigeni ed europei; e a gloria di un sovranismo tanto declamato quanto poco collaudato. Il tutto coronato dal sonoro «me ne frego» dedicato da Salvini all’Europa dei burocrati.

governo gialloverde

Qui viene in evidenza un secondo carattere del governo in carica: accanto alla retorica volta suscitare la meraviglia, si deve considerare il fatto che le prestazioni verbali dei protagonisti sono tutte mirate.

C’è sempre un Annibale alle porte, un complotto dietro l’angolo, una trama in corso; e ci sono le forze del bene che, per quanto sotto assedio, contrastano con successo le forze del male.

In questo davvero non hanno rivali i personaggi che gestiscono il potere in Italia. Tra i tanti paragoni che gli analisti hanno azzardato con gli anni del consenso fascista, probabilmente il più appropriato sarebbe quello con la resistenza alle «inique sanzioni» che la Società delle Nazioni inflisse all’Italia per l’aggressione all’Etiopia.

Ragioni in conflitto

In questo clima alterato dalle urla di perpetuo conflitto si collocano i tentativi di riportare la situazione sui binari dell’esperienza politica consolidata. Ad esempio, inquadrandola – come ha fatto Galli della Loggia sul Corriere della Sera – nella tradizionale contesa tra le ragioni dell’economia e le ragioni della politica nella destinazione delle risorse di una nazione. Dove economia sta per tutela della proprietà e della ricchezza privata e politica sta per sostegno alle rivendicazioni sociali dei ceti meno dotati.

A parte il carattere un po’ schematico di un’analisi di questo genere, pare evidente l’utilità di una rivisitazione del processo dialettico tra i due poli indicati nella vicenda storica che si riassume sotto la sigla del riformismo.

Essa presenta una varietà di situazioni e di soluzioni, di volta in volta orientate verso l’uno o l’altro versante. Per restare in Italia, non si può ignorare che i governi dell’ultimo dopoguerra, mentre erano attenti agli equilibri del bilancio (e per questo attaccati da sinistra) non erano però insensibili alle domande di perequazione sociale. Ne fanno fede le scelte in tema di riforma agraria, di protezione sociale e anche di iniziativa statale in campo economico. E anche, sul piano del metodo, le grandi inchieste parlamentari sulla miserie e sulle condizioni dei lavoratori.

Chi pensa che la storia cominci il giorno della sua venuta tra noi farebbe bene a consultare i testi dello schema Vanoni sullo sviluppo dell’occupazione e del reddito (1954) e del Piano Pieraccini (1967), quest’ultimo addirittura votato (invano) dal parlamento paragrafo per paragrafo.

Una storia non finita

La storia registra, insomma, un bilanciamento continuo tra politica ed economia e individua in questo meccanismo i motivi del successo del compromesso riformista, che salva le ragioni e gli interessi del capitale (dalla minaccia del comunismo) e, nel contempo, consente tutte le conquiste che sono il vanto della civilizzazione moderna.

Ma tale flusso di civiltà, connesso ad una democrazia non solo formale, si è interrotto nel momento in cui si è ritenuto che la fine del comunismo significasse la fine della storia, nel senso della stabilizzazione del sistema che aveva ottenuto la vittoria.

Non è stato così. Sbaragliato il suo nemico mortale, il capitale ha rivendicato e ripreso la propria vocazione egemonica mostrando di volersi liberare di molti dei limiti accettati durante la fase del compromesso, in modo da reclamare la priorità della destinazione economica delle risorse.

La stagione dei confini

Globalizzazione e progresso tecnologico (Lenin diceva: soviet ed elettrificazione) sono stati i due bracci della tenaglia che ha messo in crisi le prerogative dei governi nazionali nella redistribuzione della ricchezza e, nel contempo, ha ridotto fino all’estenuazione il potere dei sindacati e delle altre formazioni dialettiche.

governo gialloverde

I mercati – e solo i mercati – hanno ricapitolato l’intera dinamica politica e tutti, anche le forze della sinistra democratica, si sono uniformati a tale assioma. Non è stata invece percorsa la via di una internazionalizzazione della solidarietà per uno svolgimento ad armi pari del conflitto economico e per l’elaborazione di una nuova sintesi sociale a quel livello.

Al contrario, si è avuta – ed è la stagione che stiamo vivendo – una rivalutazione dei confini territoriali, cioè delle identità e solidarietà locali. Nel presupposto che, accorciando il fronte, sarebbe stato più agevole ottenere un risultato; e nel pregiudizio che la ricerca di soluzioni a livello planetario (imposte peraltro da temi come l’ambiente, la ricchezza diseguale e le migrazioni) non portasse alla soluzione ma fosse essa stessa il problema. La crescente ostilità verso l’Europa ne è il segno più eloquente.

Ora, se gli elementi elencati non sono invenzioni di fantasia, si può constatare che quel che accade in Italia è il frutto maturo di uno stato di cose come quello descritto.

Le forze al potere hanno ottenuto consenso sull’idea che si possano recuperare indipendenza di movimento e ampiezza di protezione sociale solo separandosi dal resto del mondo. Il “prima noi”, di cui è alfiere l’attuale presidente USA, vuol dire che non c’è posto per gli altri.

Leghisti e grillini

Su questa piattaforma unificante, le due forze principali della maggioranza si presentano ciascuna con proprie caratteristiche.

La formazione leghista ha una fisionomia sostanzialmente autarchica nel senso della promozione degli interessi indigeni, con una proiezione, da Bossi a Salvini, su scala nazionale (verso l’Europa) della sua tradizionale tendenza alla secessione sociale.

Di contro, il movimento grillino aggiunge al perseguimento della protezione sociale a scala nazionale (vedi il reddito di cittadinanza) una tendenza alla revisione radicale del sistema politico, con un’integrazione (o superamento?) della democrazia rappresentativa con la democrazia diretta nella sua versione digitale, che, per sua stessa natura, può essere solo etero-diretta. Con tutte le conseguenze per i diritti umani e le libertà fondamentali dei cittadini che bisogna cominciare ad immaginare.

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Il nuovo sa d’antico

Quanto d’antico vi sia in questa prospettazione delle novità politiche italiane – al netto dell’enfasi retorica di cui all’inizio – lo si può scoprire meglio con l’aiuto di un fortunato libretto di uno storico “antichista”, Luciano Canfora, dal titolo stimolante: La scopa di Don Abbondio, e il sottotitolo esplicativo: “Il moto violento della storia” (Laterza, pp. 98, € 12,00).

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L’autore individua almeno due punti comuni tra le attuali destre anti establishment e le camicie nere o brune della prima metà del Novecento. Uno: «l’insistenza sul richiamo nazionalista, ieri indirizzato a scopi di espansione territoriale, oggi rivolto soprattutto contro gli immigrati dai paesi poveri». Due: «la consapevolezza, ben viva a suo tempo nell’ex socialista Benito Mussolini, della necessità di garantire alle masse popolari una certa protezione sociale, senza urtare troppo gli interessi del grande capitale»…

Poiché la scopa di Don Abbondio, secondo il Manzoni, altro non era che la peste di Milano, si capisce che il libro non è scritto per alimentare propensioni ottimistiche. Ma una lettura spregiudicata della storia può favorire, se si ritiene che ciò sia necessario, il discernimento dei tempi che viviamo e, in essi, le idee e le forze necessarie per uscire a riveder le stelle.

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