Referendum – 1. Il destino del Senato

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Il “merito” del referendum di ottobre. Che cosa è il “merito” e come si “entra nel merito”? L’ausilio linguistico è scarso. Spiega che «entrare nel merito di una questione» vuol dire «considerarla nei suoi aspetti principali». Ma quali sono gli aspetti principali del referendum costituzionale? Su che cosa si vota? Dire che si vota sul quesito “redatto dal Parlamento” – come s’è fatto su queste pagine nelle settimane scorse – è esatto ma non basta. Coglie un aspetto di forma mentre la “sostanza” è più vasta. Conviene allora tentare, se non di individuarla, di tracciarne il perimetro almeno per tre aspetti che si accumulano nel giudizio politico ma di cui è utile rintracciare singolarmente la portata.

Primo aspetto: la questione principale del quesito.

Secondo aspetto: la risonanza politica della prova con riguardo al governo.

Terzo aspetto: i riflessi del risultato sugli equilibri politici e le connessioni con la legge elettorale.

La classificazione è del tutto soggettiva e forse arbitraria. Ma il lettore consentirà che una trattazione separata dei singoli aspetti possa agevolarlo nella formulazione della sintesi, cioè nel voto. Sapendo che il “sì” o il “no” contengono una valutazione delle scelte compiute a maggioranza dai due rami del Parlamento secondo le procedure di revisione costituzionale fissate dall’art. 138 della Costituzione.

Un’origine problematica

Applicando i criteri indicati, non v’è dubbio che la questione principale del quesito riguarda il destino del Senato della Repubblica. È la conclusione di una vicenda iniziata, per così dire, al momento stesso del… concepimento della seconda camera del Parlamento. Sulla cui composizione (elezione diretta o indiretta o struttura “per categorie”) discussero seriamente i padri costituenti, confezionando la soluzione di un bicameralismo che all’origine non era “perfetto” (per via della maggior durata del Senato rispetto alla Camera dei Deputati: 6 anni invece di 5) ma rapidamente lo divenne e tale si è mantenuto fino ad oggi.

Il modo, invero brusco, con cui l’attuale Presidente del Consiglio si presentò all’assemblea di Palazzo Madama consegnando ai padri coscritti ivi riuniti un chiaro avviso di sfratto, sia pure alla scadenza della legislatura, è la chiave attuale della questione. Che però fu trattata in diverse occasioni nel corso dei sette decenni della Repubblica con suggestioni e proposte modulate lungo una scala che va dall’azzeramento all’invarianza. E con l’emergere di due tendenze fondamentali: quella del monocameralismo che rilanciava (Ingrao 1983) la primitiva tesi del Pci e quella che puntava sul tentativo di differenziare le funzioni delle due camere, sommariamente attribuendo alla prima il compito di legiferare e alla seconda quello di controllare l’operato dell’esecutivo.

Il “metodo della culla”

Il Parlamento attuale, occupandosi della materia, non ha elaborato dottrine originali: in realtà ha compiuto varie operazioni di smontaggio e rimontaggio di proposte di diversa estrazione e di diversa… stagionatura, tutte però scaturite da una ricerca tanto estesa quanto infruttuosa.

Per limitarmi al solo episodio di cui ho avuto immediata cognizione (nella legislatura dal 1987 a 1992, di cui ho fatto parte in Senato), ricorderò la discussione durata tre anni di una batteria di disegni di legge riguardanti la riforma del Senato, sapientemente condotta da Leopoldo Elia. In quella sede si immaginò di snellire il lavoro del Parlamento riducendone i tempi di produzione legislativa, introducendo il così detto “metodo della culla”. Secondo il quale (come si legge nel testo approvato in Aula il 7 giugno 1990) «il disegno di legge approvato da una camera è trasmesso all’altra e si intende approvato se entro quindici giorni dall’annuncio questa non deliberi che il disegno di legge sia sottoposto anche alla sua approvazione».

Non è dato conoscere quale efficacia avrebbe avuto un simile meccanismo perché il processo legislativo non ebbe seguito. Ma è giusto ricordare che quello fu il massimo di coordinamento ipotizzabile in un contesto in cui il regime bicamerale, in quanto tale, non veniva ritenuto revocabile.

Viceversa, uno degli allegati agli atti del Senato rivela come già in Assemblea Costituente si fosse presa in considerazione l’idea che «una parte dei senatori (un terzo) dev’essere eletta dai Consigli regionali»: non è dunque una novità (proporzioni a parte) la scelta, compiuta nell’attuale riforma, di prevedere un sistema misto di composizione del Senato, sia pure con una formula alquanto tortuosa come quella sulla quale dovrà ancora pronunciarsi il legislatore in sede attuativa. Ed è per questo che quella vecchia idea dei padri costituenti potrebbe persino tornare buona.

Un’altra curiosità… documentaria può essere rappresentata dalla proposta, datata 1983, di un “gruppo di Milano” guidato dal futuro ideologo della Lega, Gianfranco Miglio, che prevedeva la creazione di una Camera delle regioni di 100 unità, composta da membri delle giunte regionali, con funzioni consultive su alcuni atti del governo centrale e legislative su altri.

Una motivazione discutibile

Come è noto, oltre che sulla composizione, la riforma attuale incide poi pesantemente sui compiti del Senato, a partire dall’eliminazione del voto di fiducia al governo e per proseguire con alcuni limiti all’attività legislativa, il tutto con un sostanziale depotenziamento della funzione dell’organo. A dire il vero, quest’ultima è stata la percezione più diffusa dei propositi del governo, il quale ha preso l’iniziativa della riforma senza nascondere che con essa si prefiggeva di risparmiare risorse. I senatori, in quanto consiglieri regionali, non godranno più dell’indennità parlamentare e in tal modo – questo il ragionamento – si soddisfa anche l’istanza popolare negativa nei confronti dei privilegi della “casta”.

L’evidente concessione ad una protesta largamente diffusa e soprattutto i modi con cui è stata portata avanti dall’esecutivo hanno impedito che il dibattito sul miglior modo di definire un’importante porzione dell’ordinamento istituzionale si svolgesse al riparo di inflessioni demagogiche, tantomeno potevano ottenere l’unanimità del plauso le lodi che il Presidente del Consiglio ha elargito ai senatori paragonandone l’atteggiamento a quei virtuosi… tacchini che meritoriamente si apprestano ad apparecchiare se stessi per il pranzo di Natale.

Ricostruita a posteriori, la discussione rivela il tentativo dei senatori di recuperare, nella giostra degli emendamenti, almeno una parte delle prerogative del vecchio Senato che, viceversa, il governo negava. In tal modo però si attuava un sostanziale dirottamento rispetto alla costruzione ex novo di quel Senato dei territori di cui pure parla il testo approvato.

Effetti collaterali

 Ma qui siamo già agli effetti collaterali del confronto nell’ambito propriamente politico e ai riflessi di certe esorbitanze sulle sorti dell’esecutivo e della figura di un leader che – come usa dire – ci mette la faccia. Se ne dovrà parlare espressamente nel prossimo articolo, non senza aver sottolineato, fin d’ora, che al clima del dibattito referendario gioverebbe ogni pur modesta riduzione dei fattori d’attrito che distraggono dai termini sostanziali della scelta. Richiamando questi ultimi alla luce dei significativi precedenti evocati, si può convenire sul carattere non eversivo delle deliberazioni del parlamento, molte delle quali erano state in vario modo e in epoche diverse registrate in precedenti tentativi di riforma.

Se il superamento del bicameralismo perfetto era già positivamente contenuto in quelle elaborazioni, resta da dimostrare che un di più di enfasi retorico/politica sarebbe decisivo nel determinare l’orientamento del consenso popolare.

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