Un referendum senza risposta

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Tra pochi giorni (domenica 20 e lunedì 21 settembre 2020) saremo chiamati a votare il referendum costituzionale confermativo, relativo alla legge che riduce il numero di deputati e senatori.

Si tratta di un quesito molto semplice: la “riforma” agisce solo sui numeri degli eletti alle Camere previsti dagli articoli 56 e 57 della Costituzione. Con un piccolo correttivo, all’articolo 59, sui senatori a vita. Nulla più. Perciò molti non la considerano una riforma degna di questo nome, mentre altri attribuiscono al voto un importante valore politico e simbolico. Chi ha ragione?

Conta di più il merito o l’implicazione politica?

Lungi dal voler assumere una specifica posizione, ci pare che il referendum ponga – come avviene da anni – una sorta di “metaquesito”, di domanda implicita. Che appare essere questa: “votiamo per il merito del quesito che ci viene posto, o per le implicazioni politiche che la risposta potrebbe avere?”.

Che piaccia o no, da molto tempo, in Italia i referendum sono divenute bandiere, piuttosto che quesiti di merito. Quando ci è stato chiesto se si voleva abolire il Ministero dell’Agricoltura (1993, promosso dai Radicali), si è in realtà presentato il referendum come il primo passo per la demolizione di una certa burocrazia romana.

Quando ci è stato chiesto se volevamo abrogare le norme limitative della responsabilità civile per i giudici (1987, promosso da Radicali, Socialisti e Liberali) siamo stati chiamati a votare “per una giustizia giusta”.

Anche in tempi più recenti, sui referendum costituzionali (2001, 2006, 2016), è stato difficile capire se si votava nel merito dei questi, o a favore/contro della maggioranza che li aveva proposti.

Con questa ambiguità di fondo del dibattito italiano, l’uso del referendum, per il semplice cittadino, diviene davvero complicato.

Rispondere al puro quesito, nel merito, richiede preparazione, giudizio critico, e forse una buona dose di ingenuità.

Votare “politicamente”, invece, significa essere meno ingenui ma, al tempo stesso, equivale a consegnare un assegno in bianco a chi – il giorno dopo – darà del nostro voto una lettura polarizzata. La userà per far cadere un Governo, per indebolire un avversario, per impostare un proprio dibattito, ben al di là del testo scritto sulle schede che effettivamente abbiamo votato.

La ragioni del NO

Se applichiamo questa analisi al quesito referendario del prossimo 20-21 settembre, ci rendiamo subito conto che scegliere non è semplice. Proviamo ad analizzare le idee in campo, registrando le principali posizioni espresse dai due schieramenti del NO e del SI’.

Nel merito, il NO ha come principali argomentazioni le seguenti: il numero dei parlamentari in sé non è una riforma; in assenza di una revisione dei regolamenti parlamentari, anzi, creerà problemi organizzativi alle Camere (soprattutto al Senato); ridurrà gli spazi di rappresentanza per le opposizioni, specie per i piccoli partiti e nelle regioni medio-piccole; infine, tutto questo sarà applicato ad una legge elettorale ancora indefinita, che rende quindi impossibile valutare i reali effetti di questa “riforma” (il testo base del “Brescellum” sarà discusso a partire dal 28 settembre, ma non trova accordo nemmeno nella maggioranza che dovrebbe votarlo).

Le ragioni del SI’

Sempre nel merito, il SI’ risponde invece con pochi argomenti propositivi: si risparmiano risorse (100 milioni circa? I conti impazzano…); si riduce il numero di parlamentari e quindi si richiamano le istituzioni a maggiore essenzialità, funzionalità, efficienza.

Curiosamente, trattandosi dei “proponenti”, prevalgono gli argomenti difensivi rispetto alle voci del NO: non sarebbe vero – come sostiene il NO – che si riduce la rappresentanza; il rapporto eletti/elettori resterebbe nella media europea, spostandosi solo dalla fascia bassa a quella alta. E poi, quando si scrisse la Costituzione, nel 1948, non c’erano Parlamento Europeo, sindaci eletti e regioni. E non c’erano internet e social. Il rapporto cittadini/eletti a Roma può dunque essere ripensato. Il referendum, dunque, non sarebbe nocivo. Ma perché sia utile, a parte un piccolo risparmio, non resta chiarissimo.

Oggettivamente, le motivazioni di merito del SI’ non sono particolarmente forti. Difficile sostenere che la questione puramente numerica fosse una priorità nel Paese e nel sistema politico. Evidente dunque che, ancora una volta, il quesito posto dal referendum è volutamente “politico”. Ma, come dicevamo, quando si sale su questo piano del “metaquesito”, gli effetti del voto diventano estremamente complessi, opinabili, anche poco prevedibili.

Chi ha promosso la legge costituzionale che oggi siamo chiamati a ratificare o meno, voleva certamente impegnare la forza “morale” del voto referendario a supporto di un percorso di revisione del rapporto tra cittadini e politica, auspicato e in atto da anni. Una revisione che mira a ridurre gli eccessi di chi fa politica. Come ha scritto Luigi Di Maio in un post dello scorso 22 agosto, «gli italiani da anni sono chiamati a fare sacrifici e la politica, soprattutto in questo momento, ha il dovere di dare il buon esempio».

Dunque, un referendum per una politica che pesi meno sulle spalle dei cittadini, meno invasiva; soprattutto per una “classe politica” meno invasiva. «Ecco, la parola d’ordine è e deve essere normalità. Un Paese normale, con una classe politica normale, per riportare soprattutto i giovani vicino alle istituzioni». Così si motiva politicamente il referendum per Di Maio.

Per molti, però, il vero motivo per votare SI’, politicamente, è un altro: intanto, segnare che l’esigenza di riforme nel Paese resta alta, e quindi che – al di là del merito del quesito – il giorno dopo la vittoria del SI’ occorrerà necessariamente rimettere mano alla legge elettorale, magari ai regolamenti parlamentari, forse anche ad altri aspetti del sistema costituzionale che oggettivamente non vanno. Ribadire, insomma, che la Costituzione va riformata e non è intangibile.

Inoltre, sempre sul piano politico, per chi sostiene l’attuale governo, il NO sarebbe un voto pericolosissimo: un NO vincitore o molto forte aumenterebbe ulteriormente le tensioni presenti tra PD e M5S. E sarebbe un duro colpo soprattutto per i Cinquestelle.

Non mancano i ripensamenti

Quest’ultimo argomento è particolarmente complesso e delicato.

Come sappiamo, all’ultima delle quattro votazioni richieste in Parlamento, praticamente tutti i partiti hanno votato SI’ alla “riforma”: dunque, sulla carta, l’esito non segnerebbe vincitori o sconfitti particolari. In realtà, vari partiti sono in difficoltà di fronte al voto: in primis il PD, che ha votato contro la riforma nei primi passaggi parlamentari, quando era all’opposizione, e poi ha virato ufficialmente sul SI’ per evitare lo scontro con l’alleato di Governo M5S, chiedendo però garanzie (ad oggi, ben poco concrete) sui correttivi necessari alla legge elettorale, per evitare gli effetti negativi del taglio sulla rappresentanza.

Ma anche Forza Italia è in difficoltà, e la stessa Lega: hanno votato a favore in parlamento, ma con poca convinzione. «La riduzione dei parlamentari è una nostra battaglia da sempre», è l’argomento prevalente nel centrodestra, «anche se questa riforma è troppo isolata».

In realtà, il sospetto è che nessuna forza politica – pur contraria nel merito della riduzione – abbia avuto il coraggio di intestarsi una battaglia quasi certamente destinata alla sconfitta: tutti i sondaggi, fino a poche settimane fa, davano il NO al massimo al 30%. Dunque, schierarsi dalla parte del SI’ era per tutti nettamente più vantaggioso, anche se quasi nessuno è davvero convinto che ridurre i parlamentari sia utile.

Senza capo né coda

Questo ragionamento “utilitaristico”, basato sul consenso, appare oggi più fragile.

Sono intervenuti fatti nuovi, negli ultimi tempi. La forza del NO è sembrata crescere significativamente negli ultimi sondaggi. Voci autorevoli di intellettuali, costituzionalisti, testate giornalistiche – tra cui in modo dichiarato La Repubblica del direttore Maurizio Molinari – si sono schierate contro il taglio dei parlamentari.

Nello stesso PD, pur schierato da Zingaretti, molte voci critiche si sono alzate (Gori, Orfini, Zanda, Finocchiaro, ma soprattutto quella del “padre nobile” Prodi).

A loro volta, Lega e Forza Italia – pur rimanendo sul SI’ – hanno fiutato la possibilità di trasformare il referendum in una ulteriore “spallata” alla frastagliata maggioranza che sostiene il governo Conte (anche se la spallata maggiore si attende dal voto alle Regionali). Un NO forte andrebbe a mettere una ulteriore “zeppa” tra i Pentastellati e il PD, da sempre sospettato da parte dei M5S di non essere credibile in un progetto di radicale riforma del Paese, per i troppi interessi che lo legano al “sistema”.

Ecco allora che si sente parlare di un ordine “sommerso” dato dalla Lega ai suoi elettori per un voto contrario, seppure la posizione ufficiale –sondaggi alla mano – non possa cambiare; e così pure Forza Italia, malgrado abbia sempre votato SI’ in Parlamento, lascia curiosamente libertà di voto ai suoi elettori…

Tiriamo le fila: è un gran pasticcio. Se si vuole votare “politicamente”, cioè con attenzione agli effetti politici del voto, oggettivamente, ogni previsione è impossibile. Difficile dire se il giorno dopo la vittoria del SI’ davvero si sistemerà la legge elettorale, e soprattutto non c’è nessuna certezza reale sul come. Viceversa, un NO, che ha molte ragioni di merito, potrebbe essere usato politicamente per indebolire il Governo e ridefinire equilibri di forze, ma in modo diverso da parte dei diversi partiti, dentro e fuori la maggioranza.

Insomma, posto così, in questo clima, in questa ambiguità tra “quesito” e “metaquesito”, questo referendum è una domanda praticamente senza risposta. Senza capo e senza coda. Un po’ come tante altre cose della politica italiana degli ultimi anni.

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Un commento

  1. Nino Remigio 15 settembre 2020

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