Ruini: un rispettoso dissenso

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Ha fatto rumore un’intervista al Corriere della sera (3 novembre) del cardinale Ruini. Comprensibilmente, prevedibilmente. Specie laddove egli sostiene che il giudizio su Salvini non ha da essere troppo negativo e che la sua ostentazione dei simboli sacri non è necessariamente strumentale, ma può essere anche interpretata come un attestato della rilevanza della fede nella sfera pubblica.

Ovviamente, alla lettera, è sostenibile che Salvini non è il male assoluto. Solo il demoniaco lo è. Ma il cardinale Ruini è troppo avveduto per non avere messo in conto che le sue parole avrebbero avuto l’eco e la lettura puntualmente registrate. In primo luogo, da parte dell’interessato. È cioè un autorevole accreditamento ecclesiastico di Salvini. Francamente troppo generoso.

Basti considerare quattro profili qualificanti della sua offerta politica: l’ostilità verso l’accoglienza e l’integrazione dei migranti; una concezione angustamente securitaria che comprime i diritti di libertà e lo Stato di diritto; il sovranismo, e cioè l’opposto di una visione universalistica e dunque di una politica estera imperniata sul multilateralismo e sull’Europa; l’uso politico del cristianesimo ridotto e frainteso come «religione civile». Si converrà che non sono dettagli, che non possono essere rappresentati minimalisticamente come «aspetti sui quali Salvini deve ancora maturare».

Il neotemporalismo filo-berlusconiano

Spesso mi è occorso in passato di dissentire da Ruini: sia dalle sue opinioni politiche, sia dalla sua visione del rapporto tra la Chiesa (specie italiana) e la comunità politica. Una visione che si è tradotta in un marcato protagonismo/interventismo politico dei vertici ecclesiastici e in una preferenza assegnata al centrodestra a guida Berlusconi.

Una visione e una pratica che, a mio avviso, scontavano tre limiti: una mortificazione dell’autonoma responsabilità politica del laicato; un’opzione di parte in contrasto con l’asserita legittimità del pluralismo politico tra i cattolici (dividendo quelli politicamente impegnati tra figli e figliastri); il rischio di avvalorare la tesi di una indebita ingerenza delle gerarchie nella contesa politica. Più esplicitamente: una deriva neotemporalista, la rappresentazione della Chiesa come potere tra i poteri.

Ciò detto, riconosco volentieri due cose. Primo: apprezzo la franchezza di Ruini, il coraggio di non dissimulare le sue opinioni. In una precedente intervista al Corriere, egli confessò esplicitamente – è cosa inusuale e, ripeto, apprezzabile da parte di un porporato – di avvertire più sintonia con i due pontefici predecessori di Francesco. Lo avevamo intuito, ma dichiararlo è indizio di cristiana parresia.

Secondo: pur spesso dissentendo, ho sempre creduto nelle buone intenzioni di Ruini. Mi spiego: ho sempre pensato che il suo interventismo politico mirasse a un obiettivo meritevole e virtuoso, quello cioè di contrastare anche per via politica la scristianizzazione del paese, di fare argine al relativismo etico.

Fede e valori non negoziabili

Solo che – ecco il punto – personalmente non sono affatto convinto che un attivismo politico della Chiesa e più esattamente della gerarchia sia via e strumento efficace al fine di «fare cristiani» gli uomini e la società o, in negativo, per contenerne la scristianizzazione. Tesi che sostengo non tanto per ragioni teologiche – la cura per la distinzione dei piani e degli ambiti di responsabilità, evangelizzazione e civilizzazione – ma sulla scorta di una oggettiva lettura storico-concreta circa il caso italiano nel quadro dell’occidente democratico.

Basterebbe notare che il quasi mezzo secolo di egemonia politica DC non ha inibito affatto l’accelerazione del processo di scristianizzazione del nostro paese («Italia terra di missione» fu una delle parole d’ordine dell’episcopato italiano, espressiva di una lucida,  pensosa consapevolezza, sin dagli anni ’70).

Così pure non mi sento di sottoscrivere il bilancio, a dire di Ruini positivo, dell’investimento della CEI a guida Ruini sul centrodestra, esattamente e soprattutto sotto il profilo cruciale del contenimento di scristianizzazione e relativismo.

Anche perché – questa la mia opinione – penso che il tempo dell’egemonia berlusconiana, culturale prima che politica, abbia semmai straordinariamente accentuato certe derive. Più chiaramente: che il berlusconismo assai più della sinistra laica o laicista sia stato il vettore principale di quelle dinamiche corrosive. Circostanza ai miei occhi palese, ma evidentemente non da tutti condivisa.

Il Vangelo di Francesco

Su un punto invece concordo: non vi sono le condizioni per dare vita oggi a un «partito di cattolici», del quale proprio in questi giorni si torna parlare. Considerata la condizione di minoranza e, di più, di minoranza politicamente e legittimamente divisa, meglio operare, come recita il Concilio, a modo di fermento, all’interno delle varie formazioni politiche. Quelle il cui statuto ideale e pratico non sia in manifesto contrasto con l’unum necessarium dei cristiani.

Ribadisco: temo che operazioni del tipo «partito dei cattolici» possano assumere una piega nostalgica, regressiva, velleitaria.  Non però per adottare lo schema praticato in passato di una delega alle gerarchie ecclesiastiche e di un loro attivismo negoziale con partiti, parlamenti, governi. Che, insisto, a mio avviso, non giova alla Chiesa, al laicato e neppure alla qualità della politica.

Nell’intervista in oggetto, Ruini fa pure un cenno al recente Sinodo sull’Amazzonia, esprimendo anche qui, con la consueta franchezza, qualche sua preoccupazione. Papa Francesco è uomo deciso ma aperto, dà mostra di non temere, ma anzi di apprezzare il libero confronto quando esso è mosso da sincero amore alla Chiesa. Nel caso di Ruini tale spirito è fuori discussione. Ed è cosa importante in un tempo nel quale Francesco è osteggiato da un fronte ecclesiastico e politico agguerrito su scala mondiale e quindi va sostenuto senza esitazione.

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3 Commenti

  1. Giovanni Ruggeri 13 novembre 2019
  2. M. Modesto 7 novembre 2019
  3. Giampaolo Centofanti 5 novembre 2019

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