Sturzo ieri e oggi

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Giusto e doveroso celebrare il centenario dell’appello “ai liberi e forti” (19 gennaio 1919) e con esso la straordinaria, poliedrica personalità di Luigi Sturzo, ma attenzione a non scambiare la commemorazione con l’attualizzazione di un insegnamento e di una testimonianza che restano tanto grandi quanto storicamente configurati.

La tentazione è evidente. I tempi grami che stiamo vivendo in politica spingono a cercare vie d’uscita non banali. In campo cattolico, da qualche tempo, ritornano gli impulsi alla mobilitazione e all’attivismo sia tra i laici sia tra i vescovi. E quale sbocco più affidabile, di fronte alle difficoltà di escogitare soluzioni originali, che affidarsi alle certezze se non di un di un “usato sicuro”, almeno di un tracciato affidabile, collaudato da un’esperienza vitale e interrotto solo dalla prevaricazione della insorgente dittatura fascista?

Un Mosè del Novecento

Che esistano controindicazioni come quelle evocate, tuttavia, non è una buona ragione per evitare lo scoglio di un confronto aperto con questo gigante del pensiero e della politica e per ricavarne, tra i tanti, gli insegnamenti di valore che rimangono oltre le circostanze contingenti che ne rappresentano l’involucro.

Da quando gli amici siciliani mi fecero omaggio dell’Opera omnia di Sturzo in 14 volumi, ho maturato l’idea che questo prete di Caltagirone sia stato, per i cattolici italiani, quel che Mosè fu per il popolo di Israele: il liberatore da una condizione di schiavitù e la guida verso la terra promessa ritenuta desiderabile ai suoi tempi.

Da questo punto di vista la figura di Sturzo appare ancor oggi quella di colui che ha consentito il passaggio dei cattolici italiani da una condizione di integralismo chiuso alla percezione piena delle potenzialità della democrazia politica.

E il tutto si fece parte…

Non fu un cammino agevole. Dalla presa di Roma, nel 1870, una lotta politica intrecciata con le pregiudiziali ecclesiastiche si è combattuta in Italia, avendo come posta in giuoco l’alternativa tra l’essere, come cattolici, la retroguardia del potere vittorioso, i moderati liberali, oppure i pionieri di una nuova impresa condotta in nome di un’autonomia di pensiero e di azione tutta da costruire.

Sulla scia dell’esplorazione di Romolo Murri e dei “giovani” dell’Opera dei Congressi, Sturzo ebbe il coraggio di compiere definitivamente il salto di qualità verso la democrazia adottando lo strumento tipico del sistema democratico: il partito politico.

Non poteva essere l’idea del “partito cattolico”, esclusa in radice dal fatto che “cattolico vuol dire universale”, una soluzione che avrebbe preteso di convogliare sotto un’unica insegna (a quel punto decisamente clericale) l’intero corpo del cattolicesimo italiano; e fu l’idea del “partito di cattolici”, non tutti i cattolici ma una parte che si costituiva politicamente su un programma interamente politico ancorché “di ispirazione cristiana”.

Si può dire allora che, con Sturzo, i cattolici si fecero partito per contendere agli altri partiti in campo la conquista della maggioranza popolare: un partito che si definiva, da un lato, sulla base dei canoni propri della sua ispirazione e, dall’altro, dialetticamente, in relazione alla fisionomia dei suoi competitori, all’epoca i moderati giolittiani avvezzi alle manovre trasformistiche, i socialisti sempre più affascinati dalla prospettiva di “fare come la Russia” e poi, ultimi sopraggiunti, i fascisti di Mussolini caratterizzati dalla vocazione ad un esclusivismo del potere violento.

Il magistero dell’esilio

Chi ha studiato le vicenda del Partito Popolare assicura, però, che non tutto risultò lineare come nello schema indicato. Influirono sulle scelte e sulla condotta del PPI le vischiosità di un mondo cattolico, e anche di una gerarchia, che malvolentieri si distanziavano da una visione della politica che rifiutava di… mettere ai voti la verità e che, all’atto pratico, fece sentire il suo influsso per la stipula di un’intesa di convivenza con il fascismo. Ciò che rese impraticabile la presenza di Sturzo alla guida del Partito Popolare.

Il magistero di Sturzo si esercitò, dall’esilio, anche durante il periodo fascista tenendo alti i valori delle libertà politiche e civili e, in particolare, sviluppando i tema della prevenzione della guerra, che avrebbe poi trovato sbocco nella costituzione delle Nazioni Unite.

Un ritorno problematico

Ma lo Sturzo che ci venne restituito nel secondo dopoguerra era notevolmente diverso da quello che era andato in esilio. Nominato senatore a vita, egli si collocò su una postazione decisamente critica della politica di De Gasperi, specialmente in campo economico. Facevano opinione (contraria) i suoi articoli su Il Giornale d’Italia e non fu affatto felpata la sua disponibilità a favorire, nel 1952, la formazione di una lista di cattolici e neofascisti per contendere il Campidoglio alla minaccia comunista.

Non era gradevole suscitare la sua attenzione giornalistica. Per il settimanale delle Acli, Azione Sociale, scrissi un editoriale a sostegno delle politiche dell’ENI in campo petrolifero e mi trovai travolto da una valanga di quelle “gentilezze” che Sturzo riservava a coloro che giudicava come i cultori di quello statalismo che deprecava.

Nella ricerca postconciliare

Ma, negli anni del secondo dopoguerra, era cambiato il mondo. Il partito di ispirazione cristiana, reincarnato nella Dc di De Gasperi, era insediato saldamente al potere e dimostrava di sapersi muovere con abile saggezza nei meandri della guerra fredda, tenendo a bada i comunisti senza venir meno ai presupposti democratici della Costituzione. E di Sturzo, anche colpevolmente, si è parlato poco finché la Democrazia Cristiana è rimasta in sella. Fino al revival attuale di cui si è accennato all’inizio, con le avvertenze che occorre richiamare.

Per scoprire quanto il richiamo sturziano possa essere utilizzabile nello scenario politico attuale, occorre però considerare quel che, nel mondo cattolico in ricerca, è accaduto o non è accaduto dal momento in cui, venuta meno con il Concilio l’unità politica dei cattolici, è cominciata l’esplorazione di sentieri indicati come nuovi, anche se spesso si trattava di ricalchi di antiche piste.

Una critica necessaria

Il punto che si vuole mettere in evidenza, con riferimento all’attualità, è che in tutte le operazioni esplorative compiute si è sempre evitato l’approccio critico e autocritico a proposito delle soluzioni di volta in volta adottate o prospettate.

I segnali di una insofferenza di una parte dell’elettorato cattolico verso la linea moderata della Dc si ebbero, con le iniziative delle Acli, nelle seconda metà degli anni ’60. Accanto alle Acli si schierò, con procedura autonoma, l’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet, promotore della “scelta religiosa”. Questa sembrò prevalere nel grande convegno del 1976 su “Evangelizzazione e promozione umana”, nel quale si adombrò una prospettiva di pluralismo delle scelte politiche dei credenti all’interno di alcuni parametri metodologici volti a garantire un’omogeneità di riferimenti.

Ma quell’impostazione fu travolta dal sopravvenire dell’ondata neoidentitaria egemonizzata da Comunione e Liberazione e sempre più patrocinata dalla guida della CEI con la parola d’ordine dei “valori non negoziabili”, un argine etico eretto mentre la politica (berlusconiana) affermava ovunque il suprematismo di mercato.

Un continuo annaspare

Da allora è stato un continuo annaspare con escogitazioni che, di volta in volta, sembrano riproporsi come nuove, mentre hanno già subito un collaudo negativo. È il caso dei vari tentativi di “fare rete” tra le opere cattoliche (“Retinopera” si chiamò l’operazione che ebbe una propaggine politica detta “Teodem” e, successivamente, cercò sbocco nelle collocazioni elettorali patrocinate negli incontri di Todi a ridosso delle elezioni del 2013.

Oggi si invoca una ripresa di iniziativa dei cattolici ma, saggiamente, si avverte che non si vuol dar vita ad un nuovo partito. Come invocare Sturzo e nel contempo negarlo.

Il fatto è che, prima di ogni scelta, bisognerebbe operare una ricognizione sullo stato di salute delle varie realtà cattoliche, associative e non, anche per misurarne l’effettiva reattività dopo decenni di un’abitudine alla subordinazione che può essere diventata un’attitudine.

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