Per una teologia della crisi

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crisi governo

Perché ai teologi italiani e oserei dire alla chiesa italiana e ai suoi pastori non importa nulla della crisi politica, sociale, culturale, che vive il Paese?

Forse questo silenzio assordante (a parte l’ovvio richiamo al ruolo del presidente della repubblica) è motivato dalla paura per i primi di essere accusati di non fare il loro mestiere, decisamente condivisa da chi li vuole rinchiusi nelle università-sacrestie ecclesiastiche a parlare di temi che sembrano molto vicini a quelli del sesso degli angeli o dell’ombelico di Adamo di medievale memoria.

Per i vescovi si tratta, invece, della paura di essere accusati di “ingerenza” nelle questioni politiche, di quello che sembrano continuare a pensare come un altro stato. Eppure, la crisi ci appartiene, non può non interpellarci e non può non richiedere una presenza profetica nel dibattito pubblico di queste giornate. Personalmente ho cercato nel numero di Avvenire di oggi, martedì 26 gennaio (pag. 3), di riflettere e far riflettere sulla necessità di passare dalla paura dell’evitare alla speranza del progettare.

Non mancano nella saggistica teologica contemporanea riflessioni sulla crisi e le sue opportunità, ma si tratta sempre o di riferimenti generici o di crisi di altri tempi, vissute da altri protagonisti.

Il primo e principale motivo di percepire la valenza teologica del momento che viviamo sta proprio nel declinare la virtù della speranza, concreta, forse utopica, ma urgente e decisiva proprio in tali circostanze. La necessità di non relegare la speranza fra “virtù teologali”, che abiteremmo un mondo altro ed avulso, i cui abitanti sarebbero cittadini di una Castalia culturale, inaccessibile ed elitaria, include l’impegno ad offrire progetti e prospettive, che soprattutto il laicato cattolico dovrebbe offrire a questa nostra Italia.

Laici, se ci siete, battete un colpo! Non restate rinchiusi nei vostri movimenti o associazioni a discutere di questioni di lana caprina e a porre in atto dibattiti intellettualistici o talvolta a rivendicare ruoli clericali, quasi che il mondo dipenda da essi.

Un secondo orizzonte lo individuo nella necessità dell’esercizio della “carità intellettuale”, richiamando la “caccia della sapienza”, cara a Nicolò Cusano. Di qui, a mio avviso, la necessità per i vescovi italiani di rimettere a tema, con urgenza, rinnovato spirito profetico e decisa parresia, quello che in tempi non cronologicamente lontani, ma abissalmente distanti, si denominava “progetto culturale”.

Perché ne abbiamo paura? Certo le modalità di tale iniziativa, per molti aspetti feconda, vanno ripensate, purificate, ma in versione rinnovata, rilanciate. Quando in parlamento risuona la parola “persona”, sembra quasi di assistere a uno slogan, messo lì nel disperato tentativo di offrire un orizzonte ideale a scelte pragmatistiche e utilitaristiche. Siamo invece di fronte a un patrimonio politico e culturale, che ha dato vita al nostro dettato costituzionale, e che non possiamo non abitare, partecipando al dibattito e offrendo come credenti il nostro contributo, tale da riprendere la vitalità delle origini cristiane e di quelle della repubblica.

Credo che attivare un processo di riflessione sul tema della “persona fra natura e cultura” costituisca una pista di lavoro intorno alla quale raccogliere energie e competenze del mondo cattolico italiano, non solo di livello accademico, ma anche così come si manifesta e si rende presente nella cosiddetta “cultura diffusa”.

Mentre giustamente ci si preoccupa da un lato del culto, dall’altro dell’esercizio della carità temporale (compiti sacrosanti che non vanno mai abbandonati o relativizzati), altrettanto giustamente bisognerà impegnarci nella costituzione di gruppi di lavoro e di riflessione, che, a partire dal tema indicato, possano parlare al Paese, declinando proposte concrete e di alto, ma non disincarnato livello.

La Conferenza Episcopale, coi suoi organismi preposti in particolare alle attività educative e culturali, le associazioni teologiche, i media cattolici, i singoli cultori del sapere della fede non possono restare spettatori di una vicenda che ci interpella e ci coinvolge se non come cristiani, almeno come cittadini. Si tratta di una “scelta morale” come quella di vaccinarci, perché discende dalla nostra sequela del Verbo incarnato.

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3 Commenti

  1. Massimo Naro 28 gennaio 2021
  2. Alessandro Paolino 28 gennaio 2021
  3. +Antonio Staglianò 27 gennaio 2021

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