I vescovi giapponesi: “Dieci giorni per la pace”

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Ten days for Peace” (Dieci giorni per la pace) è l’iniziativa che ogni anno, in questi giorni di agosto, i vescovi del Giappone lanciano da 30 anni per ricordare le vittime dei bombardamenti atomici di Hiroshima e di Nagasaki, avvenuti il 6 e il 9 agosto 1945. L’iniziativa è nata dopo l’appello alla riconciliazione che Giovanni Paolo II aveva lanciato il 25 febbraio 1981 proprio da Hiroshima.

L’arcivescovo di Nagasaki, Joseph Mitsuaki Takami, presidente della Conferenza episcopale giapponese, nel suo messaggio, ha sottolineato quanto sia importante non dimenticare questi avvenimenti che rimarranno scolpiti tragicamente per sempre nella memoria dell’umanità, affinché non abbiano mai più a ripetersi. «I gravi conflitti regionali – scrive – il terrorismo, la minaccia delle armi nucleari, i problemi dei rifugiati, le varie forme di discriminazione, le disparità economiche continuano a minacciare la pace delle persone in tutto il mondo». E ha chiesto nuovamente la messa al bando delle armi nucleari, ricordando come le Nazioni Unite abbiano adottato il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, ratificato però da pochi Paesi. La deterrenza – ha sottolineato il vescovo – «è un tentativo di mantenere la pace per mezzo delle armi, ma, accrescendo i fattori di conflitto come l’ostilità, la reciproca sfiducia e i conflitti di interessi, gradualmente si rompono i fondamenti della riconciliazione, della pace e della comprensione reciproca».

Il 6 e il 9 agosto 1945

Per ricordare tutto l’orrore di quegli eventi, occorre ritornare brevemente a quei tragici giorni. In Europa, la guerra era terminata l’8 maggio 1945 con la resa della Germania nazista. Il Giappone, alleato della Germania, invece aveva deciso di continuare a combattere e di resistere fino alla fine. Questa determinazione si concretizzò nella sanguinosissima battaglia di Okinawa, iniziata nel mese di aprile e terminata, con la sua conquista da parte delle truppe alleate, nel mese di giugno. In quegli scontri, furono oltre 14.000 i soldati morti tra le forze alleate e più di 77.000 tra i militari giapponesi, oltre alla perdita di circa 100 mila civili.

Le forze alleate avevano in mente un piano di invasione del Giappone su larga scala, ma facendo i calcoli risultava che un’operazione del genere sarebbe costata circa un milione di morti, oltre a 100 mila vittime civili giapponesi.

Gli strateghi allora ripiegarono sul progetto alternativo, chiamato “Manhattan Project” dal luogo dove si stava elaborando, su cui erano impegnati da anni scienziati americani, inglesi ed europei, molti dei quali fuggiti dalla Germania, dall’Italia e da altre nazioni fasciste. Da Manhattan il progetto fu poi proseguito a Los Alamos, conosciuta poi come la culla della bomba atomica, e in varie altre località degli Stati Uniti.

La ricerca fu condotta nel più assoluto segreto. Furono impiegati due diversi materiali nucleari: l’uranio 235 e il plutonio 239. Con 64 chilogrammi di uranio 235, altamente arricchito, fu creata la bomba nucleare chiamata eufemisticamente “Little Boy” ( il ragazzino), mentre con il plutonio 239 fu costruita la bomba denominata “Fat Man” (il grassone). E il 16 luglio 1945, ad Alamogordo (New Mexico), fu compiuto il primo test mondiale della bomba atomica, dando così inizio all’era nucleare della storia.

Hiroshima – 6 agosto

Come si sa, le armi si producono per usarle. E ciò avvenne quasi subito dopo. In quell’epoca, Hiroshima era una città di 350 mila abitanti, fino ad allora non ancora toccata dalla guerra. Era un centro costiero dove sorgevano importanti fabbriche manifatturiere e militari. Si calcola che in città stanziassero anche circa 40 mila militari. Forse per questa o per altre ragioni fu scelta come primo bersaglio per un attacco atomico.

La mattina del 6 agosto un bombardiere B-29, chiamato Enola Gay (dal nome della madre del pilota, il colonnello Paul Tibbets) decollò dall’isola Tinia nell’arcipelago delle Marianne, con a bordo il suo “Little Boy”. Alle 8,15, giunto sul luogo, sganciò sulla città ignara di Hiroshima la bomba all’altezza di 580 metri. Un fungo mostruoso di fuoco e caligine si innalzò sulla città; lo scoppio enorme distrusse in un attimo gran parte degli edifici provocando 45 mila morti; altri 19 mila morirono nei quattro mesi successivi in seguito alle radiazioni.

La rivista americana Life descrisse così la scena: «Nelle ondate successive all’esplosione i corpi delle persone furono terribilmente squeezed (strizzati) e i loro organi interni straziati». Praticamente tutti gli abitanti nel raggio di 6.500 piedi rimasero uccisi o seriamente feriti e gli edifici furono ridotti in macerie.

Nagasaki – 9 agosto

Stranamente, la distruzione di Hiroshima non provocò la resa del Giappone, come gli Alleati si aspettavano. Gli strateghi scelsero allora un nuovo bersaglio per una seconda bomba. Tra le città prese di mira figurava al primo posto la città-fortezza di Kokura.

La mattina del 6 agosto un altro bombardiere B-29 decollò sempre dall’isola Tinia alla volta di questa città, portando a bordo il suo “Fat Man”, una bomba al plutonio. Siccome però l’area era coperta da dense nubi, colpì Nagasaki, una città portuale ricca di importanti stabilimenti manifatturieri, come per es. la Mitsubishi Steel, di fabbriche d’armi, in particolare per la costruzione di navi da guerra, e industrie militari.

La bomba esplose poco dopo le 11 del mattino distruggendo gran parte della città e provocando 40 mila morti. Ma, nel corso dell’anno, altre 80 mila persone morirono in seguito alle radiazioni. E più della metà degli edifici furono ridotti ad un cumulo di rovine.

Il numero esatto dei morti a causa dei bombardamenti di Hiroshima e di Nagasaki non è però mai stato conosciuto. La World Nuclear Organization parla di almeno 103 mila morti in seguito alla scoppio delle bombe e alle radiazioni. A questi bisogna aggiungere anche un alto numero di morti di feti e di malformazioni tra i sopravissuti.

L’imperatore Hirohito

Sei giorni dopo il bombardamento di Nagasaki, il 15 agosto, l’imperatore giapponese Hirohito annunciò la resa incondizionata, firmata il giorno prima. La guerra era così finita.

Il corrispondente del New York Times, il giorno dopo l’attacco a Hiroshima, scrisse: «Ieri l’uomo ha scatenato l’atomo per distruggere l’uomo, aprendo un nuovo capitolo della storia umana, un capitolo in cui l’inquietante, l’incognito, l’orribile diventano cosa banale e ovvia».

Dopo la vittoria, ci furono dei festeggiamenti, ma una volta attutiti, cominciò a svilupparsi nel mondo un intenso dibattito sull’uso delle armi atomiche; un dibattito che continua ancor oggi. E molti scienziati responsabili del “Progetto Manhattan”, spaventati dalle devastazioni senza precedenti nella storia, fondarono la Federation of Atomic Scientist, un’organizzazione che continua a impegnarsi contro la proliferazione nucleare.

Non dimenticare, ma impegnarsi per il futuro

A distanza di 73 anni da quegli avvenimenti è tempo non solo di ricordare, ma di impegnarsi per il futuro. È quanto ha detto Giovanni Paolo II, durante la visita nel 1981 al “Peace memorial” di Hiroshima: «Il ricordo è un “bene” perché significa “impegnarsi per il futuro”, “per la pace” e “rinnovare la nostra fede nell’uomo, nella sua capacità di fare ciò che è buono, nella sua libertà di scegliere ciò che è giusto”. È un ricordo che deve appartenere a tutti, ma in particolare a “coloro che amano la vita sulla terra” e che “devono esortare i governi […] ad agire in armonia con le richieste di pace”. La “pace deve essere sempre il fine, la pace deve essere perseguita e difesa in ogni circostanza”».

Ma ricordare – ha proseguito il papa – «serve anche a impedire che la guerra arrechi ancora danni perché la presenza di armamenti atomici e la loro continua produzione indicano che vi è un desiderio di essere pronti per la guerra ed essere pronti vuol dire essere in grado di iniziarla; stanno altresì a significare che sussiste il rischio che in qualunque momento, in qualunque luogo, in qualunque modo, qualcuno potrebbe mettere in moto il terribile meccanismo della distruzione generale».

Anche papa Francesco ha espresso più volte la sua preoccupazione per l’uso di queste armi, auspicando «un disarmo integrale». Settant’anni fa, – affermava il 9 agosto del 2015 – […] avvennero i tremendi bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki. A distanza di tanto tempo, questo tragico evento suscita ancora orrore e ripulsione. Esso è diventato il simbolo dello smisurato potere distruttivo dell’uomo quando fa un uso distorto dei progressi della scienza e della tecnica, e costituisce un monito perenne all’umanità, affinché ripudi per sempre la guerra e bandisca le armi nucleari e ogni arma di distruzione di massa».

E ancora nel 2017, quando, il 2 dicembre, sul volo di ritorno dal Bangladesh, ha denunciato con preoccupazione i rischi attuali: «Oggi – ha detto – siamo al limite della liceità di avere le armi nucleari. Perché? Perché oggi, con l’arsenale nucleare così sofisticato, si rischia la distruzione dell’umanità, o almeno di gran parte dell’umanità».

Dieci giorni per la pace

La fotografia dei bambini di Nagasaki di Joseph Roger O’Donnell

Il bambino di Nagasaki

Ma, nella memoria, ancor più forte delle parole è espressivo un suo gesto. Nel gennaio scorso, in volo verso il Cile, prima tappa del suo 22° viaggio apostolico, a colloquio con i giornalisti, dopo avere detto che un incidente può innescare una guerra nucleare, distribuì loro una foto simbolo. Si tratta dell’istantanea, scattata dallo statunitense Joseph Roger O’Donnell, inviato dopo le esplosioni nucleari nelle due città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Si vedono due bambini: uno sembra dormire sulle spalle dell’altro. In realtà è morto. «È un bambino che porta sulle spalle il suo fratellino morto e aspetta il turno davanti al forno crematorio a Nagasaki, dopo la bomba. Mi sono commosso quando l’ho vista e ho pensato di farla stampare e darvela perché un’immagine del genere commuove più di mille parole».

Ancor oggi si muore

L’iniziativa dei vescovi giapponesi “Dieci giorni per la pace” che si ripete ogni anno – come sottolinea padre Andrea Lembo – superiore provinciale dell’Istituto Missioni Estere (Pime), in un’intervista a Vatican News del 6 agosto scorso – è necessaria sia per far conoscere alle giovani generazioni quanto è accaduto durante la seconda guerra mondiale, sia anche per la loro formazione. «L’iniziativa riguarda tutte le diocesi del Giappone e coinvolge anche le altre religioni. Tutti qui sentono forte il problema del nucleare anche perché il Paese è scosso – con le dovute differenze – dal recente incidente di Fukushima. Poi c’è anche il problema della vicina Corea del Nord che fa pensare molto». «È necessario far capire ai giovani quali sono le conseguenze dei conflitti. Io porto i ragazzi ad Okinawa, città nella quale si sente molto la presenza militare americana. Lì essi vedono come si vive con le armi accanto in nome – diciamo così – della pace».

Padre Andrea ricorda che oggi si muore ancora per le conseguenze delle bombe. «Il numero dei morti a causa dell’atomica è a tutt’oggi incerto – spiega – ed è una cosa che fa impressione. In Giappone questa ricorrenza è molto sentita perché è una ferita aperta nella vita di tante famiglie. I media, in queste ore, fanno conoscere la storia di tanti sopravvissuti. È importante però che si capisca che la pace si costruisce ogni giorno nella relazione con gli altri, una relazione che deve sempre essere all’insegna della comprensione e del rispetto».

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