80° Francesco: Pietro, non Costantino

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1. Fra le molte chiamate di Bergoglio spicca quella alla sinodalità

Francesco, nei quasi quattro anni del suo servizio papale, s’è posto, con ogni evidenza, alla scuola di san Bernardo che, vedendo il suo ex suddito, Eugenio III, vestito di seta e coperto di ori, lo biasimò dicendogli che somigliava più a Costantino che a san Pietro.[1]

Volendo somigliare più a Pietro che a Costantino, papa Bergoglio sta sviluppando una sinodalità anzitutto con il linguaggio dei gesti che rende la figura del papa più accoglibile dai “Fratelli separati: «L’impegno a edificare una Chiesa sinodale […] – ha detto – è gravido di implicazioni ecumeniche» (Discorso al sinodo: 17.10.2015).

Bella è la domanda di p. Congar a questo punto: «Non sarebbe ora, non se ne trarrebbe ogni beneficio a “scuotere la polvere imperiale che si è depositata, a partire da Costantino, sul trono di san Pietro?”. Le parole sono di Giovanni XXIII».[2]

Papa Francesco si sta sforzando di farlo e stimola, di fatto, anche la teologia ad aiutarlo in questo.

Infatti, la novità prima dell’odierna teologia, quando si dedica al tema del papato, consiste nello sforzo d’individuarne una forma d’esercizio in termini più corrispondenti alla volontà di Gesù e allo stile della Chiesa antica.

Si cerca, perciò, di curare una più viva memoria storica circa le caratteristiche del servizio petrino nel primo millennio, che appare assai diverso da quello del secondo. Si cerca, altresì, di avere una più alta attenzione ecumenica e, da ultimo, di ripensare quel servizio tenendo presente la felice riscoperta della sinodalità all’interno della Chiesa cattolica.

2. Non vive da principe ma da fratello e padre

Tornando ai paragoni, va affermato che, come non è un imperatore, così il papa non è neppure un principe o un monarca… “felicemente regnante” (del papa non sarebbe meglio dire: “umilmente serviente”?). Comunque: «Il papa non è simile a un monarca assoluto, perché egli non è l’unico organo che dà alla Chiesa la sua forma e la sua unità cattolica, come accadrebbe se il suo compito non dovesse essere condiviso con i vescovi. Non è simile a un monarca costituzionale, perché l’episcopato non è una specie di parlamento che decide in proprio e poi obbliga il papa ad apporre la sua firma alle proprie deliberazioni».[3]

Allora, come chiamare il papa? È presto detto: come Francesco sta mostrando dall’inizio del suo servizio petrino, perciò con parole che sappiano echeggiare il mistero di Cristo, col quale il papa ha legami sacramentali e col quale condivide i tre uffici (tria munera) in una maniera particolarmente intima, ma anche con parole che sappiano rendere conto del mistero della Chiesa, con la quale il papa ha legami di figliolanza (è suo figlio), di fraternità (è fratello di tutti i battezzati e dei vescovi), di paternità (è padre di tutti i figli della Chiesa, anche dei… fratelli vescovi).

3. Grazie, Francesco, perché hai riposto l’amore agli ultimi
fra le permanenti urgenze cristiane

A nessun vescovo, a nessun teologo, a nessun frate, a nessuna suora, a nessun laico o laica suscita la prudente e saggia idea che il martellante richiamo di papa Bergoglio non nasca né da una sua personale ubbia, né dall’eco in lui forte della situazione sociale latino-americana, né dalle scelte pastorali privilegiate operate nelle Chiese di quella plaga geografica del pianeta ricca di poveri?

Credo proprio di no.

A nessuno mai rode il ricordo evangelico che Gesù abbia posto questa carità, così severamente orientata, come criterio del giudizio?

Ancora credo di no.

In nessuno mai tormenta davvero il sospetto che – come ha scritto san Giovanni della Croce: «La sera della nostra vita saremo giudicati sull’amore»,[4] – sia qualcosa che attiene al cuore del Vangelo e della missione?

Credo proprio di no, ma su questo è necessario meditare con più cuore e più passione cristiana.

4. Francesco, grazie per la tua enciclica mai scritta

Il magistero pastorale e missionario di Francesco ci chiede di vincere la tentazione di collocare il tema degli ultimi nell’elenco dei doveri morali ed etici che abbiamo come cristiani singoli e come comunità parrocchiali: a ben riflettere, forse è da prendere in alta considerazione l’idea che papa Francesco ci stia richiamando a uno dei gangli teologici che formano il cuore del Vangelo, che aiutano a individuare l’essenza del cristianesimo, che individuano un elemento essenziale dell’essere cristiani e dell’essere Chiesa.

Questo insegnamento – diffuso come semi in tanti pronunciamenti umili del papa argentino – costituisce la sua più grande “Lettera enciclica”, mai scritta, ma alla quale, per quel “fiuto” di fede che egli ci riconosce,[5] possiamo permetterci di dare un titolo che ci aiuta a ricordare il suo Giubileo della misericordia: Vultus pauperum, vultus Christi.

Auguri, teologici ed ecclesiali, Francesco!

5. Una promessa a Francesco: camminare sempre con lui sul “ponte di Adamo”

L’immagine simbolica del cosiddetto “ponte di Adamo”[6] significa il passaggio della “carovana solidale”. Questa immagine serve per dire che è importante disporre di un ponte facile, a portata di tutti, necessario da essere attraversato dai cristiani nella vita di testimonianza e di missione, in compagnia con uomini di altra fede, di altra cultura e di altro sentire.

Quel ponte, formato solo da una lingua di terra ricoperto da un velo d’acqua, è perciò l’eloquente simbolo dell’essenziale, ossia di ciò che non deve mai mancare e che papa Francesco indica con due parole universali: fratellanza e sorellanza. «La terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli»:[7] è il clima di vita e di fede che egli si augura per i discepoli di Gesù.

Egli afferma che Dio suscita questo clima buono stando nascostamente presente in mezzo agli uomini e «promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata».[8]

Vivendo con fratelli e sorelle di creazione e con fratelli e sorelle di fede e di battesimo, si fa l’esperienza di una mistica da chiamare sorprendente, perché non conosciuta e non curata né dai teologi né dai maestri di spirito né dai pastoralisti. «Oggi, – leggiamo nella EG – quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio».[9]

Passare sul “ponte di Adamo” significa, perciò, compiere – non escludendo alcuno – cammini di bene, di condivisione, di giustizia, di bellezza, di pace, di solidarietà, di ricerca di verità, di perdono.


[1] Cf. Bernardo di Clairvaux, La considerazione a Eugenio Papa, IV, 3, 6.
[2] Y. Congar, Per una Chiesa serva e povera, Qiqajon, Magnano (BI) 2014, p. 128.
[3] S. Dianich, Una Chiesa per vivere, Dehoniane, Bologna 2010, p. 63.
[4] San Giovanni della Croce, Avisos y sentencias, 57.
[5] Francesco, Discorso per la commemorazione del 50° dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi (17.10.2015), in L’Osservatore Romano, 18.10.2015, p. 5. Da ora in poi = Discorso al Sinodo.
[6] Forse uno dei più sorprendenti indizi di una civiltà fiorita prima del cataclisma di 13 mila anni (il Diluvio universale) è il cosiddetto “Ponte di Adamo”, una stretta striscia di terra lunga 30 km che collega l’India meridionale con lo Sri Lanka. È un ponte senza struttura costruito dalla natura o con un parziale intervento umano.
[7] Evangelii gaudium (EG), n. 183.
[8] EG, n. 71.
[9] EG, n. 87.

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