I 90 anni di dom Pedro, profeta e testimone

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La Catalogna, terra natale di Pedro Casaldáliga y Pla, ha il privilegio di possedere, in un unico volume, cinque diari del suo illustre figlio, scritti in oltre trent’anni di “fedeltà ribelle” e con il titolo suggestivo: “Una vita tra i poveri”. I titoli dei diari sono:

Credo nella giustizia e nella speranza
– La morte che dà significato alla mia vita
– In fedeltà ribelle
– Nicaragua, lotta e profezia
– Quando i giorni danno da pensare

Dom Pedro descrive ai suoi, che lo hanno sempre accompagnato da lontano, le strade che ha percorso, i fiumi che ha navigato, i sogni che ha sognato, le lotte che ha combattuto come un moderno Chisciotte sfidando mulini che non sono a vento.

Si presenta con la stessa vena poetica e la mordente ironia del cavaliere della Mancha. La sua signora è la stessa di Francesco d’Assisi, la signora Povertà, evangelica e militante, a favore dei più piccoli:

No tener nada,
No llevar nada,
No poder nada,
No pedir nada
No callar nada.
Solamente el Evangelio, como una faca afilada.
Y el llanto y la risa en la mirada.
Y la mano extendida y apretada.
Y la vida, a caballo, dada.
Y este sol y estos ríos y esta tierra comprada,
Para testigos de la Revolución estallada.
Y “mais nada!”

(Non avere nulla,
Non portare nulla,
Non potere nulla,
Non chiedere nulla
Non tacere nulla
Solo il Vangelo, come una lama affilata.
E il pianto e il riso nello sguardo.
E la mano tesa e stretta.
E la vita, a cavallo, donata.
E questo sole e questi fiumi e questa terra comprata,
Per i testimoni della Rivoluzione esplosa.
E “nient’altro”!)

I diari sono opere affascinanti e stimolanti. Pagina dopo pagina, l’autore ci prende per mano per seguirlo attraverso sentieri e vie interiori, paesaggi ed eventi, con lo sguardo nuovo di chi li ha vissuti e percorsi, condividendo, di fronte agli avvenimenti e alle persone, sentimenti e speranze, lacrime e preghiere, tenerezza e indignazione.

«Maledetto sia il latifondo,
tranne gli occhi delle sue mucche»

Correva l’anno 1971, già sotto la pesante censura e la paura degli anni di piombo della dittatura militare, aggravati ed esacerbati dall’«Ato Institucional» n. 5 (1968/12/13) che aveva sospeso lo stato di diritto e le garanzie individuali nel paese, aveva chiuso il Congresso e messo lo Stato e il suo apparato di repressione in guerra contro la società civile, le sue istituzioni, i suoi cittadini e le loro libertà.

Cadde come un fulmine nel cielo azzurro la coraggiosa lettera pastorale “Una Chiesa nell’Amazzonia in guerra contro il latifondo e l’emarginazione sociale”, scritta da uno sconosciuto prelato che viveva già dal 1968 come missionario nel nord del Mato Grosso e prendeva possesso anche della ignorata e lontana Prelatura di São Félix do Araguaia: 150.000 chilometri quadrati di campi e boschi scarsamente popolati e altamente ambiti, che costeggiavano il fiume Araguaia, lambendo i margini della foresta amazzonica.

Foresta amazzonica

La censura militare percepì immediatamente la forza esplosiva di quel rapporto, vietandone la diffusione.

La lettera denunciava gli abusi in atto da sempre: la terra illegalmente accaparrata, concentrata e monopolizzata; l’abissale disuguaglianza tra i proprietari del terreno e coloro che sopravvivevano in una terra d’altri; gli abusi del lavoro da schiavi e del genocidio indigeno.

Sotto il manto della modernità, con l’“incentivo fiscale” di imposte non raccolte da quando erano state applicate all’Amazzonia, con generosi prestiti delle banche ufficiali, imprese multinazionali e case automobilistiche si sono impossessate con la violenza della terra dei proprietari e degli indigeni, facendo rivivere il vecchio “coronelismo” (regime dei colonnelli, ndt) all’interno del Brasile, con i suoi sgherri e pistoleri, l’assenza dello stato di diritto e della giustizia e la nota connivenza delle autorità nel coprire i loro crimini.

Inviato dal mio vescovo di Lins per non essere arrestato dai militari, tornai all’Università di Lovanio, dove mi sono diplomato in scienze sociali. Mi è arrivata tra le mani una copia della lettera di dom Pedro Casaldáliga, verso la fine del 1971. La lessi durante la notte, d’un solo fiato, e la mattina seguente, poco conoscendo di quel vescovo coraggioso, ero già nell’appartamento di una giovane coppia belga per tradurla insieme in francese e diffonderla in fotocopia tra gli studenti, gli esuli politici e i settori della Chiesa interessati al Brasile e all’America Latina.

La lettera univa insieme il rigore dei dati statistici e il racconto vivace delle storie di vita e di episodi che denunciavano la violenza del moderno latifondo dei negozianti del legname, delle fattorie di bestiame, dei frodatori di terre. Riscattava la sofferenza, ma anche la tenace resistenza con sprazzi di speranza degli indios, dei proprietari, delle nascenti comunità di base che trovavano sostegno nella prelatura e nel loro vescovo.

La lettera riprendeva anche per i nostri giorni la parola coraggiosa dei profeti e l’opzione radicale di Gesù per i poveri e i piccoli e per la loro liberazione.

Era come se risuonasse in Amazzonia il grido del profeta Isaia, in quei sette “guai” con cui egli minacciava i potenti del suo tempo: «Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio, e così restate soli ad abitare nella terra» (Is 5,8).

La maledizione del profeta trovò una sicura eco nella celebre invettiva di dom Pedro: «Maledetti tutti i recinti!».

Una Chiesa in Amazzonia in conflitto con il latifondo e l’emarginazione” annunciava senza giri di parole il progetto di vita e il sogno della Chiesa e della società che animavano la Prelatura e il suo nuovo vescovo: «Dopo tre anni di missione in questo nord del Mato Grosso, cercando di scoprire i segni del tempi e del luogo, assieme agli altri sacerdoti, religiosi e laici, nella parola, nel silenzio, nel dolore e nella vita della gente, ora, in occasione della mia consacrazione episcopale, sento il bisogno e il dovere di condividere pubblicamente, sia a livello di Chiesa nazionale, sia in termini di coscienza pubblica, la scoperta angosciosa e urgente.

Per far conoscere questa Chiesa alle altre Chiese sorelle, alla Chiesa. Per chiedere e rendere possibile, anche a partire da questa Chiesa, una maggiore comunione, una collegialità più reale, una corresponsabilità più decisa. Forse anche per risvegliare e suscitare risposte e azioni concrete…

Nessuna Chiesa può vivere isolata. Ogni Chiesa è universale, nella comunione di una medesima speranza e nel comune servizio dell’amore di Cristo che libera e salva. “Le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità”»(LG 13).

La “notorietà” dei progetti e delle realizzazioni che l’Amazzonia sta vivendo, e l’opzione prioritaria che la stessa Chiesa del Brasile ha compiuto a questo scopo, attraverso la CNBB (Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile, ndt), giustificano ancora di più questa mia dichiarazione pubblica.

Se la prima missione del vescovo è di essere “profeta” e “il profeta è colui che dice la verità davanti a tutto un popolo”; se essere vescovo vuol dire essere voce di coloro che non hanno voce (card. Marti), non potrei, sinceramente, rimanere in silenzio ricevendo la pienezza del servizio sacerdotale».

Nella lettera erano già contenuti in germe il clamore e l’intuizione che avrebbe portato la Chiesa del Brasile a istituire, poco dopo, due dei suoi organismi che meglio traducessero in pratica l’impegno di una Chiesa solidale con le lotte popolari: il Consiglio indigenista missionario (CIMI, 1972) e la Commissione pastorale della terra (CPT, 1975).

«Siamo di nuovo alla testimonianza,
san Romero d’America, pastore e martire nostro!
Romero di una pace, quasi impossibile, in questa terra in guerra»

L’11 ottobre 1976, nel villaggio di Ribeirão Bonito, il vescovo e il missionario gesuita p. João Bosco Penido Burnier si recarono alla prigione locale dove si sentivano le grida di due donne arrestate, la signora Margarida Barbosa e Dona Santana. La prima era stata picchiata e torturata e la seconda, senza riguardo al bambino appena nato, fu violentata dai soldati della Polizia Militare del Mato Grosso.

Quando intervennero a favore di queste donne, il vescovo e il prete furono offesi e insultati. Il padre fu colpito in faccia con un pugno e con il calcio del fucile e con un proiettile dum-dum in testa, poiché, essendo alto e corpulento, aveva una faccia da vescovo più che non il gracile Pedro Casaldáliga.

Portato agonizzante a Goiânia, p. Burnier morì il giorno successivo, 12 ottobre, giorno funesto per i popoli indigeni del continente e giorno felice per la Spagna e l’Europa che avevano iniziato nel 1492 la colonizzazione di queste terre.

América India todavía
– madre en la Libertad y en la Sabiduría!
América, ayer española
– romántica novia!
América Livre Nueva mañana
– hermana!

(America India ancora
– madre nella Libertà e nella Saggezza!
America, ieri spagnola
– romantica promessa sposa!
America Libera Nuova giornata
– sorella!).

 A Ribeirão Bonito, terminata la messa del settimo giorno, la gente indignata distrusse e bruciò la stazione di polizia, luogo di pestaggi, ingiustizie e atrocità a servizio dei potenti contro i piccoli del luogo. Sulle rovine piantarono una croce, la Croce della Liberazione, e poi eressero una cappella. In seguito fu costruito il Santuario dei Martiri del Cammino, con riquadri decorativi di Cerezo Barredo, per ricordare quel martirio e le migliaia di altri martiri che hanno insanguinato la “Nostra America” negli anni ’70 e ’80, tra cui l’arcivescovo di El Salvador, Oscar Romero, insieme a tanti inviati della Parola, a tanti indigeni guatemaltechi, come il padre e altri famigliari di Rigoberta Menchú, religiosi e religiose, catechisti e madri di famiglia.

Questi martíri non sono affatto cessati. Si ripetono ogni volta che si alzano delle voci, e si sono levate, a difesa della giustizia, dei poveri e anche dello stesso ambiente, come abbiamo visto sopra, con l’infame assassinio ad Anapu, nel sud del Pará, della missionaria nordamericana, naturalizzata brasiliana, sr. Dorothy Stang, già tutta bianca di capelli, col suo sorriso largo e sereno, nei suoi 73 anni di vita dedita a un ministero di giustizia e di pace. Si era dedicata alla difesa degli agricoltori residenti in base a un progetto di gestione sostenibile della foresta amazzonica, contro l’interesse degli sfruttatori del legname e degli accaparratori di terre.

Il Pellegrinaggio dei Martiri del Cammino, che ha luogo ogni anno a luglio, è diventato un punto di riferimento nazionale e internazionale, in risposta all’avvertimento di Casaldáliga: «Sto dicendo da molto tempo che un popolo o una Chiesa che dimenticano i loro martiri non meritano di sopravvivere».

Nel 25° del martirio di p. João Bosco, spiegò il significato del santuario e del pellegrinaggio: «In questo santuario, unico nel suo genere, viene accolta ecumenicamente la testimonianza di tutti coloro che hanno dato la vita per la causa maggiore di Dio, che è anche la causa più grande della stessa “Umanità”».

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«Maria della speranza,
Perché hai dato alla luce la Vita»

Tre giorni di bus, prima sull’asfalto e poi su strade polverose, mi hanno portato da Lins, São Paulo, a São Félix do Araguaia, nel Mato Grosso, per una settimana di studio con gli operatori pastorali della Prelatura.

All’arrivo, sono stato accolto dal vescovo sulla porta della sua modesta abitazione, uguale a tutte le altre in quella lingua di terra. Camminava con la sua inseparabile avaiana, con gli stessi infraditi dei poveri della sua Prelatura, camicia bianca fluttuante fuori dei pantaloni, sorriso largo e accogliente, dietro a spesse lenti per aver compromesso la vista per il troppo leggere alla luce di piccole lucerne e lanterne.

Andò subito ad attingere acqua dal pozzo perché mi lavassi e corse in cucina a cuocere un uovo e a riscaldare del riso. Dovetti insistere per aiutarlo a lavare il piatto, il bicchiere e la padella.

Il letto, messo a mia disposizione nella sua piccola abitazione, era accanto alla sua stanza. Andava presto a riposare, perché la luce tremolante e incerta della lucerna gli stancava presto gli occhi. Si alzava anche di buon mattino, al canto dei galli, prima del sorgere del sole.

Vivere circondato da minacce di morte e da pistoleri attorno alla casa non alteravano la sua routine e la sua serenità. La porta anteriore che dava sulla strada e l’altra sul cortile retrostante rimanevano sempre aperte, senza barriere o cancelli, e le finestre ben spalancate, perché entrasse l’aria del mattino, la luce del giorno, il canto degli uccelli e il profumo dei frutti maturi.

I ciechi, gli storpi, i passanti mattinieri entravano senza chiedere il permesso per dire buon giorno e salutare il vescovo che stava seduto al tavolo della cucina, interrompendo la sua preghiera, la lettura o lo scritto.

I bambini correvano molto presto nel cortile, prima degli altri, per raccogliere i frutti caduti da un jambo frondoso (melarosa) e scappare velocemente con il loro prezioso bottino.

Non era difficile cogliere il vescovo mentre lavava la sua biancheria, lasciandola in ammollo in una piccola bacinella.

Molto prima dell’ondata femminista e l’attenzione alle relazioni giuste e uguali di genere, a São Félix do Araguaia, i lavori domestici non pesavano tutti sulle suore che vivevano nella casa del vescovo, né su altre donne dell’équipe pastorale.

Spazzare e pulire la casa, cucinare e lavare piatti e pentole, lavare e stirare erano compiti divisi fraternamente fra tutti nella casa, senza privilegi per alcuni o sovraccarico per altri.

Casaldáliga vive con uguale passione e coerenza le grandi lotte libertarie nel campo economico, sociale, politico e culturale e le piccole-grandi rivoluzioni della vita quotidiana, reinventando, in una società gerarchizzata e maschilista, relazioni di uguaglianza e di fratellanza, di sororità e di tenerezza, “di fraternura”, come amava chiamarle Leonardo Boff, nella sua instancabile ricerca di dare un nome al volto materno di Dio e a relazioni attraversate da reciprocità e premura, affetto e attenzione tra le persone.

Non è quindi strano che tante Marie, madrine e ragazze-adolescenti, guide di comunità, del rosario, delle preghiere e delle novene di benedizione, levatrici, madri, nonne e valorose combattenti compaiano nelle pagine dei suoi diari e nei versi delle sue poesie, accanto a Maria di Nazareth, madre di Gesù e fedele compagna nel cammino del popolo.

America Amerindia

America Amerindia, ancora nella passione,
un giorno la tua morte avrà la Risurrezione.
I poveri di questa terra vogliono ideare
questa Terra-senza-mali, che viene ogni mattina.

Nella vita della gente, gioie e dolori, piccole vittorie e inevitabili inciampi, lacrime e risate si traducono in invocazione a Dio, in preghiera di lode, di lamento o di intercessione. Tutta la natura, nell’intuizione sicura del salmista, narra le meraviglie di Dio: «I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento» (Sal 19,2).

Pedro Casaldáliga, in sintonia con queste preghiere della gente e della natura, in Brasile o in Nicaragua, nelle città o luoghi deserti del sertâo, nei santuari o nelle riunioni del CEB, ha aiutato tutti a pregare meglio e in maniera più bella.

Maestro nell’arte di conversare con Dio, ci ha offerto preghiere poetiche e profetiche, con il vigore e la bellezza degli antichi salmi, tradotti nel linguaggio e nella sensibilità di oggi.

Andò in cerca anche di una liturgia in sintonia con le radici della gente, rinnovata ma ugualmente viva e inculturata.

La «Messa della Terra senza Mali» con i suoi versi e quelli di Pedro Tierra, scosse le volte della cattedrale di São Paulo il 22 aprile 1979, trascinate dal ritmo e dal canto poderoso della musica degli indigeni del continente, durante una concelebrazione che riunì 40 vescovi attorno all’altare, con molto fervore e speranza.

Martin Coplas, argentino di ascendenza quéchua e aymara, musicò la lunga poesia di penitenza e di risurrezione, di memoria e di impegno, facendo nuovamente parlare «i flauti ammutoliti delle Ande» e «il tamburo del cuore intimorito del suo popolo», come commentò Pedro Casaldáliga.

Nelle parole di Pedro Tierra, «la “Messa della Terra senza Mali” cominciò a germogliare sulla pietra delle rovine di San Miguel a Rio Grande do Sul, terra di frontiera tra l’America spagnola e portoghese, queste due Americhe che sono una sola. America divisa dal fuoco dei conquistatori. Il tempio semidistrutto di San Miguel è un monumento che testimonia il massacro dei guarani, testimone della resistenza e della grandezza delle popolazioni indigene di tutta l’America. Le pietre annerite dal fuoco e dai secoli raccontano con il loro terribile silenzio il passaggio dei pionieri, il passaggio devastante degli eserciti del Portogallo e della Spagna. La storia della resistenza dei popoli indigeni ai conquistatori ha fatto nascere nel sangue questa “Messa della Terra senza Mali”. La marcia delle popolazioni indigene del continente, alla ricerca del loro volto e della loro identità, trasse dalle stragi sepolte dalla storia ufficiale tutta la forza della sua speranza in un continente liberato».

dom Pedro Casaldaliga

Casaldáliga ricorda che la prima ispirazione fu quella di una «messa missionaria», riguardante le missioni dei sette popoli guarani nel Rio Grande do Sul: «Così mi chiedeva il fratello marista Antonio Cechin, gaucho “pentito”, che ha rivisitato la Storia “male raccontata”, cronista appassionato del cammino del popolo, catechista della Liberazione, anch’egli perseguitato “nel Tempio e nel Pretorio”.

Finì col diventare una messa dei popoli indigeni del continente. «[…] così diversi nella loro cultura e nelle loro conquiste, furono ridotti, dai popoli conquistatori, alla categoria anonima e umiliata di “indios”. Conosciuti solo come indios, furono come tali depredati e confinati nei manuali e nelle vetrine. La loro memoria, quindi, doveva essere celebrata in una Messa, una e comune, un solo sangue e in una uguale speranza: la Messa Amerindia».

Questo abbraccio ai popoli indigeni del continente fu coltivato e approfondito nel fedele e diuturno pascere il popolo Tapirapé, sulle rive del fiume con lo stesso nome e oggi sparso in nuovi villaggi delle sue terre riconquistate e nell’accompagnamento, non sempre facile, della popolazione Caraja, nei suoi villaggi arroccati su alti burroni e sulle isole del fiume Araguaia o anche della popolazione Javaé sull’isola di Bananal.

Le Piccole Sorelle di Gesù hanno preceduto dom Pedro nell’attenzione al popolo Tapirapé, dove erano giunte molto giovani dalla Francia nel lontano 1952, incespicando nel portoghese e senza conoscere una sola parola di Tapirapé.

Seppero trovare la silenziosa strada dell’inculturazione solidale. Dom Pedro e il CIMI poi hanno aggiunto la lotta per la demarcazione delle terre dei Tapirapé, e Luis ed Eunice la sfida di realizzare un’educazione bilingue, mettendo per iscritto la memoria e la storia, il dizionario e la grammatica di quel coraggioso popolo Tupi sperduto e isolato in un mare di popoli di ceppo Macro-gê.

La passione e la compassione solidale con le lotte del popolo nero nella sua saga di fughe e di ribellioni diedero origine ad un’altra grande celebrazione della liberazione, la “Messa dei Quilombo”, con musica del cantante e compositore nero Milton Nascimento.

Nella sua presentazione, dom Pedro scrisse: «Nel nome di un dio pensato bianco e colonizzatore, che le nazioni cristiane hanno adorato come fosse il Dio e Padre di nostro Signore Gesù Cristo, milioni di neri furono assoggettati per secoli alla schiavitù, alla disperazione e alla morte. In Brasile, in America, nella madre Africa, nel mondo.

Deportati come “oggetti da museo” dall’ancestrale Aruanda (un luogo chimerico, paradiso della libertà perduta, ndt), riempirono di mano d’opera a basso costo le piantagioni di canna da zucchero e le miniere e i villaggi di schiavi non inculturati, clandestini, inavvicinabili (e riempiono ancora di subindividui – per i signori bianchi e le signore bianche e la legge dei bianchi – le cucine, i bordelli, le favelas, i bassifondi, le carceri).

Ma un giorno, una notte, arrivarono i Quilombo, e tra loro, il Sinai Nero di Palmares, e nacque, da Palmares, il Mosè nero, Zumbi. E la libertà impossibile e l’identità proibita fiorirono “nel nome del Dio di tutti i nomi“, “che fece la carne, bianca e nera, rossa di sangue”.

Venendo dal “profondo della terra”, “dalla carne della frusta”, “dall’esilio della vita”, i neri decisero di forzare “«i nuovi Albori” e riconquistare Palmares e tornare ad Aruanda».

La messa fu celebrata per la prima volta dall’arcivescovo nero di Paraíba, dom José Maria Pires, accompagnato da dom Helder Camara, sulla spianata di fronte al convento del Carmine a Recife, dove era stata esposta, come scherno nei confronti degli schiavi, la testa del capo, Zumbi dei Palmares. Per settanta anni il Quilombo resistette agli invasori dei capitani della savana, alle truppe di Bahia, Pernambuco e portoghesi, fino a quando fu sconfitto nel 1695 dagli indios e dai mamelucchi del pioniere populista di San Paolo, Domingos Jorge Velho.

Sul significato della messa e della sua utopia militante Casaldáliga scrisse: «Pedro Tierra e io abbiamo già prestato la nostra parola, rabbiosamente fraterna, alla causa dei popoli indigeni, con la “Messa della Terra senza Mali”. Ora prestiamo la stessa parola alla causa del popolo nero con questa “Messa dei Quilombo”.

È tempo di cantare il Quilombo che viene: è tempo di celebrare la “Messa dei Quilombo”, in ribelle speranza, con tutti i “neri d’Africa, gli africani d’America, i neri del mondo”, nell’Alleanza con tutti i poveri della Terra».

Non si fece attendere l’intervento della Congregazione per i sacramenti e il culto divino per proibire la celebrazione delle due messe, affermando che «[… ] la celebrazione eucaristica deve essere solo memoriale della morte e risurrezione del Signore e non una rivendicazione di qualsiasi gruppo umano e razziale».

Molti vescovi brasiliani insistettero con Roma affinché il divieto fosse revocato, dimostrando che quasi la metà della popolazione brasiliana era di origine africana e che era urgente attuare il processo di inculturazione sia della liturgia che della teologia e della prassi pastorale della Chiesa del Brasile.

Roma rimase irremovibile nel suo rifiuto, ritenendo insufficienti gli argomenti della Commissione liturgica della CNBB per giustificare la celebrazione della “Messa dei Quilombo” […] «anche se è da apprezzare lo zelo per il pentimento e la riparazione che desidera esprimere, questo Dicastero non può fare a meno di esprimere un giudizio e di non permettere in futuro operazioni simili alla cosiddetta “Messa dei Quilombo”».

Il divieto di celebrare la messa non impedì che il canto di apertura della “Messa dei Quilombo” – “Estamos chegando” – fosse incorporato nella liturgia delle comunità per la bellezza dei suoi testi e la forza della sua musicalità e del ritmo:

«Veniamo dal fondo della terra,
veniamo dal ventre della notte,
della carne frusta siamo,
siamo venuti per ricordare».

La lode a Maria – Negra Mariama – divenne un’invocazione obbligatoria negli incontri e nelle celebrazioni:

«Mariama,
Iya, Iya, ô,
Mãe do Bom Senhor!
Maria Mulata,
Maria daquela
colônia favela,
que foi Nazaré.
Morena formosa,
Mater dolorosa,
Sinhá vitoriosa,
Rosário dos pretos mistérios da Fè.
[…] Mucama Senhora e Mãe do Senhor
Canta sobre o Morro tua Profecia,
que derruba os ricos e os grandes, Maria.
Ergue os submetidos, marca os renegados.
samba na alegria dos pés congregados.
Encoraja os gritos, acende os olhares,
ajunta os escravos em novos Palmares.
Desce novamente às redes da vida
do teu Povo Negro, Negra Aparecida!!!».

(Mariama,
Iya, Iya, ô,
Madre del Buon Dio!
Maria mulatta,
Maria di quella
colonia, favela,
che fu Nazareth.
Morena formosa,
Mater dolorosa,
Sinhá (Signora) vittoriosa,
Rosario dei neri misteri della fede.
…Mucama Signora e Madre del Signore
Canta sulla tua collina la tua profezia,
che rovescia i ricchi e i grandi, Maria.
Innalza i sottomessi, recupera i rinnegati.
samba nella gioia dei piedi raccolti.
Incoraggia le grida, accendi gli sguardi,
riunisci gli schiavi in nuovi Palmares.
Cala di nuovo le reti della vita
del tuo Popolo Nero, Nera Aparecida!!!).

Da parte sua, privata della celebrazione eucaristica, la “Messa della Terra senza Mali” fu cantata gioiosamente e festosamente dagli indigeni di oltre trenta popolazioni e da migliaia di voci dei rappresentanti delle CEB (Comunità di base, ndt) di tutto il Brasile, dagli invitati dell’America Latina e dei Caraibi e dalla gente del luogo, nella memorabile serata di apertura del 10° congresso interecclesiale delle CEB, a Ilhéus nel Bahia, nel luglio 2000. Alla fine, un vescovo locale e una pastora evangelica danzarono felicemente sul palco della celebrazione e, insieme, benedissero e licenziarono l’assemblea.

A Santo Angelo, RS, nel luogo di una delle riduzioni dei Sette Popoli, quattro anni fa, decine di cori delle Chiese luterane, cattoliche e battiste di Rio Grande do Sul si riunirono per cantare, davanti a una grande folla emozionata, la “Messa della Terra senza Mali”. La celebrazione eucaristica si concluse con il canto e la danza dei bambini guarani di quella regione.

Le due messe, nella forza del loro testo e nella bellezza della loro musica, continuano a nutrire quell’impegno principale di Gesù e dei suoi discepoli, nel servizio di una liberazione inculturata di coloro che, nel nostro continente, sono i preferiti di Dio.

«Ahi Nicaragua, Nicaraguita,
fiore più bello del mio desiderio…»

Era il febbraio 1980. Nella TUCA (Teatro dell’Università cattolica, ndt), la grande sala del PUC di San Paolo, ancora segnata sulle sue pareti dal fuoco appiccato dalla repressione militare, in rappresaglia contro l’università, gli studenti e il gran cancelliere, il cardinale dom Paulo Evaristo Arns, era affollata da persone che riempivano tutti gli spazi.

L’Associazione dei teologi del terzo mondo (ASETT) tenne, nel contesto del Congresso internazionale ecumenico di teologia, una nottata di omaggio al Nicaragua, con la presenza del suo nuovo presidente, Daniel Ortega, della comandante Monica Baltodano, del francescano Uriel Molina e di un giovane guerrigliero di una comunità cristiana di Managua. Questi si tolse la blusa e la porse a Pedro Casaldáliga, il quale la adottò immediatamente, dichiarandola sacramento del suo impegno per il popolo e le comunità del Nicaragua e la sua rivoluzione.

Il vescovo suggellava lì, con scandalo dei farisei e dei paurosi, il suo sviscerato impegno per il Nicaragua e, subito dopo, per El Salvador e per tutto il Centroamerica, coinvolto nelle lotte di liberazione, in una feroce repressione interna e in una sanguinosa guerra a bassa intensità promossa dal potere giorno e notte. Quando il Congresso degli Stati Uniti vietò la vendita di armi nella regione, la CIA organizzò il corridoio attraverso il quale le armi e le munizioni nordamericane clandestinamente, via Iran, continuarono ad arrivare in Nicaragua per i “Contra”.

Nel suo diario “In fedeltà ribelle”, dom Pedro, il 12 marzo 1980, scrisse: «Durante il mese di febbraio ho partecipato all’Assemblea generale della CNBB (Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile, ndt), a Itaici, e a San Paolo, e al Congresso internazionale ecumenico di teologia, il CIET.

Nell’assemblea episcopale abbiamo lanciato un documento importante: “Chiesa e problemi della terra”. È il documento più preciso e socialmente impegnato che la CNBB, nel suo insieme, abbia mai prodotto.

Il congresso di teologia è stato per me un’esperienza straordinaria, unica nel suo genere. Per la convivenza dell’America Latina, Asia e Africa in una sola aspirazione liberatrice. Per l’incontro di persone amabili. Una lunghissima lista di grandi e carissimi nomi. Per il fatto Nicaragua, così vivo nel congresso. Per gli indios, neri e asiatici che rivendicavano la loro identità e portavano i doni del loro spirito martiriale e contemplativo. Per il confronto dei teologi su basi critiche. Per il clima di preghiera che abbiamo vissuto in quei giorni. E per il documento finale che traccia molto chiaramente alcune linee per la pastorale e la spiritualità della liberazione.

Il Vaticano – più concretamente il cardinale Baggio – e il Celam non furono molto d’accordo con il congresso. Il cardinale di San Paolo, dom Pablo Evaristo, accolse il congresso con libertà e dignità.

L’ecumenismo fu un’esperienza forte nel CIET. E crebbe in me il desiderio, il bisogno vitale di promuovere sempre l’ecumenismo.

Ho preso molti appunti nel congresso. Basterebbero per un libro. Ho progettato molte poesie, nel calore di tante testimonianze e di tante chiaroveggenze. Le raccoglierò in un manipolo di canzoni, confidenze e trilli di flauto creolo».

Da quel momento dom Pedro, sulla linea di una collegialità che lo fece sentire corresponsabile del cammino di tutta la Chiesa, iniziò a dedicare ogni anno un periodo di tempo alla visita pastorale delle comunità cristiane colpite dalla guerra in Nicaragua e in altri paesi dell’America Centrale.

L’impatto delle sue visite in Nicaragua, le messe con le madri di figli caduti in combattimento, che i sacerdoti contrari alla rivoluzione si rifiutavano di celebrare, il dolore per tanto sangue e tante lacrime, indussero Pedro Casaldáliga a digiunare per diversi anni di seguito, ogni venerdì, fino a quando la pace fosse tornata nella regione.

La sua situazione si complicò dopo la convulsa visita del papa in Nicaragua e il suo scontro con la gente durante l’imponente messa celebrata a Managua. Fu invitato a recarsi a Roma per la visita ad limina e a sospendere i suoi viaggi in Centro America.

Scrisse a Giovanni Paolo II, prima della sua visita obbligatoria a Roma: «So della sua sofferenza durante il suo viaggio in Nicaragua. Anche così, sento il mio dovere di confidarle l’impressione – che molti condividono – che i suoi consulenti e il suo atteggiamento non hanno contribuito a far sì che questo viaggio, estremamente delicato e d’altra parte necessario, fosse più gioioso e soprattutto più evangelizzatore. È rimasta una ferita nei cuori di molti nicaraguensi e di molti latinoamericani, come è rimasta nel suo cuore.

L’anno scorso mi trovavo in Nicaragua. Fu la mia prima uscita dal Brasile, dopo diciassette anni di permanenza in questo paese. Per l’amicizia che ho, da tempo, con molti nicaraguensi, attraverso contatti personali o la corrispondenza, ho sentito il bisogno di rendermi io stesso presente, come persona e come vescovo della Chiesa, in un momento di aggressione politica e militare gravissima e di profonda intima sofferenza.

Non intendevo sostituire l’episcopato locale, né manifestare ad esso minore stima. Ho pensato, tuttavia, di potere e persino di dover aiutare quel popolo e quella Chiesa. Così l’ho scritto ai signori vescovi del Nicaragua, non appena sono arrivato lì. Ho cercato di parlare personalmente con qualcuno di loro, ma non sono stato ricevuto. La gerarchia nicaraguense è schierata apertamente da una parte; dall’altra ci sono migliaia di cristiani che appartengono anch’essi alla Chiesa.

Credo sinceramente che la nostra Chiesa – mi sento anch’io Chiesa del Nicaragua, come cristiano e vescovo della Chiesa – non stia dando ufficialmente in quel martoriato paese, con ripercussioni negative in tutta l’America Centrale, i Caraibi e l’America Latina, la testimonianza che dovrebbe dare: condannando l’aggressione, sostenendo l’autodeterminazione di quella gente, consolando le madri dei caduti e celebrando, nella speranza, la morte violenta di tanti fratelli, cattolici in grande maggioranza».

E con coraggiosa franchezza, il piccolo vescovo dell’interno sperduto dell’Amazzonia brasiliana continuò a interpellare il papa durante quegli anni duri della guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che si trasformava in guerra calda nei vari quadranti del mondo, dove le due superpotenze si affrontavano ideologicamente e militarmente, includendo la Polonia di Wojtyla e il sindacato Solidarnosc: «Solo con il socialismo e il sandinismo la Chiesa non può dialogare criticamente, sì, come criticamente deve dialogare con la realtà umana? Potrà la Chiesa smettere di parlare con la storia? Ha dialogato con l’impero romano, con il feudalesimo, e ha dialogato liberamente con la borghesia e il capitalismo, molte volte in maniera acritica, come il giudizio storico successivo ha riconosciuto. Non dialoga con l’amministrazione Reagan? L’impero nordamericano merita più considerazione da parte della Chiesa del doloroso processo con cui il piccolo Nicaragua pretende di essere se stesso, finalmente, rischiando e anche sbagliando, ma di essere se stesso?

Il pericolo del comunismo non giustifica la nostra omissione o la nostra connivenza con il capitalismo».

I Diari accompagnano il lettore attraverso tutte le lotte e i sogni degli oltre tre decenni che agitarono in modo particolare il Brasile e l’America Latina, le comunità di base e le Chiese e tanti uomini e donne di buona volontà, amanti della giustizia e della pace, e che trovano in Pedro Casaldáliga un fedele compagno delle loro inquietudini e ricerche.

Il suo cuore grande e generoso, aperto al grande mondo, è rimasto sempre ormeggiato nelle anse del fiume Araguaia e nell’umile servizio umano e pastorale del piccolo e lottatore popolo della sua Prelatura, modello di una comunità ecclesiale e di molti ministeri non ordinati accolti e incoraggiati.

Il giornale della Prelatura, l’Alvorada, così come le circolari del vescovo Casaldáliga sono sempre attesi da coloro che, all’interno e all’esterno del paese, si aspettano una parola sicura nelle ore incerte, una luce in mezzo a eventi contraddittori, un raggio di speranza e di incoraggiamento nei momenti di stanchezza e di scoraggiamento.

Chi dimenticherà slogan tanto chiari e luminosi come “Globalizzare la solidarietà”, “Camminare con una Speranza Militante”; “Umanizzare l’umanità”?

Riguardo a Gesù di Nazaret, Natanaele domandò incredulo: «da Nazaret può venire qualcosa di buono?». Molti sarebbero tentati di rischiare la stessa domanda riguardo a São Félix di Araguaia e constaterebbero, con sorpresa, quante cose buone hanno avuto in quel luogo la loro origine e ispirazione o hanno trovato sostegno e stimolo: dalle comunità ecclesiali di base alla teologia della liberazione, dalla solidarietà continentale all’Agenda Latino-Americana, dalla spiritualità della liberazione alla grande mobilitazione dei 500 anni; dai movimenti di collegamento delle popolazioni indigene al movimento afroamericano.

Grazie, dom Pedro Casaldáliga, perché hai registrato nelle pagine del tuo diario, come dom Helder Camara nelle sue lettere alla famiglia di Maceió, il tuo percorso interiore in costante dialogo con la vita e la storia dei nostri giorni. Tu hai lasciato che lo Spirito ti guidasse, che il Vangelo ti ispirasse, senza peccare di omissione o di viltà e mettendo sempre la giustizia e la solidarietà con i più piccoli, come luci per i tuoi passi e per il cammino di tanti di noi che impariamo a conoscerti, a rispettarti, ad ammirarti e a seguirti.

Le parole di Alceu Amoroso Lima, il quale ha scritto la prefazione alla sua Antologia Retirante e ha paragonato dom Pedro a José de Anchieta (missionario gesuita brasiliano, ndt), servano da chiusura a questa presentazione:

«E tutte queste poesie scaturite dal profondo di una vita di totale rinuncia e sacrificio, in cui la Bellezza nasce dall’amore e dalla verità, sono nutrite dalla Fede in Dio e nella Libertà, come ha detto scrivendo a sua madre nella lontana Catalogna:

«Se mi battezzi, ancora una volta, un giorno,
con l’acqua dei singhiozzi e della memoria,
con il fuoco della morte e della gloria …
di’ a Dio e al mondo
che mi avete messo il nome
di Pedro-Libertà.

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