I beati martiri d’Algeria, “ospiti dei fratelli islamici”

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«Quando la Chiesa canonizza dei testimoni uccisi perché cristiani intende – come per tutte le proclamazioni di santità – riconoscere l’evangelicità del loro vissuto e indicarli come esempi all’insieme della comunità dei credenti. È la vita dei martiri, dunque, e non la loro morte a essere celebrata sugli altari: la loro vita spesa fino all’estremo, vissuta sulle orme della vita di Gesù di Nazareth, accolta nella vita senza fine del Signore risorto», così scrive Enzo Bianchi nella prefazione ad un testo per i tipi dell’Editrice Missionaria (Thomas Georgeon – Christophe Henning La nostra morte non ci appartiene. La storia dei 19 martiri d’Algeria, Emi 2018, pp. 208, € 16,00) dedicato alla figura di quelli che sono stati accomunati come “Martiri d’Algeria” e che saranno beatificati a Orano il giorno dell’Immacolata dal card. Giovanni Angelo Becciu, prefetto della Congregazione per le cause dei santi.

Papa Francesco ha riconosciuto il 26 gennaio scorso il martirio di un vescovo, di sette monaci trappisti e di 11 religiosi e religiose uccisi da estremisti in Algeria negli anni ’90 e ha firmato il decreto per le cause del vescovo Pierre Lucien Claverie di Orano, Algeria e di 18 compagni, aprendo la strada alla loro beatificazione.

I 19 uomini e donne sono morti tra il 1993 e il 1996, mentre il Paese affacciato sul Mediterraneo era dilaniato da un conflitto armato durato ben 10 anni tra le forze governative e gruppi di estremisti ribelli islamici: una guerra fratricida che ha provocato la morte di decine di migliaia di persone. «Questi beati – scrive papa Francesco nella lettera a Becciu – hanno perdonato i loro assassini, mostrando di amare più la vita eterna».

Il vescovo Claverie e il suo autista furono uccisi da una bomba telecomandata e i sette monaci trappisti, che erano stati rapiti dal monastero di Tibhirine sulle montagne dell’Atlante, furono decapitati da un gruppo di terroristi islamici addestrati dalla rete di al-Qaida, gli altri attraversarono diverse vicende tutte col medesimo triste epilogo.

Monsignor Claverie è il primo nome che figura nella lista dei nuovi beati. Dopo di lui ci sono altri 18 religiosi: il marista Henri Vergès e suor Paul Hélène de Saint Raymond, uccisi nel ’94 nella biblioteca della Casbah; le agostiniane suor Esther Paniagua Alonso e suor Caridad Alvarez Martin, colpite da una raffica di proiettili nel quartiere popolare di Babel Oued ad Algeri; i quattro padri bianchi Jean Chevillard, Charles Deckers, Alain Dieulangard e Christian Chessel, assassinati tra le montagne di Tizi Ouzou, nella regione della Cabilia; suor Bibiane e suor Angèle-Marie, delle suore di Nostra Signora degli Apostoli, uccise ad Algeri, e anche suor Odette Prévost, Piccola sorella del Sacro Cuore. A loro vanno aggiunti quelli che sono conosciuti come “i monaci di Tibhirine” dal nome del loro monastero: i padri Christian de Chergé, Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard, Christophe Lebreton, Luc Dochier, Michel Fleury e Paul Favre-Miville.

Una luminosa testimonianza di missione come dono di sé all’altro

La storia dei monaci è stata raccontata anche nel film di Xavier Beauvois Des hommes et des Dieux (Uomini di Dio), che aveva vinto il primo premio al Festival di Cannes nel 2010, ma sono numerosi i testi che narrano la loro vicenda in diverse lingue e culture e il Testamento del priore del monastero trappista di Notre-Dame de l’Atlas in Algeria, frére Christian de Chergé, rappresenta una luminosa testimonianza di religioso che ha affidato l’intera sua vita al Signore, in qualunque circostanza si fosse trovato a spenderla, ma sempre carico di quell’amore verso il prossimo che per lui era l’unico comandamento sull’esempio evangelico. Nel caso di questi 19 uomini e donne, fino alla fine testimoni in mezzo al loro popolo d’Algeria. «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese… potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo», nella convinzione che alla Gerusalemme celeste confluiranno un giorno i credenti di tutte le religioni della terra, come indicato dal Concilio.

Il postulatore della causa, padre Thomas Georgeon, in un’intervista del 2016, alla richiesta riguardo al loro messaggio per l’oggi diceva: «È difficile fare un confronto tra la situazione nella quale si verificò l’assassinio dei 19 servi di Dio in Algeria tra il 1994 e il 1996 e la drammatica attualità del Medio Oriente. Il contesto politico-religioso non è lo stesso e bisogna evitare facili conclusioni. La presenza dei cristiani in Siria, in Iraq, in Egitto risale, ininterrotta, al tempo della nascita del cristianesimo. Il messaggio dei 19 religiosi e religiose, membri di una Chiesa “ospite”, è chiaro: bisogna approfondire il senso della presenza della Chiesa, vale a dire dimostrare che è possibile una coesistenza fraterna e rispettosa tra le diverse religioni. È il Vangelo della Pace che viene annunciato e manifestato nel mondo musulmano, ma non abbiamo nessuna certezza di quanto può essere recepito, in quanto “l’altro” può restare sordo e cieco di fronte a questa testimonianza, come accade dove le comunità cristiane del Medio Oriente sono attualmente martirizzate. In Algeria non è stato così, qui molti musulmani hanno una sorta di venerazione per i 19 martiri».

Ma gli premeva anche sottolineare il rischio che quel martirio potesse condurre ad una sorta di fobia antislamica: «La violenza, l’ignoranza, il qualunquismo spesso sono tali da portare a credere che la salvezza arrivi dalla fobia nei confronti dell’islam. D’altro canto, non si deve cadere in un ingenuo evangelismo. I fratelli di Tibhirine hanno fatto precise scelte nel loro avanzamento personale e comunitario: la scelta di vivere la vita monastica in un mondo musulmano (dopo l’indipendenza dell’Algeria e la partenza dei cristiani), la scelta di non lasciarsi strumentalizzare dalle opposte fazioni durante la guerra degli anni 1990, la scelta di restare fedeli al Cristo, alla sua chiamata, di restare fedeli al loro radicamento, ai loro vicini che non avevano avuto la possibilità di scegliere se restare o partire. La scelta, infine, di vivere l’inter-cultura e l’inter-religiosità concretamente. Si tratta dell’esempio di uomini che non hanno mai pensato di ripiegarsi su loro stessi. Quando si conosce l’attuale peso del ripiegamento che incombe in Occidente come in Oriente, si percepisce meglio la forza del loro esempio».

“Ospiti nella casa dell’islam”

Che il rischio di un atteggiamento antislamico fosse ben presente nella mente e nel comportamento dei martiri lo testimonia un’espressione citata dal domenicano inglese, Timothy Radcliffe, nella prefazione ad un altro libro dell’Editrice Missionaria che racconta l’amicizia fra il vescovo Pierre (anch’egli dell’ordine dei predicatori) e Mohamed, giovane musulmano e martire insieme a lui come suo autista (Adrien Candiard, Pierre e Mohamed. Algeria, due martiri dell’amicizia”, Emi 2018, pp. 88, € 9,50), un libro che si legge come un romanzo dato che l’autore, anch’egli domenicano, non ha mancato di aggiungere la sua immaginazione e scrive, a nome dei due, delle pagine di intensa spiritualità.

A seguito dell’uccisione dei monaci di Tibhirine, Radcliffe, allora Maestro dell’Ordine, andò a far visita ai confratelli domenicani in Algeria accompagnato da Jean-Jacques Pérennés, membro del Consiglio generale dell’Ordine e che aveva vissuto per molti anni in Algeria, allo scopo di rassicurarli qualsiasi decisione avessero preso, se lasciare il Paese o restare. E là il vescovo Pierre aveva ripetuto quanto andava dicendo quando si recava a Roma alla casa generalizia di Santa Sabina: «Siamo ospiti nella casa dell’islam». Il 2 agosto 1996 l’omicidio e, quando padre Timothy arrivò a Orano per i funerali, incontrò nella casa sventrata dall’esplosione una suora che stava ancora raccogliendo premurosamente i resti dei corpi dilaniati con un cucchiaio…

Ma resterà nella memoria di tanti quell’espressione pronunciata da una donna musulmana al termine delle esequie: «Era anche il mio vescovo!», perché Claverie veniva considerato tale anche dei musulmani che aveva aiutato e protetto.

Il vescovo venne sepolto con una stola con la scritta: “Dio è amore”, «un amore – scrive Radcliffe – che egli offrì a tanti amici musulmani, per esempio al giovane Mohamed, e che tanti diedero a lui». Un esempio di autentica fraternità testimoniata e vissuta. Oggi la tomba è visitata da pellegrini di entrambe le fedi che portano fiori in continuazione, luogo di pellegrinaggio di entrambe le religioni, «è come un giardino nel deserto, che promette una nuova vita».

«Nulla temo di più del settarismo e del fanatismo soprattutto religioso – diceva padre Pierre –. La nostra storia cristiana ne porta numerose tracce, e non possiamo non guardare senza preoccupazione allo sviluppo dei movimenti integralisti. Già dividono la Chiesa. Nell’islam, sotto il nome dei Fratelli musulmani, sembrano allargare il loro raggio d’influenza … non dobbiamo però rifiutare l’islam solo perché dei fanatici lo servono male. Milioni di algerini vivono umilmente questa fede, ne traggono il coraggio per vivere un’esistenza spesso difficile; ne traggono la speranza nel giudizio di Dio e in un domani migliore, ne traggono la forza per lottare quotidianamente contro ogni asservimento. Diamo fiducia a queste migliaia di anonimi musulmani che più di noi soffrono ogni sorta di eccessi. Per quel che mi riguarda – e non senza temere momenti difficili in futuro – nutro la convinzione che il fanatismo si condanna per i suoi stessi eccessi. Ne facciamo la triste esperienza anche nella Chiesa cattolica, quando essa si fa persecutrice, quando cade nelle mani del potere dei dottori della legge ciechi e senza intelligenza, o quando viene strumentalizzata dal potere».

Che il prossimo beato Pierre Claverie e i suoi 18 compagni possano illuminare anche il nostro presente e il nostro futuro.

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Un commento

  1. Chauvet Jacquet Christiane 26 dicembre 2018

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