Ceronetti: l’elzeviro e il Codice

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guido ceronetti

Era nato a Torino, e non poteva che nascere lì, nel 1927, e ha preso congedo da questa vita stamattina dal suo romitaggio di Cetona, conquistando inaspettatamente le cronache (almeno quelle radiofoniche di Radio Tre, anche se forse non fanno testo…).

La scomparsa di Guido Ceronetti, scrittore, poeta, traduttore, filosofo ed elzevirista, naturalmente per La Stampa e poi sul Corsera, priva la nostra cultura di un personaggio unico, felicemente – e letteralmente – indescrivibile, che ha scelto costantemente di confrontarsi poco con l’attualità e semmai di sferzarne le pessime abitudini (il che gli ha fatto bene, accanto al suo storico vegetarianesimo, a giudicare dall’età patriarcale che aveva raggiunto) e molto di più con gli antichi. Fossero essi i lirici della classicità latina, da Catullo a Giovenale passando per gli epigrammi di Marziale, oppure i poeti della Bibbia. Con una predilezione in questo caso, ça va sans dire, per gli irregolari un po’ stralunati, per Giobbe, Qohélet e il Cantico dei Cantici in primis, senza disdegnare incursioni verso un profeta a tutto tondo come Isaia e una piccola biblioteca in versi come il Salterio.

GerusAtene

Quattro anni fa era stato pubblicato il suo carteggio, dal 1968 al 1996, con un altro grande eccentrico appartato come l’amico Sergio Quinzio (con un titolo, quinziano, bellissimo: Un tentativo di colmare l’abisso, Adelphi 2014): e varrebbe la pena di riprenderle in mano, quelle epistole sorprendenti e inattuali, soprattutto oggi che il presente appare così poco consolante e così, vorrei dire, cattivo.

Entrambi, tanto Ceronetti quanto Quinzio, vi si dicono rassegnati a che l’uomo della nostra modernità non abbia bisogno di Dio. Ma se l’antimodernismo ceronettiano risulta fortemente caratterizzato in senso estetico, poetico e metafisico fino a spingersi ad augurarsi di poter salvare uno spazio del sacro come radice di senso ultima rispetto alla distruzione di ogni senso rappresentato dal delirio tecnicistico, l’antimodernismo di Quinzio appare invece radicalmente tragico: egli vede nel moderno la realizzazione anticristiana del cristianesimo, il suo (inevitabile?) trasformarsi, per sopravvivere, in etica del mondo, in messaggio universalistico, il suo inevitabile morire per potersi salvare… Atene e Gerusalemme rappresentano per i due sodali la polarità cruciale della storia. Con Ceronetti che si proclama cittadino di GerusAtene, mentre per Quinzio il mondo si muove non nel pacificato incontro, ma nel conflitto lacerante fra tali due poli antitetici. E quanto più il cristianesimo si sposta in direzione di Atene, tanto più si allontana da se stesso, dalla sua radice ebraica.

Non a caso Ceronetti, di rimando, ammette tutto il proprio disgusto verso dall’idea stessa della resurrezione, cioè da ciò nella cui attesa si trova invece per Quinzio l’unica fonte di senso possibile per le nostre povere esistenze. Così, per cercare di cogliere quanto ci mancherà lo sguardo disincantato di Ceronetti, sarà opportuno mettersi a ricercare le sue fulminanti traduzioni della Bibbia, forse oggi un po’ dimenticate ma che in epoche ormai lontane – i suoi Salmi uscirono nel 1967, il primo dei suoi tre Qohélet o l’Ecclesiaste tre anni dopo – consentirono a tanti lettori di accostare, senza troppi timori reverenziali, testi immortali che neppure sospettavano stessero dentro il canone biblico.

Sì, perché Ceronetti, che comprensibilmente non fu mai particolarmente amato dagli esegeti ufficiali, aveva il dono di riuscire a giocare sapientemente con il registro biblico, di farlo dialogare senza problemi tanto con le riletture rabbiniche quanto con quelle mistiche medievali, con i poeti moderni ma anche con Dante e Spinoza, quando ancora la consapevolezza del fatto che la Scrittura fosse non solo un testo religioso ma anche il Grande codice della cultura occidentale era appannaggio di ben pochi, alle nostre latitudini.

Basterebbe confrontarsi con il suo Cantico dei Cantici, che egli presenta da subito come il più grande testo d’amore di tutte le letterature; di qualsiasi specie di amore si tratti: sia quello di JHWH e del suo popolo, come vuole la tradizione ebraica, sia quello dell’anima e del suo Dio, come vogliono San Giovanni della Croce e altri mistici, sia quello carnale di uomo e donna, come impone di pensare una lettura immediata del testo… O lo stesso Qohélet, che ci afferrò alla gola sin dal suo incipit (“Un infinito vuoto un infinito niente. Tutto è vuoto niente. Tanto soffrire d’uomo sotto il sole. Che cosa vale?”), per poi aprirci su una sterminata messe di rimandi, da Villon a Guicciardini fino a Leopardi, che per Ceronetti “visse imbevuto di Ecclesiaste, e lunghi Ecclesiasti sono i Canti e le Operette” (cosa di cui ci saremmo impratichiti negli anni a venire grazie alla meravigliosa sensibilità del futuro cardinal Ravasi, ma che in quella stagione poco o punto importava a quanti maneggiavano per lavoro la Bibbia).

Marionette

Da questo punto di vista, è innegabile dover ammettere che Ceronetti è stato un ardimentoso precursore di sentieri che sarebbero stati poi ampiamente battuti, consentendoci di cogliere quanto la Scrittura sia (anche) un gigantesco corpus letterario, il luogo in cui – piaccia o no – viviamo, le nostre personali storie (le location, come è di moda dire con un vocabolo che il Nostro avrebbe aborrito), il contesto in cui siamo cresciuti, il paesaggio culturale che abbiamo respirato e da cui non possiamo prescindere se non al costo di una lacerante rimozione.

Il libro dei libri che per più millenni e in diversi contesti storici ha informato di sé linguaggi, istituzioni, storie collettive e storie personali. E che non va considerato, semmai, roba da preti, che non ci riguarderebbe né direttamente né indirettamente. Nel Pantheon ideale di quanti questi discorsi li hanno praticati in tempi non sospetti, il nome di Ceronetti va messo idealmente – accanto a quelli di Erri De Luca, di Paolo De Benedetti e dello stesso Quinzio – senz’altro ai primi posti.

Certo, senza dimenticare la sua antica passione per le marionette, per la quale ideò nel ’70, assieme alla moglie Erica, il Teatro dei Sensibili: una conferma, in realtà, del suo essere fuori moda, e consapevolmente distante dai luccichii del proprio tempo. Continuando a spiazzarci. Perché, come questo anacoreta postmoderno aveva riportato in uno dei suoi splendidi aforismi, «tutto è dispersione, lacerazione, separazione, rotolare di ruota senza carro, e questo ha nome esilio, o anche mondo».

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