Il cristianesimo profetico di don Giovanni Giorgis

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Martedì 1° marzo, presso la sede della Facoltà teologica di Torino, è stato presentato il libro I passi del mio cammino. Giovanni Giorgis uomo, presbitero, biblista, educatore, a cura di Andrea Lebra, Araba Fenice Editrice, Cuneo 2021, del quale SettimanaNews il 25 luglio 2021 aveva già ospitato una recensione di Bruno Scapin. Riportiamo l’intervento fatto, nel corso della presentazione, da Giovanni Ferretti, presbitero torinese e docente emerito di filosofia teoretica all’Università di Macerata, che di Giovanni Giorgis è stato collega negli anni di insegnamento alla Facoltà teologica di Torino.

Il volume I passi del mio cammino, che Andrea Lebra ha curato su don Giovanni Giorgis e che oggi presentiamo, ne tratteggia in modo vivo e profondo la ricca figura di uomo, presbitero, biblista ed educatore, come annunciato nel sottotitolo.

Le ampie citazioni dai suoi scritti con cui il testo è intessuto, scelte con l’intelligenza di chi ha conosciuto a fondo sia la sua persona sia il suo pensiero partecipandovi con intima sintonia, permettono al lettore di cogliere con immediatezza la figura umana e il modo di pensare e di vivere di don Giorgis, che il libro vuole ricordare e tramandare come preziosa eredità.

L’ho letto con grande interesse, imparando molte cose riguardo alla sua vita, alla sua multiforme attività e, soprattutto, riguardo il suo pensiero teologico, il tono della sua spiritualità, la caratteristica della sua prassi di evangelizzatore.

Dalla lettura, unita ai ricordi che conservo di lui, mi si sono delineati con chiarezza alcuni tratti della visione della fede cristiana che egli ha man mano maturato, di cui è divenuto sempre più convinto e che ha cercato di trasmettere con entusiasmo e dedizione come il ricco tesoro della sua vita e della sua chiesa. Una visione che, per i tempi in cui è vissuto, sia pur nel travaglio preconciliare e postconciliare cui ha partecipato e di cui si è nutrito, ha avuto e ha tuttora – a mio avviso – degli indubbi tratti profetici. In questo mio intervento ne vorrei evidenziare tre, legati rispettivamente alla sua attività

  1. di docente di sacra Scrittura,
  2. di assistente spirituale degli Scout,
  3. di fondatore e animatore dell’associazione “La Tenda dell’Incontro”.
Bibbia e vita: per un cristianesimo non dottrinario ma esperienziale

Don Giorgis, oltre che a Mondovì dal 1951 al 1965, ha insegnato sacra Scrittura nella diocesi di Torino dal 1965 al 1985, prima al Seminario di Rivoli e poi, dal 1972, alla Facoltà teologica di Torino e alla FIST. Allo studio e alla formazione biblica ha dedicato praticamente tutta la vita di prete nei vari campi della sua attività.

Avendo io insegnato filosofia e in parte anche teologia a Rivoli e poi alla Facoltà teologica di Torino più o meno negli stessi anni (1962-1985), l’ho avuto come collega, anche se in verità non ci siamo molto frequentati e conosciuti; sia per la sua indole di persona schiva, sia perché quale incaricato esterno non conviveva con i professori del seminario, sia per la differenza della materia di insegnamento e di età.

Una cosa però ben ricordo di lui, che mi suscitava stima e sintonia: si diceva che insegnasse la Bibbia mettendone in luce i risvolti per la vita (era docente di Antico Testamento, a fianco di don Giuseppe Marocco, e mi pare di ricordare che abbia anche tenuto il corso, almeno un anno, sul Vangelo di Giovanni, sostituendo don Giuseppe Ghiberti, allora titolare di Nuovo Testamento).

Il suo insegnamento della Bibbia era certamente ben aggiornato al metodo “scientifico” storico-critico, che allora stava entrando, non senza resistenze e incomprensioni, nell’insegnamento della teologia. Resistenze ed incomprensioni che – come si sapeva – gli avevano procurato la sospensione dall’insegnamento a Mondovì da parte del vescovo Carlo Maccari.

Per un vescovo poco conciliare e tradizionalista come Maccari, Giorgis risultava troppo moderno e troppo critico, di fatto troppo conciliare.

Per fare un paio di esempi: allora risultava a molti scandaloso dire che personaggi biblici come Tobia e Giobbe non fossero personaggi reali ma letterari o che il Magnificat non fosse scaturito dalla bocca di Maria ma dalla meditazione teologica della prima comunità cristiana fatta propria da Luca.

Ma per don Giorgis, la verità della Bibbia, quale risulta dallo studio serio e convergente dei biblisti competenti, andava detta e non nascosta. Era questione di onestà intellettuale da cui il cristiano e lo studioso non si possono dispensare.

A Torino, con il vescovo Michele Pellegrino, più aperto alle istanze della cultura moderna e soprattutto alle istanze del Concilio anche nel campo degli studi biblici, il metodo scientifico storico-critico non faceva problema, per cui egli potè insegnare senza particolari difficoltà al riguardo nella diocesi di Torino.

Ma anche mettere in luce i risvolti della Bibbia per la vita nell’insegnamento accademico della teologia risultava una novità. Si riteneva, infatti, che una cosa dovesse essere lo studio “scientifico/intellettuale” della Bibbia (che allora si faceva soprattutto in funzione della dogmatica, cioè per offrire la base scritturistica dei dogmi della Chiesa), e altra cosa dovesse essere la sua attualizzazione in funzione della vita, che andava lasciata alla “spiritualità”, ovvero al nutrimento della vita spirituale soggettiva. Donde la deleteria scissione che vigeva tra teologia e vita spirituale, che oggi sappiamo – o dovremmo sapere – devono essere profondamente intrecciate, dato che una teologia che non mostri i suoi risvolti nella vita spirituale rimane una teologia astratta e al limite una semplice ideologia, mentre una spiritualità senza solide basi teologiche rischia di non essere una vera spiritualità cristiana e di perdersi nel soggettivismo intimistico e arbitrario.

Quella scissione era peraltro il sintomo di una visione del cristianesimo prevalentemente “dottrinale”, identificato cioè soprattutto con un sistema di idee scisse dalla vita, di cui non si fa esperienza concreta.

Quando – come nel libro si ricorda – don Giorgis diceva che «la Bibbia deve entrare nel cuore e trasformarsi in vita» (pp. 27-29), egli mostrava invece di avere in mente un cristianesimo non “dottrinario” ma “esperienziale”, che si possa non solo pensare ma sentire come vivificante anche da parte dall’uomo moderno. Una cosa di cui ancora oggi sentiamo la necessità se – come ritengo – ha ragione un acuto teologo come Christoph Theobald il quale osserva che, nell’Europa secolarizzata, il cristianesimo soffre di un «deficit cronico di esperienza nell’annuncio di fede» (Ch. Theobald, L’Europe terre de mission. Vivre et penser la foi dans un espace d’hospitalité messianique, Cerf, Paris 2019, p. 32).

La fede che annunciamo, infatti, troppo spesso non risulta né credibile né tanto meno amabile, perché non è avvertita come qualcosa che incida positivamente nell’esperienza delle persone.

Don Giorgis, in verità, per questa sua visione esperienziale del cristianesimo era debitore della nuova sensibilità teologica, fatta propria e rilanciata dal Concilio, che va sotto il nome, per un verso, di “svolta antropologica” e, per altro verso, di “svolta ermeneutica”.

La “svolta antropologica” metteva infatti in luce che le affermazioni dogmatiche di fede riguardo a Dio hanno senso per noi solo se ci dicono qualcosa che riguarda anche l’uomo; donde la necessità che la Bibbia si colga come rivelante possibilità inedite di vita, come affermava don Giorgis.

E la “svolta ermeneutica” metteva in luce che la nostra interpretazione delle verità di fede deve partire dalle domande che emergono dalla nostra esperienza e quindi anche dalla maturazione culturale della coscienza; donde quello spirito critico con cui don Giorgis sapeva studiare la Bibbia interpretandola alla luce della ragione e della coscienza morale moderna.

In lui si ritrova quindi ben praticato quel circolo di Bibbia e vita che permette di leggere effettivamente la Bibbia come fonte di vita per le donne e gli uomini d’oggi e che rendeva affascinante il suo insegnamento biblico.

La bella citazione di Bonhoeffer, riportata a p. 11 del libro, mi pare illustri bene il senso di questo circolo di Bibbia e vita che don Giorgis ha praticato contribuendo a delineare e a proporre una visione del cristianesimo non dottrinario ma profondamente esperienziale: «Un divino cui non corrisponda una fioritura dell’umano non merita che ad esso ci dedichiamo. Non ci interessa un divino che non faccia fiorire l’umano».

Una citazione, questa, che mi permette di passare, senza soluzione di continuità, al secondo punto che volevo evidenziare.

L’esperienza dello scoutismo: per un cristianesimo non sacrificale e legalistico

Il libro descrive molto bene l’esperienza che don Giorgis ha fatto come assistente degli scout a partire dagli anni 1948-50 dei suoi studi a Roma. E la sintetizza efficacemente con la sua bella affermazione: «Lo scoutismo mi ha allargato il cuore» (p. 35).

Dal contenuto delle pagine dedicate a tale esperienza e dall’insieme del libro ho tratto l’impressione che lo scoutismo abbia dato un contributo essenziale alla sua progressiva conversione da un cristianesimo ancora molto sacrificale e legalistico, quale era quello respirato durante la sua formazione seminaristica a Mondovì e allora prevalente, a un cristianesimo profondamente umano, a servizio della fioritura dell’uomo.

Lo scoutismo si propone infatti di offrire ai giovani un’educazione umana integrale che, ispirandosi al Vangelo e alla universale sapienza umana, sappia formare degli uomini felici e capaci di dare felicità, liberi e al tempo stesso responsabili, non chiusi egoisticamente in sé stessi ma aperti agli altri, alla natura e a Dio.

E il suo metodo, che unisce strettamente l’offerta di idee positive forti e la possibilità farne esperienza nella prassi di vita di gruppo, ha ampiamente mostrato di essere efficace anche nell’interpretazione che don Giorgis ha saputo mettere in atto.

Mi ha colpito, nel libro, la testimonianza, ivi riportata (pp. 45-46), resa il 19 aprile 2015 dal procuratore capo emerito della procura della repubblica presso il tribunale di Cuneo, Alberto Bernardi, in occasione di un incontro organizzato per festeggiare i 90 anni di don Giorgis, che dello scoutismo monregalese, soppresso dal fascismo nel 1928, è stato il ricostruttore nel 1951.

Lo scoutismo – egli attesta – «ci ha resi più felici, più forti, più responsabili, più altruisti».

La Legge scout, in particolare con i suoi primi tre punti: meritare fiducia, essere leali, servire il prossimo, «ce l’abbiamo nel cuore, fa parte del nostro Dna, anche se magari non ci pensiamo e non ce ne rendiamo conto». Magnifica testimonianza di un’educazione giovanile umana e cristiana riuscita perché non semplice infarinatura passeggera di idee infantili che non reggono alla prova della vita e della maturazione culturale, ma in grado di dare un’impronta positiva al Dna spirituale stesso di una persona, e quindi vivificante per tutta la vita.

Orbene, questo cristianesimo umanisticamente positivo, traspare da tutto il pensiero e la prassi di don Giorgis quali emergono dal libro.

L’intervento di Giannino Piana nella seconda parte, dal titolo “L’umanesimo cristiano di don Giovanni Giorgis”, lo mette bene in luce, anche riportando nel sottotitolo l’originale esortazione, coniata da don Giorgis: «Fa’ come Dio, diventa uomo». Un’esortazione che, mentre bene interpreta il senso del mistero cristiano dell’incarnazione di Dio, la rompe con tutta una tradizione di cristianesimo sacrificale e legalistico, avvertito dal pensiero moderno come antiumanistico o alienante l’umano. E ciò senza per nulla perdere la centralità di Dio nella vita dell’uomo, dato che essendo l’uomo definibile come apertura a Dio, relazione con Dio, quanto più egli è se stesso tanto più è in relazione con Dio, finalizzato a Dio. Per cui giustamente l’autore del libro segnala che l’esortazione di Giorgis ha il suo perfetto pendant in quest’altra: «sii uomo, diventa Dio».

Per la critica di don Giorgis alla visione sacrificale del cristianesimo, si possono vedere le sue belle riflessioni sul tema “sofferenza-Dio” riportate alle pp. 92-93. In esse la mentalità sacrificale, che considera la sofferenza come un valore in se stesso, gradito come tale a Dio, e quindi da offrire a Dio per farci dei meriti davanti a lui, è del tutto criticata e superata.

Dio né vuole né mai invia la sofferenza. Quando Gesù l’ha incontrata, non l’ha mai riferita a Dio come sua causa per finalità di punizione o di prova, ma ha sempre cercato di curarla con grande compassione o viscerale partecipazione.

E, quanto al superamento del moralismo legalistico, don Giorgis ben sapeva che esso è contrario al fondamentale principio evangelico: “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, fondato sul detto divino: “misericordia io voglio e non sacrificio”.

E mi ha colpito la profetica anticipazione con cui egli lo applica, ad esempio, anche alla legge dell’indissolubilità del matrimonio nei casi in cui il vincolo matrimoniale diventa oppressivo per la donna o per l’uomo sposati, dicendo che «il matrimonio è fatto per l’uomo e non l’uomo per il matrimonio». E don Giorgis avrebbe certamente goduto nel vedere che papa Francesco tale applicazione l’ha compiuta di fatto nella Amoris laetitia uscita un anno dopo la sua morte.

E penso che gli avrà allargato il cuore, dopo aver tanto parlato del Vangelo come fonte di gioia e avere affermato di conseguenza che «Essere felici è un piacere, ma è anche e soprattutto un dovere» (p. 89), leggere l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, uscita nel 2013 come programma del nuovo pontificato di Francesco che, oltre a ricordare che il Vangelo è e deve essere un annuncio di gioia, e non quindi la predicazione del sacrificio, afferma che «Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna» (EG 182).

La Tenda dell’Incontro: per un cristianesimo non individualistico o di massa ma di piccole comunità di fede dialoganti e fraterne

Già con lo scoutismo don Giorgis ha fatto l’esperienza dell’efficacia della vita comunitaria di piccoli gruppi per un’educazione alla fede che coinvolga la vita, sia umanizzante e incida in profondità nelle persone.

Ed è significativo, per la visione del cristianesimo che egli ha maturato e praticato, che egli in seguito abbia fatto nascere a Torino, all’inizio degli anni 1960, un pensionato per studenti universitari, organizzato come una vera e propria comunità, retta da una Carta di comunità sottoposta al giudizio di tutti.

Che abbia fatto per molti anni il consigliere spirituale dei gruppi delle Equipes Notre Dame.

Che sia stato per oltre vent’anni parroco della piccola parrocchia di Prato Nevoso (1977-2000).

E, infine, che abbia sentito l’esigenza di fondare, nel 1991, l’associazione “La Tenda dell’Incontro”, per dare la possibilità di riflettere assieme, alla luce della Bibbia, su tematiche religiose e umane. «Leggete la Bibbia insieme ad altri», egli ripeteva (pp. 69-73).

E riteneva che il modo migliore per introdursi effettivamente al mistero di Dio fossero importanti gli incontri fraterni e sororali nei quali a vicenda ci si chiede: «dimmi chi è per te Dio, dimmi come ti senti amato e come lo ami, dimmi ciò che ti aspetti da lui, quello che speri» (p. 101).

Mi pare che da tutto ciò traspaia una visione del cristianesimo non individualista (la grande tentazione della modernità borghese), e neppure di massa (la grande tentazione della cristianità), ma formato da piccole comunità dialoganti e fraterne, in cui effettivamente si può condividere la fede, ove tutti possono mettere in parole il proprio modo di intendere e vivere la fede, i loro dubbi, i loro interrogativi, le loro esperienza, nella fondamentale uguaglianza di dignità umana e cristiana, pur nella diversità di vocazioni, ministeri, carismi, o nella differenza di sesso, professione, cultura.

La figura di Chiesa che ne risulterebbe non solo può rifarsi alla forma paradigmatica della Chiesa primitiva, ma sembra particolarmente adatta al nostro tempo di secolarizzazione avanzata, ove i cristiani stanno diventando sempre più una minorità in diaspora all’interno di una società caratterizzata dal pluralismo delle credenze.

In questo contesto, la fede non si trasmette più per osmosi ambientale, ma solo per scelta personale, sulla base di una convinzione maturata in modo riflesso, in relazione alla propria esperienza positiva o negativa della vita di fede. Una scelta che resta fragile e instabile, perché non più sostenuta sociologicamente.

Essa si può mantenere solo se la si rinnova continuamente di fronte alle sfide che l’ambiente sociale pluralista e la propria maturazione culturale le pongono. Il sostegno di una comunità, ove effettivamente si possa camminare assieme nella fede, assieme nutrirla alla Parola di Dio, assieme celebrarla con gioia, assieme viverla e testimoniarla nella fraternità e nel servizio agli altri, sembra sempre più indispensabile al cristiano.

Oggi si parla tanto di Chiesa sinodale, e giustamente. Ma dove si può effettivamente realizzare un “camminare insieme” se non in piccole comunità di persone cui liberamente si aderisce e si è accolti, e che si riconoscono tra loro in comunione attraverso comunità particolari più ampie fino alla Chiesa universale?

Le tradizionali comunità cristiane territoriali, come le parrocchie e le diocesi, istituzioni proprie del tempo della cristianità, non risultano più in grado di trasmettere effettivamente la fede, di farne sperimentare la forza di umanizzazione, di accompagnarne il cammino di maturazione e di crescita se non si ristrutturano in piccole comunità di persone ove tutti possano prendere la parola e confrontarsi effettivamente sulla propria fede.

Mi pare che don Giorgis abbia sognato questa nuova forma di Chiesa e abbia lavorato a costruirla di fatto. Una Chiesa bella e affascinante, da vivere assieme e assieme testimoniare con gioia, in modi sempre nuovi all’altezza della perenne novità del Vangelo.

Un particolare grazie va, da parte mia, ad Andrea Lebra che con questo libro ci ha trasmesso efficacemente l’eredità profetica di questa forma di cristianesimo e di Chiesa.

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  1. Tobia 17 marzo 2022

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