Chaplin sospettato

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Quando i nazisti invadono la Russia, molti americani chiedono agli alleati di aprire un secondo fronte in occidente contro le potenze dell’Asse. Anche Charlie Chaplin, già noto per capolavori cinematografici come Il monello, La febbre dell’oro e Luci della città, si impegna attivamente tenendo numerosi discorsi a favore dell’unità degli alleati. Ma, alla fine del conflitto, l’opinione generale cambia e, agli occhi degli Stati Uniti, la Russia si sostituisce ai nazisti nel ruolo di avversario principale nell’arena internazionale e il regista britannico diventa bersaglio di un’inchiesta sulla sicurezza interna. L’interrogatorio dell’FBI a Chaplin viene ora proposto nel libro Charlot sotto inchiesta (64 pagine, 6,90 euro), a cura di Charles J. Maland, professore di inglese all’Università del Tennessee, e una nota di Goffredo Fofi, saggista, critico teatrale, letterario e cinematografico, che di seguito proponiamo. Oltre a fornire una vivace testimonianza della mentalità da guerra fredda prevalente in quell’epoca negli Stati Uniti, il libro chiarisce anche gli orientamenti politici di Chaplin: un progressista ben deciso a non ripudiare la sua partecipazione alle manifestazioni sul secondo fronte negli anni 1942 e 1943 e a non unirsi ai giudizi di condanna sull’Unione Sovietica allora tanto in voga (ndr).

Nell’epoca presente, così disastrosamente attraversata da intolleranze d’ogni tipo, etniche e religiose e ideologiche, non può impressionare molto la storia della “caccia alle streghe” del dopoguerra statunitense. Il paragone dei nostri oggi con i nostri ieri viene da farlo, semmai, con gli abomini dello stalinismo nell’Unione Sovietica, ché il numero dei morti per causa di maccartismo è davvero molto limitato.

La caccia alle streghe

La guerra fredda, che si insediò nel mondo dividendolo in due zone d’influenza, e che fu anche guerra vera e micidiale in Corea e più tardi nel Vietnam, preservò l’Italia, che ha goduto dal 1945 di un inusitato periodo di pace straordinariamente lungo e che dura ancora.

mariettiQui da noi, si visse il conflitto tra le due superpotenze in modi tutto sommato tranquilli, come esemplificò egregiamente Giovanni Guareschi con le due figure, nonostante tutto affini, di don Camillo e Peppone, interrotti soltanto dal luglio 1960 (il tentativo democristiano di un governo sostenuto dai neo- o post-fascisti) e più tardi dal ’68 e dal ’69, e dalla sciagurata vicenda terroristica che colpì, oscuramente, il principale sostenitore di un “compromesso”, tutto nazionale, tra i due schieramenti.

Eppure la “caccia alle streghe” americana ci impressionò perfino più acutamente di quanto non fosse accaduto con i “processi di Mosca”, prevedibili per chi non fosse un “trinariciuto”; e chi era allora adolescente ricorda molto bene la delusione (che dovette sembrare lancinante per chi era vissuto nel mito della democrazia americana, Arendt compresa) nei confronti di un sistema che andava colonizzando le nostre coscienze con il peso di una smaccata e pervasiva pubblicità (l’American way of life).

A ritroso, possiamo capire i tormenti di chi alla caccia alle streghe ha soggiaciuto, accettando di denunciare i suoi compagni di un tempo non solo per salvare la propria libertà e la propria carriera, ma anche per il disgusto per il «Dio che ha fallito» e in cui aveva tuttavia creduto, per un “comunismo reale” delle cui stragi non sapeva solo chi non voleva sapere.

Gli storici recenti non hanno avuto pietà, ed era impossibile averla, per certe disgustose figure di loschi inquisitori come Hoover o McCarthy, e hanno concordato con ciò che disse di loro una donna dalle idee chiare e che sapeva come stavano le cose quale Eleanor Roosevelt: la caccia alle streghe «è stata una vera ondata di fascismo».

E hanno chiarito come la scelta di Washington (e di McCarthy) di aggredire e coinvolgere soprattutto Hollywood avesse alle spalle un motivo ovvio: l’enorme cassa di risonanza, l’enorme pubblicità che veniva a quella campagna dal fatto di coinvolgere nomi celeberrimi, come quelli dei “divi” del cinema, specialmente in quegli anni.

Ma ci fu anche un secondo motivo: Hollywood era stata fondata da piccoli imprenditori ebrei, che avevano cominciato con i nickel-odeon e nelle fiere e avevano costruito un impero, e McCarthy voleva scalzare il loro potere a vantaggio di altri imprenditori, mosso anche dal palese antisemitismo che lo accomunava al suo compare (il potere degli ebrei a Hollywood, dopo lo scandalo Weinstein, forse pilotato, sta per essere scalzato solo oggi, pare, dal denaro messicano e dalle banche riciclatrici).

La maschera e gli inquisitori

Su quelle vicende ha scritto un buon libro, anni fa, per Feltrinelli, Giuliana Muscio (Lista nera a Hollywood, Milano 1979), ricostruendole con molta attenzione. E naturalmente vi si parla anche di Chaplin, detestato dalle destre americane per troppi motivi (anche l’ebraismo; benché egli, nelle dichiarazioni che seguono, neghi di essere ebreo, tale era la sua fama e probabilmente la sua realtà). Tutto il suo cinema è una dura critica del modello americano, e però egli ha ben chiaro – come afferma ripetutamente nella sua testimonianza – di dover tutto all’America, cioè agli Stati Uniti. Il sistema cinematografico europeo non gli avrebbe permesso di diventare la maschera mondialmente più celebre della prima metà del Novecento.

Grazie al cinema, e in particolare al cinema muto, al cinema di pantomima, la geniale e pur semplicissima maschera di Charlot fu conosciuta quasi dovunque, nel pianeta Terra, amato e capito da vecchi e giovani e bambini, uomini e donne, ricchi e poveri, intellettuali e analfabeti, cattolici e protestanti, musulmani e buddisti, civilizzati e “selvaggi”.

È stata la prima e unica volta in cui un fenomeno simile è accaduto nella storia del nostro pianeta, ed è durata per almeno venti, trent’anni.

Il presunto conflitto tra la sua maschera e quella ideata da Buster Keaton, il primo sentimentale e il secondo “asettico”, il primo ottocentesco e dickensiano e il secondo novecentesco e avanguardista, fu smentito da entrambi quando Chaplin, accorto capitalizzatore del suo successo, volle al suo fianco Keaton, finito quasi in miseria, per la scena comica culminante di Luci della ribalta.

Abilissimo a muoversi nel sistema economico in cui agiva, Chaplin aveva però idee ben diverse da quelle dei capitalisti americani. Aveva letto Darwin, Marx e i socialisti ed era cresciuto alla scuola della miseria; era un self-made man come i magnati statunitensi del suo tempo e di sempre, ma aveva ben chiaro come funzionava il capitalismo, e conosceva i costi che esso e i winners facevano pagare ai losers, i perdenti.

Dalle dichiarazioni che seguono si trae la convinzione di una sua assoluta sincerità nel riconoscere il debito che sa di avere nei confronti dell’America, ma anche nel dire quanto l’America gli deve, in immagine e in denaro.

Chaplin era un contemporaneo di Jack London e di John Reed, di Upton Sinclair e di Theodore Dreiser, di due guerre mondiali, della rivoluzione russa e di quella messicana, del sindacalista Eugene Debs e più tardi di Dorothy Day. Di Sacco e Vanzetti. Della sua immensa fama seppe far sempre un uso estremamente intelligente, cosciente delle proprie contraddizioni, soprattutto di quelle tra condizione sociale e ideali sociali, tra status e progetto.

Senator McCarthyMa quante volte non abbiamo visto accadere cose simili, su scala molto più ridotta, anche nella nostra Italia e nella nostra sinistra? Anche per questo si apprezza la franchezza di Chaplin nel definire di fronte all’ipocrisia degli inquisitori chi egli è e quali sono le sue convinzioni, partendo dalle proprie contraddizioni, di base, diciamo così, di “protestante” in senso weberiano.

Il crollo di McCarthy è avvenuto non quando egli se la prese con Hollywood, ma quando osò accusare di filocomunismo, in un delirio di potenza, parti alte dell’esercito, che gliela fecero immediatamente pagare.

Ma nel 1948 non era ancora McCarthy a guidare il gioco della purezza nazionale e capitalista, piuttosto una “normale” burocrazia. Nel ’48 Chaplin ne poté uscire ancora senza danni eccessivi, il delirio era appena agli inizi, e però, poco tempo dopo, gli si fece scontare di aver voluto rimanere cittadino inglese – ma che pagava le tasse, e che tasse!, negli USA – e gli venne impedito il ritorno in America.

Sul male

I suoi ultimi film, molto scaglionati nel tempo, Luci della ribalta di ambiente inglese, Un re a New York di ambiente statunitense, La contessa di Hong Kong di ambiente internazionale, non sono, salvo il primo, all’altezza dei suoi capolavori, e non raggiungono, per più motivi – compresi quelli dell’età, della minore comprensione del mondo in una fase di grande mutazione –, l’intensità o il coraggio o la poesia dei precedenti. In particolare, del suo film in assoluto più coraggioso e più estremo, Monsieur Verdoux, del 1947, che venne dopo Il grande dittatore, girato quando gli USA non avevano ancora deciso di entrare in guerra con la Germania e osteggiato per la sua denuncia da buona parte della stampa e dell’esercito americani, diciamo pure della destra.

Riflessione altissima sul male di ogni società organizzata e intollerante, Monsieur Verdoux parla della costrizione al male dettata dalla necessità; è una miracolosa lezione di cinismo, o meglio: di idealismo deluso dalla secca sconfitta della fiducia in un sistema che produce la fame e la guerra, che vive di questi mali imposti alla parte più vasta dell’umanità.

Monsieur Verdoux

Potremmo definire Charles Chaplin, come molti hanno fatto nel tempo, un cinico o un idealista deluso, un democratico deluso; o, come è qualche volta accaduto dentro il sistema capitalista, un uomo di spettacolo e di cultura perfettamente cosciente dei meccanismi del potere, attivi anche nella società dello spettacolo, e a volte in modi più palesi che in altri campi.

Un cinico, Chaplin? Certamente sì, ma nel senso di Diogene l’ateniese, di uno che ha saputo guardare in faccia i limiti della nostra condizione e la parte nera di ogni società organizzata ma che, ciò nonostante, continua a girare per la città con la sua lanterna, alla ricerca dell’uomo.

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