Il ruolo della gerarchia nella Chiesa sinodale

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Si è spento il 2 settembre 2019, all’età di 92 anni, don Giordano Frosini. Nato a Casalguidi (PT) il 4 giugno 1927, don Giordano entra in seminario a Pistoia e viene ordinato sacerdote nel 1950. Frequenta la facoltà di filosofia alla Pontificia Università Gregoriana, dove consegue anche la laurea in Teologia. Dal 1953 inizia l’insegnamento della filosofia in seminario e dal 1957 è prefetto degli studi. Nel 1963 diventa rettore del seminario di Pistoia e nel 1968 è chiamato come docente presso il seminario interdiocesano di Firenze. Dal 1982 al 2008 è vicario generale a Pistoia. Tiene numerose collaborazioni giornalistiche, da Famiglia cristiana ad Avvenire a Radio Rai e dirige dal 1968 il settimanale diocesano La Vita. Fondamentale anche il suo contributo culturale alla Chiesa di Pistoia: la sua intuizione di puntare sulla formazione permanente del clero e dei laici si realizza con la fondazione della scuola di formazione teologica e delle «settimana teologiche», giunte nel 2019 alla XXXII edizione. Apprezzato teologo e saggista, per le EDB ha pubblicato, tra gli altri, i volumi: Aspettando l’aurora. Saggio di escatologia cristiana (1994); La Trinità, mistero primordiale (2000); Piccolo manuale di teologia (2006); Teologia oggi (2012); e le due biorgafie teologiche di John Henry Newman (2014) e Ildegarda di Bingen (2017). Lo ricordiamo riprendendo un capitolo del suo saggio: Una Chiesa di tutti. Sinodalità, partecipazione, corresponsabilità (EDB, 2014).

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Il concilio Vaticano II presenta il complesso dei compiti  spettanti al ministero ordinato secondo lo schema calvinista dei «tria munera», che per la verità viene applicato, si capisce con accentuazioni diverse, oltre che ai presbiteri, anche ai laici, tanto da poter dire che con esso si abbraccia l’intera attività della Chiesa, chiamata a continuare nel tempo l’opera di Cristo, sacerdote, re e profeta. Uno schema certamente comodo e prezioso, ma da usare con una certa attenzione critica, perché i “tria numera” non vanno collocati sul piede di una totale uguaglianza, dal momento che il «munus propheticum», anche per la vastità dei suoi contenuti, è da considerarsi l’impegno primario e fondamentale  dell’intero popolo di Dio. Qui, se vogliamo, sta la ragione ultima dell’esistenza e della missione della Chiesa, questo è il settore in cui il ministero ordinato mostra in pieno (e, come diremo, esclusivamente) la sua autorità magisteriale. Siamo ai dei punti più delicati, forse il punto più delicato, dell’intera nostra ricerca.

Abbiamo già dovuto riconoscere che la Chiesa gerarchica, con l’andare del tempo, anche sotto l’influsso di numerose cause e sollecitazioni esterne, si è appropriata di competenze che giustamente a molti sembrano esagerate e ingiustificate, evidentemente a discapito del resto della comunità, da secoli abituata a vivere passivamente e a prendere per buono quanto le viene presentato, normalmente senza reazioni e segni di malessere. Una brutta e lunga storia che chiama in causa la responsabilità di tutti, in primis, come è chiaro, della parte dirigenziale della Chiesa. Una pericolosa e dannosa china dalla quale  oggi non sarà molto facile risalire. Occorrerà comunque molto tempo, perché i vizi secolari non si correggono in pochi giorni. La scarsa recezione dello spirito conciliare conferma questa dolorosa impressione.

La ricerca delle responsabilità non è certamente inutile ai fini di una correzione di rotta, che si impone sempre di più ai nostri giorni. Ma il compito è evidentemente al di là delle nostre possibilità e delle nostre intenzioni. Sarà sufficiente per noi richiamare, come stiamo già facendo, i principi teologici in questione, in modo che il tema della sinodalità appaia in tutta la sua precisione e in tutta la sua chiarezza, possibilmente senza confusioni e fraintesi.

Riteniamo che il ministero ordinato, parte costitutiva ed essenziale della Chiesa, proveniente dalla stessa volontà di Gesù (e della comunità apostolica per quanto concerne i suoi primi sviluppi: si pensi al diaconato), abbia come sua funzione specifica e insostituibile, quella di salvaguardare la trasmissione fedele della parola di Dio[1]. Un compito che naturalmente riveste lo stesso ministero, in particolare quello dei vescovi e del papa, di una vera e propria autorità nel campo specifico della fede e della morale, in modo da garantire piena aderenza alla tradizione apostolica, per la quale, in certi casi, è promessa la stessa divina infallibilità[2]. In senso assertivo almeno, si tratta di una tesi fondamentale dell’ecclesiologia cattolica, da non rimettere certamente in discussione. Il problema però rimane quello di stabilire i limiti di questo potere, perché, avvertono giustamente i due autori prima citati, “non si dà, ovviamente, alcuna autorità sulla terra che sia illimitata”[3]. La sua estensione e le sue limitazioni saranno naturalmente  determinate sulla base del principio appena enunciato. «Non si possono a priori tracciare con esattezza i campi di competenza dell’autorità, ma si può dire che essa si distende gradualmente tanto quanto le cose e le vicende della Chiesa sono connesse con il suo nucleo primigenio vitale, mentre, più da questo nucleo fondamentale ci si allontana, tanto maggiore è la libertà del credente»[4]. Autorità e libertà: sono i due principi in questione, apparentemente antitetici, fra i quali è necessario stabilire il giusto e non facile equilibrio.

Tanto-quanto: l’intervento gerarchico impegna nella misura in cui l’oggetto in questione (verità o fatto) è più o meno vicino al punto di riferimento, che è appunto la salvaguardia della trasmissione della fede[5]. È esattamente l’esistenza di questo ineliminabile e basilare punto di riferimento che impedisce alla Chiesa di darsi una struttura del tutto democratica: la Parola di Dio non può infatti essere messa ai voti o sottoposta al gioco delle maggioranze e delle minoranze. L’applicazione del termine democrazia alla Chiesa non può dunque proseguire oltre, anche se tutto quello che riguarda lo stile e lo spirito democratico potrà avere una sua larga applicazione in tutte le sue strutture comunitarie e in tutti i suoi atteggiamenti. Anzi, come abbiamo già detto, si può parlare di una vera e propria super-democrazia, dal momento che la comunità evangelica ha alla sua base i principi allo stato puro della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità, fondamenti riconosciuti di ogni vera democrazia. Una analogia, dunque, destinata a esaltare gli elementi fondamentali di un sostanziale ordinamento democratico, della cui bellezza e giustezza oggi l’uomo ha preso piena coscienza.

Ma la legge del tanto-quanto appare, anche a prima vista, come un bel rasoio di Occam, che taglia dai compiti statutari del ministero ordinato molte foglie e addirittura qualche ramo[6]. Evidentemente quanto più si restringe il campo dell’autorità, tanto più si allarga quello della partecipazione, all’interno del quale viene meno anche la cosiddetta teologia dell’ultima parola, che ha senso solo nelle questioni di assoluta pertinenza del magistero, e lascia spazio libero all’affermazione di una completa sinodalità. L’autorità non ha nessuna autorità esclusiva se non nel campo che le è garantito dalla rivelazione e dalla tradizione: andare oltre è semplicemente un abuso che, se è stato compiuto, va decisamente eliminato. Siamo coscienti di essere dinanzi a una vera e propria rivoluzione, necessaria e urgente se vogliamo rendere alla comunità i diritti che col tempo le sono stati tolti. Il nostro non è però un invito alla rivoluzione, ma semplicemente una richiesta pressante perché queste idee trovino la loro collocazione all’interno del  diritto futuro, di cui rimaniamo da troppo tempo in attesa. Il peso della sinodalità è tutt’altro che leggero. Ma il processo è ormai iniziato e sarà certamente un processo irreversibile. La Chiesa di domani è appena ai suoi albori.

Non è nostro intento fare l’elenco delle invasioni di campo della gerarchia. Soltanto, a modo di esempio, possiamo ricordarne qualcuna: la gestione diretta della politica attiva, tolta così dalle mani dei naturali gestori, che sono i fedeli laici; l’intervento di peso nelle attività pastorali che chiamano direttamente in causa altre componenti della Chiesa: si pensi, per esempio, alle prese di posizione in campo educativo e familiare senza nemmeno una consultazione dei diretti interessati; la nomina dei vescovi fatta in maniera decisamente verticistica; lo stato di passività in cui viene mantenuto il popolo di Dio (il quale, peraltro, ha al suo attivo un atteggiamento di rassegnazione quasi generalizzato); la totale dimenticanza del principio prima ricordato: «Quod omnes tangit ab omnibus tractari et approbari debet», completamente scomparso dai nostri orizzonti.

L’autorevole teologo tedesco, il cardinale Karl Lehmanm, può confermare, in qualche modo a nome della eminente scuola teologica del suo paese, le nostre conclusioni. Nella Chiesa, dice, esistono certamente elementi fondanti sottratti alle nostre possibilità di modifiche: questi sono “la rivelazione di Gesù Cristo nelle dimensioni della verità di fede e, come risultanti, i principi etici e la forma istituzionale della Chiesa”[7]. Niente di più, però. Invece, «troppe cose in teologia e in diritto canonico sono state date per ‘invariabili’ anzi ‘eterne’, cose che riflettevano situazioni e prospettive storiche contingenti»[8]. Oggi però «il metodo storico-critico in esegesi e la storia della Chiesa hanno dimostrato che la sfera di questa intangibilità divina» in genere deve restringersi molto, costringendo tutti a una maggiore attenzione. Un’operazione teologica da condursi con precisione chirurgica, evitando il pericolo di cadere in errore in un senso o nell’altro: un argomento da mantenere per lungo tempo all’ordine del giorno.

Lo stato di scontentezza in cui versa la parte più viva della comunità non soltanto va capito, ma bisogna fare di tutto per eliminarlo, prima che il nostro disinteresse in un campo così vitale produca altri danni. Non sono pochi coloro che, per questi motivi soprattutto, hanno scelto di vivere ai margini della comunità, non partecipando più attivamente alla sua vita. Addirittura da tempo si parla di scisma sommerso, anche se non di rado la contestazione è tutt’altro che sotterranea e invisibile.

Non si tratta di negare o anche soltanto di sminuire l’autorità della Chiesa gerarchica, ma semplicemente di mantenerla nei suoi limiti istituzionali, di eliminare la sua «ipertrofia»[9] e di ristrutturarla in tal senso. Ricordiamo le dure espressioni di Congar per bollare l’eccessiva presenza gerarchica nei pensieri, nelle decisione, nelle realizzazioni della comunità. Egli parlava di «gerarcologia» che aveva sostituito l’ecclesiologia, facendo eco all’espressione ancora  più sarcastica di J. Möhler, per il quale Dio creò la gerarchia e non si preoccupò del resto; come dire: tutto il resto non conta, tutto il resto non ha importanza, la gerarchia è di per sé sufficiente. Percorsi da chiudersi definitivamente, senza rimpianti e senza tentennamenti. Ma purtroppo non è così. Le abitudini invalse nel corso dei secoli continuano ancora, magari anche senza accorgersi che si è chiaramente fuori strada. La casistica è molto ampia e, prima che si arrivi anche soltanto alla completa elencazione dei casi incriminati, occorreranno certamente molto tempo e molta attenzione. Bisognerà che la comunità si armi di pazienza e di coraggio. Se chiarire i termini della questione spetta soprattutto ai teologi, tutti i fedeli, gerarchia in testa, dovrebbero mettersi al lavoro perché si ristabilisca al più presto possibile l’ordine prestabilito.

Si è parlato di un’invasione di campo da parte della gerarchia, ma naturalmente, anche se più difficoltoso e più raro, ci può essere anche il processo inverso. Insieme a quello dei fedeli, è necessario salvaguardare anche il compito dei pastori, ai quali, come abbiamo detto, appartiene il dovere e il diritto di garantire, in forza del sacramento che li ha costituiti pastori e maestri, l’autenticità della fede e l’unità della Chiesa. Il limite invalicabile per tutti coloro che volessero addivenire alla concezione di una democrazia totale all’interno della Chiesa. Il compito della gerarchia, costi quello che costi, va rispettato in tutta la sua integrità. Si tratta di una funzione che Dio le ha affidato direttamente tramite il sacramento dell’ordine, che in nessun modo e per nessuna ragione può venire meno. La Chiesa crollerebbe su se stessa. Naturalmente anche in questo caso al popolo dovrebbe essere riconosciuta la possibilità di far sentire il suo pensiero, lasciando naturalmente il diritto e il dovere dell’ultima parola a chi spetta per costituzione. Stiamo riferendo testualmente anche il pensiero del card. Newman, per il quale il sensus fidelium è parte integrante dell’indefettibilità della Chiesa[10].

Tutto questo rimane valido pure nell’ipotesi ormai largamente accettata (abbiamo prima riferito l’opinione di Congar) secondo la quale l’autorità viene affidata direttamente al popolo di Dio e solo indirettamente ai ministri ordinati: la stessa operazione che Suarez e la seconda scolastica fecero nei riguardi della società civile. L’autorità viene da Dio, ma solo indirettamente arriva ai sovrani. Per Torres Queiruga, «in fondo, il cambiamento di prospettiva è già implicito nella concezione ecclesiologica del Vaticano II, che pone la comunità – colmata di grazia di Dio – alla base di tutto, e le altre istanze come funzioni al suo interno»[11]. Il limite del sacramento tuttavia, nel nostro caso, rimane ancora. Afferma il teologo spagnolo R. Blazquez: «Effettivamente la comunità partecipa al riconoscimento e discernimento dei carismi. Però si richiede ulteriormente il riferimento essenziale a Gesù Cristo come mittente. Non esiste solamente la reciprocità fra la comunità e il ministro. Il ministro è costituito in un processo che forma una unità nei suoi diversi momenti; nella Chiesa antica la designazione, l’ordinazione e  l’accoglienza da parte della comunità erano un tutto che rifletteva l’intervento della comunità in questione e la partecipazione dei vescovi viciniori attraverso i quali era incardinato e ordinato nella successione apostolica in un collegio di servizio. Per l’imposizione delle mani e l’epiclesi consacratoria riceveva la grazia del ministero. Secondo ciò, il fondamento dell’autorità sta nell’invio apostolico e nella successione. In virtù dell’ordinazione sacramentale è incardinato il ministro, il vescovo, nella successione apostolica»[12]. Una qualifica e una mansione, quest’ultima, che il popolo non può dare. La sua funzione termina con la designazione. Così fin da principio.

È così che il ministro ordinato diviene il segno e lo strumento (nel linguaggio proprio del Vaticano II, il sacramento) di Cristo capo e pastore, capace di agire «in persona Christi» (e, per altro verso, anche «in persona ecclesiae») e, nonostante la sua provenienza dal popolo di Dio, anche per la sua designazione, egli sarà sempre uno che si colloca di fronte alla comunità, alla quale non potrà mai essere totalmente assimilato. «Vobiscum christianus, vobis episcopus», diceva sant’Agostino. Una verità che non va mai dimenticata, anche quando si parla di sinodalità. Pure la liturgia dovrà sempre conservare nelle sue espressioni verbali e simboliche questa fondamentale distinzione

Ma, confermata e messa al sicuro questa convinzione, ci si può oggi chiedere: quando e quanto la teologia dei consigli (che praticamente lascia tutte le scelte nelle mani dei vescovi e dei ministri ordinati) cederà il passo alla teologia della sinodalità? È la scommessa del futuro. Un complemento del concilio Vaticano II, che è stato, così sembra, troppo largo nei confronti dei ministri della Chiesa, in particolare dei vescovi, venendo meno in tal modo alle sue premesse.


[1] Seguiamo in questa analisi il pensiero di S. Dianich: cf. S. Dianich-S. Noceti, Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 2005, 428-482. Ma Dianich è tornato più volte sull’argomento, su cui gli va riconosciuta una competenza particolare.

[2] L’autorità si estende a un campo più vasto di quello riservato all’infallibilità, dal momento che «intorno alla professione della fede rotea tutta quanta l’esistenza della Chiesa» (ivi, 473). Particolari attenzioni vanno riservate alla morale, perché non tutte le prese di posizione morale appartengono all’ambito della fede propriamente detta. Si tratta di ambiti da sottoporsi al principio del “tanto-quanto”, di cui parleremo subito.

[3] Ivi, 471.

[4] Ivi, 477.

[5] Si confronti a questo proposito LG 25, dove, fra l’altro compare, pur in contesto diverso, l’espressione tanto-quanto.

[6] Nessuna difficoltà ad accettare quanto A. Torres Queiruga afferma citando H. Küng: «Da Küng dobbiamo accogliere l’avvertimento che nel cammino ordinario della Chiesa, per quei problemi e quelle scelte in cui non è messo in discussione il suo essere come tale, si possono effettivamente fare dei passi falsi, ci si può allontanare dal vero cammino (e la storia, malauguratamente, è lì a dimostrarlo; come anche la stessa autocoscienza ecclesiale: ecclesia peccatorum, ecclesia semper reformanda…). Il caso  però si presenta molto diverso quando si tratta di questioni fondamentali, da cui dipende che la Chiesa ‘cada o resti in piedi’. In riferimento a tali questioni non si vede come si possa sostenere la possibilità che la Chiesa prenda una strada sbagliata, senza che ciò implichi una discontinuità nel suo stesso essere» (Quale futuro per la fede?, 142).

[7] K. Lehmann, «Sulla legittimazione dogmatica di una democratizzazione nella Chiesa», in Concilium, 1971/3, 88.

[8] Ivi, 89.

[9] L’espressione è di J.A. Estrada, Da Chiesa mistero a popolo di Dio, Cittadella, Assisi 1991, 264.  In un suo commento alla Lumen gentium, anche D. Vitali usa lo stesso linguaggio. «In effetti – egli dice – si assiste a un’ipertrofia della funzione[dell’episcopato]: tutti gli incarichi ecclesiali sembrano ricevere valore solo se inquadrati in questa carica» (Lumen gentium. Storia, commento, recezione, Studium, Roma 2012, 177). In questione è in particolare il n. 37 della stessa costituzione che, col suo tono paternalistico, sembra ristabilire «un rapporto asimmetrico, riaffermando in sostanza che l’ultima parola spetta ai pastori della Chiesa» (ivi, 102). Per lo stesso autore, la collegialità è «ancora alla ricerca di un equilibrio tutto da trovare tra esercizio del primato e partecipazione  effettiva del collegio alla guida della Chiesa: non pare il sinodo dei vescovi, almeno nell’attuale configurazione, la forma più indovinata per realizzare questa istanza conciliare» (ivi, 177). Quest’ultimo giudizio è condiviso da G. Ruggieri, Ritrovare il concilio, Einaudi, Torino 2012, 88.

[10] Addirittura «la voce della Tradizione può in certi casi manifestarsi non attraverso i concili, i Padri e i vescovi, bensì attraverso il communis fidelium sensus» (J.H. Newman, Sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina, Morcelliana, Brescia 1991, 90s). Una affermazione abbondantemente confermata dalla storia.

[11] Torres Queiruga, Quale futuro per la fede?, 216.

[12] R. Blazquez, La iglesia del concilio Vaticano II, Sigueme, Salamanca 1988, 235s.

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Un commento

  1. Giampaolo Centofanti 5 settembre 2019

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