La ricerca storico-religiosa di Giovanni Miccoli

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Il 28 marzo scorso si è ulteriormente allungato l’elenco degli studiosi la cui scomparsa ha, negli ultimi tempi, impoverito il panorama della storiografia italiana. È infatti deceduto a Trieste, dove era nato nel 1933, Giovanni Miccoli. Non credo mi faccia velo un’amicizia – che da almeno tre decenni si alimentava della consuetudine di una domenicale conversazione telefonica – nell’asserire che si è spenta una delle più significative e rilevanti voci negli studi sulla storia della Chiesa e del cristianesimo.

La metodologia

Occorrerà tempo, data l’ampiezza di una produzione che solo l’aggravarsi della malattia ha arrestato – e mi risuona ancora nell’orecchio l’addolorato rimpianto con cui, pochi mesi fa, mi comunicava di non riuscire più a lavorare con la concentrazione e l’intensità precedente –, per mettere a fuoco lo straordinario apporto da lui dato alla conoscenza della vicenda cristiana. Le sue ricerche hanno infatti spaziato dall’età medievale all’epoca contemporanea, senza trascurare alcuni nodi del periodo moderno.

Non posso qui soffermarmi sui tratti metodologici dei suoi contributi. Basta notare che si atteneva scrupolosamente, anche nelle investigazioni condotte quando era ormai un riconosciuto e ammirato maestro, alle raccomandazioni che in genere si rivolgono ai giovani dottorandi di storia: una completa ricognizione della letteratura relativa all’argomento considerato, una sistematica raccolta delle fonti ad esso attinenti a partire dallo scavo archivistico, un attento vaglio filologico dei testi messi in opera. Ma, alla costante pratica delle umili e prosaiche condizioni del lavoro storiografico, Miccoli faceva poi seguire un acuto sforzo critico per far emergere gli spessori più profondi, e a prima vista impenetrabili, del documento.

Proprio questa capacità analitica – che ha trovato una mirabile espressione nell’esame delle fonti condotta in Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di una esperienza cristiana (1991) – rende spesso i suoi scritti un’affascinante avventura intellettuale. In questa sede però vorrei limitarmi a ricordare alcuni aspetti a mio avviso importanti – e non nascondo i condizionamenti autobiografici che pesano nel giudizio – per il complessivo orientamento della storia della Chiesa e delle Chiese.

La religione è dentro la storia

Vale, in primo luogo, la pena ricordare la correzione di rotta proposta in relazione ad una delle operazioni culturali che, all’inizio degli anni Settanta, intendevano strutturare gli indirizzi del lavoro storiografico nel nostro paese. Nel 1972 usciva, infatti, il volume dedicato a I caratteri originali dell’einaudiana Storia d’Italia, che voleva non solo raccogliere l’esito di una lunga e senza dubbio proficua stagione di studi, ma ambiva anche a fornire il quadro programmatico entro cui sviluppare le future indagini.

Nella presentazione dell’opera veniva chiaramente affermata la necessità di abbandonare, con la fine dell’età moderna, l’investigazione sugli aspetti religiosi dello svolgimento storico che si era prodotto nella penisola, in conseguenza dell’irrilevanza di tale fattore. La trattazione della sua vicenda religiosa – e non vi potevano essere molti dubbi sul fatto che, in primo luogo, il riferimento andava alla Chiesa cattolica – sarebbe stata assorbita all’interno dell’economico, del politico, del culturale ecc.

Non si trattava solo della traduzione sul piano storiografico di quel paradigma della secolarizzazione di cui oggi ben conosciamo l’illusorietà, ma che in quegli anni egemonizzava la cultura italiana; giocava anche in quella dichiarazione d’intenti un più generale disconoscimento dell’autonomia del religioso nella vita sociale.

Miccoli, che pure nell’impresa einaudiana era coinvolto, ha subito manifestato la sua presa di distanza da un’impostazione che si proponeva programmaticamente di trascurare la considerazione del ruolo giocato dalla religione nel farsi dei processi storici e, in particolare, di quelli relativi all’epoca contemporanea.

Questa istanza ha poi avuto concreta realizzazione nel 1986, quando, negli Annali della collana pubblicata dalla casa editrice torinese, trovò spazio un tomo, da lui curato assieme a Giorgio Chittolini, che venne dedicato a La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea.

Ma, certo, questo lavoro non cambiava il quadro complessivo degli studi contemporaneistici in Italia, in cui ad un’invasiva presenza dell’interesse per l’attività politica dei cattolici, corrispondeva una scarsa attenzione per la Chiesa e per il peso effettivo della sua azione nella società italiana. Non a caso, anche negli anni successivi, fino alla sua introduzione al volume Storici e religione nel Novecento italiano, apparso per i tipi della Morcelliana nel 2011, Miccoli ha continuato a ricordare quanto l’espunzione della dimensione religiosa dalla ricostruzione storica impedisse una reale comprensione dell’effettivo volto del passato, con tutte le conseguenze negative che così ricadevano sull’intelligenza del presente.

Elementi di continuità

Un secondo elemento, che mi pare rilevante, riguarda l’intervento su alcune tendenze degli studi storico-religiosi emerse nel corso degli anni Ottanta in seguito alle nuove sollecitazioni derivanti dalla ricezione nella ricerca dell’aggiornamento ecclesiale promosso dal papato giovanneo e dal Concilio. Si affermava allora, in alcuni ambienti, la tendenza ad individuare – anche in funzione polemica nei confronti di quei settori ecclesiali conservatori che vedevano nel cambiamento intervenuto una rottura radicale con la tradizione – i fattori di continuità tra precedenti esperienze della vicenda cristiana e recenti (o anche solo attese) acquisizioni della Chiesa conciliare.

Come si può intuire, in questo contesto diventava assai facile forzare o distorcere, anche in chiave teleologica, l’interpretazione del passato. Ricordo ancora, tanto per fare un esempio, le sollecitazioni personalmente ricevute per collegare in termini attualizzanti l’espressione “eminente dignità dei poveri”, rinvenibile nella predicazione di Bossuet, al tema della “Chiesa dei poveri” che era stato sviluppato dall’assise ecumenica.

L’opera di Miccoli ebbe allora l’effetto di introdurre una regola ermeneutica capace di tenere a freno l’inclinazione a piegare gli studi a presupposti ideologici.

Nel 1985 lo studioso triestino pubblicava, infatti, per l’editrice Marietti, un corposo volume intitolato Fra mito della cristianità e secolarizzazione, in cui raccoglieva un gruppo di saggi che ricostruivano il rapporto tra Chiesa e società in diversi momenti compresi in un arco cronologico che andava dalla Rivoluzione francese fino agli anni immediatamente precedenti all’uscita del libro.

Al di là delle innovative acquisizioni conoscitive che venivano avanzate su diverse vicende – e di particolare importanza risultava, a questo proposito, il lungo contributo, un vero libro nel libro, su Pio XII e la seconda guerra mondiale che mostrava, in ordine alle polemiche suscitate dall’operato di Pacelli sullo sterminio degli ebrei, la fecondità conoscitiva della separazione del giudizio morale dal giudizio storico –, l’opera forniva un decisivo contributo per l’orientamento degli studi sulla Chiesa contemporanea. Evidenziando infatti la pervasiva incidenza che il richiamo al regime di cristianità aveva avuto nel caratterizzare la presenza del papato e del cattolicesimo otto-novecentesco nella società, permetteva di individuare proprio in questo punto il criterio su cui misurare permanenze o discontinuità che si erano effettivamente prodotte nel tempo.

La differenza che, alla luce di questa linea esegetica, il volume evidenziava tra le posizioni di don Mazzolari e quelle di don Milani, cui erano dedicati due dei saggi ivi raccolti, costituivano un’esemplare dimostrazione dell’efficacia del ricorso alla categoria di “cristianità” nel guidare una corretta interpretazione del mutamento ecclesiale.

Perché “Francesco”?

Un ultimo punto merita, infine, di essere sottolineato. Proprio il richiamo al tema della cristianità finiva per evidenziare la persistenza di una linea tradizionale nel papato romano anche dopo la svolta conciliare.

Il governo di Giovanni Paolo II, in particolare a partire dagli anni Novanta, in seguito alle delusioni intervenute con la caduta del comunismo, nonostante oscillazioni e scarti, anche rilevanti, era segnato dall’elaborazione di un progetto di neo-cristianità come complessiva proposta della Chiesa per il mondo contemporaneo. Lo stesso Miccoli avrebbe poi finemente ricostruito questo processo, con l’abituale ampiezza di riferimenti documentari, nel volume In difesa della fede. La Chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, apparso nel 2007 per i tipi della Rizzoli, per coglierne quindi gli ulteriori sviluppi nel corso del papato ratzingeriano attraverso il libro La Chiesa dell’anticoncilio (Laterza 2011).

Era peraltro evidente che questi pontefici, sia pure con varietà di accenti e con diverso grado di adesione alla realtà storica dell’assise ecumenica, si richiamavano al Vaticano II, di cui presentavano la loro linea come una concreta attuazione. Si poneva in tal modo la questione del significato che poteva ancora avere quella riforma della Chiesa che diversi ambienti riconducevano alle deliberazioni del Vaticano II.

Mi sembra che una parte significativa della produzione di Giovanni Miccoli abbia voluto costituire una risposta proprio a questa domanda. Non solo il libro su Francesco d’Assisi del 1991, cui ho fatto in precedenza cenno, è stato in larga parte riproposto nel 2013 per i tipi di Donzelli, con una nuova introduzione in cui si affronta la questione di come possa essere giunta al card. Bergoglio l’idea di assumere da papa il nome di Francesco; ma, in questo arco cronologico, l’attenzione all’Assisiate si è riproposta in vari saggi.

Da questi lavori si ricava lo sforzo di ricostruire le concrete modalità con cui si era fatta strada nella storia un’alternativa evangelica in ordine alle forme di presenza della Chiesa nel mondo. Del resto la questione delle “alternative” non era certo ignota allo studioso triestino. In fondo, fin dal suo primo libro Chiesa gregoriana, pubblicato nel 1966 e dedicato a diversi aspetti dell’età di papa Ildebrando, emergeva l’attenzione ad un complicato intreccio tra, da un lato, l’affermarsi del potere monarchico del pontefice sulla comunità dei credenti e della sua pretesa di primazia sull’organizzazione del consorzio umano e, dall’altro lato, il prodursi di istanze di conformazione della Chiesa al messaggio del Vangelo. La straordinaria forza critica del capitolo sulla Ecclesiae primitivae forma ne era una testimonianza particolarmente espressiva.

L’insistente ritorno di questi anni sulla “proposta cristiana” di Francesco sembra allora rappresentare l’indicazione, storiograficamente rigorosa, che una radicale riforma evangelica della Chiesa era storicamente stata possibile. In controluce, si poteva leggere che toccava ai credenti, anche nell’epoca dei pressanti richiami dell’autorità ecclesiastica a nuove cristianità, fare buon uso dei risultati di una corretta ricerca storica.

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