Paolo Prodi: religione e politica

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Per lo storico Paolo Prodi (1932 – 2016) il cattolicesimo non si era limitato ad arrestare la corsa dello Stato moderno al monismo totalizzante, ma aveva alimentato nella società civile il dualismo fra religione e politica. (Foto ANSA)

A pochi giorni dalla morte di Claudio Pavone – lo studioso che con il suo libro Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza aveva profondamente rinnovato le ricerche sulla lotta di liberazione dal nazifascismo – anche Paolo Prodi ci ha lasciati. La vicinanza tra i due eventi testimonia in modo tangibile la scomparsa di quella generazione di storici, che, nata tra gli anni Venti e gli anni Trenta del Novecento, ha segnato il dibattito storiografico della seconda metà del secolo.

Capire il presente, costruire il futuro

Si tratta di una perdita grave. Non solo perché non si profilano all’orizzonte personalità intellettuali in grado di riprendere e rinnovare l’eredità di quei maestri; ma anche perché essa si coniuga con le difficoltà dell’attuale pratica storiografica – messa in crisi dal sempre più invadente privilegio riservato alle scienze umane della sincronia – ad affermare la propria capacità di produrre un sapere socialmente riconosciuto. Eppure basta scorrere la loro produzione, innervata dalla persuasione dell’impossibilità di capire il presente e di costruire il futuro senza una corretta conoscenza del passato, per cogliere il rischio che la nostra società corre nel dimenticare la loro lezione.

Dall’incontro all’amicizia

A differenza di Pavone – che ho incontrato solo occasionalmente – ho intrattenuto un lungo e duraturo rapporto con Paolo Prodi. L’avevo conosciuto personalmente agli inizi degli anni Settanta. Giuseppe Alberigo, sotto la cui direzione avevo da poco concluso la tesi di laurea, mi aveva invitato a continuare gli studi presso il Centro di documentazione–Istituto per le scienze religiose, fondato vent’anni prima da Giuseppe Dossetti a Bologna.

Dopo circa un anno di quotidiana frequentazione della sala di lettura al piano terreno – ero in tal modo chiamato, al pari di altri giovani apprendisti, a dar prova di un’autentica vocazione alla ricerca –, il direttore di tesi mi aveva invitato ad occupare uno studio tra i libri collocati al secondo piano. Incontrai per la prima volta Paolo, insediato in un’altra stanza di quello stesso piano, nel corridoio che dall’ascensore conduceva alla biblioteca. Alberigo lo aveva già informato del mio ingresso nel gruppo di ricercatori. Nonostante la distanza accademica, la comune provenienza dal territorio reggiano favorì immediatamente un colloquio cordiale e simpatetico sui rispettivi lavori in corso.

Una promessa non mantenuta

Il rapporto – pur non sempre continuo, per le vicende biografiche che portarono Paolo a Roma, a Trento e a Monaco, mentre io venivo chiamato ad insegnare in sedi universitarie dislocate in varie località della penisola – non si è più interrotto. Fino all’ultimo messaggio e–mail di fine novembre 2016, in cui gli facevo una promessa che mai immaginavo non mi sarebbe stato possibile mantenere: sarei andato a trovarlo nella casa di via Galliera in occasione delle vacanze natalizie. Anche se, fin dai nostri primi incontri, era emersa chiaramente una differenza di prospettive.

Paolo mi aveva avvertito che la storia della Chiesa, verso cui orientavo su suggerimento di Alberigo i miei studi, non costituiva ai suoi occhi una strada particolarmente feconda. Né dal punto di vista accademico, per l’attenzione che, inevitabilmente, l’autorità ecclesiastica avrebbe continuato a riservare alla disciplina; né dal punto di vista culturale, perché gli appariva problematica la prospettiva – che aveva trovato espressione nel saggio sulla secolarizzazione della storia della Chiesa allora pubblicato su Concilium da Alberigo – di una connessione tra rinnovamento ecclesiale e sviluppo degli studi storici sul cattolicesimo. Ma, ovviamente, la registrazione di una divaricazione nei percorsi disciplinari non incrinò una consuetudine intellettuale che, col tempo, è diventata amicizia.

Apporti della sua ricerca

Per questa ragione non è facile delineare – come mi è stato chiesto – i più significativi apporti che le sue ricerche hanno dato alla cultura storiografica contemporanea. Non solo infatti sono assai numerosi gli ambiti di lavoro che Paolo ha frequentato: lo mostrano i sette volumetti della serie Percorsi di ricerca edita dal Mulino, ciascuno dei quali raccoglie i saggi dedicati dallo studioso ad uno dei temi su cui ha indirizzato le sue investigazioni. Scegliere in questo ricco itinerario i tratti più rilevanti rischia, soprattutto, di far prevalere l’autobiografia sull’oggettiva valutazione del reale contributo dato allo sviluppo della conoscenza storica.

Proverò tuttavia a dimenticare i temi più frequentemente oggetto di personale colloquio – in particolare quelli che, ripresi nel recente Giuseppe Dossetti e le officine bolognesi, erano stati anticipati nella sua collaborazione alla Rivista di storia del cristianesimo attraverso la pubblicazione di documenti tratti dall’archivio personale – per seguire in ordine cronologico i lavori cui mi sembra si sia riservata più attenzione nella discussione storiografica.

Le prime opere

Il primo lavoro importante di Paolo, uscito per le Edizioni di storia e letteratura in due volumi – uno apparso nel 1959, l’altro nel 1967 – è stato dedicato alla ricostruzione della vicenda del cardinal Gabriele Paleotti, il vescovo che, dopo aver esercitato un ruolo di primo piano nell’ultima fase del concilio di Trento, e aver condotto un’esperienza di governo nella curia romana, era stato inviato ad applicare le deliberazioni tridentine nella diocesi di Bologna. All’interno di una storiografia, in cui ancora dominava una visione cupa e negativa dell’età controriformistica ed era luogo comune la tesi che i ritardi della società italiana avevano la loro radice nella mancata affermazione della Riforma protestante nella penisola, la sua concreta indagine mostrava una realtà assai più sfumata e articolata. Da un lato, infatti, palesava un intreccio quasi inestricabile tra tendenze alla repressione in chiave controriformistica e intenzioni di cambiamento dettate da istanze evangeliche; dall’altro lato, evidenziava una netta differenziazione tra centro e periferia, dal momento che quest’ultima incontrava a Roma ostacoli e difficoltà nel dare esecuzione ai propri orientamenti novatori.

Chiesa e genesi dell’età moderna

Ma da quella ricerca emergeva un dato ancora più rilevante: l’attenzione di Paleotti nei confronti della moderna cultura umanistica, che non veniva percepita come un nemico da combattere, ma come un alleato da coinvolgere nella riforma della Chiesa. Dal governo diocesano dell’ordinario bolognese emergeva infatti l’interesse per le scienze naturali coltivate da Ulisse Aldrovandi, per la critica storica praticata da Carlo Sigonio, per le nuove prospettive artistiche elaborate dai Caracci. Su quest’ultimo aspetto – anche in seguito alla straordinaria attenzione, determinata dallo sviluppo degli studi sul rapporto tra Tridentino e arti visive, verso il Discorso intorno alle immagini sacre e profane pubblicato dal Paleotti nel 1582 – lo studioso avrebbe dato alla luce alcune pubblicazioni che a tutt’oggi costituiscono sull’argomento un imprescindibile punto di riferimento a livello internazionale. Tuttavia, più generale era la questione che da questi riscontri scaturiva: quale rapporto reale, al di là delle banali ideologizzazioni che circolavano sull’insanabile antitesi tra cattolicesimo e modernità, intercorreva tra la Chiesa dell’età moderna e la genesi dell’età moderna?

Stato pontificio e Stato moderno

Una prima risposta veniva fornita da Paolo nel libro Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, apparso nel 1982. Paolo vi sosteneva la tesi che lo Stato pontificio ai suoi esordi – dal Rinascimento alla fine della Controriforma – aveva rappresentato il primo tentativo, e soprattutto il prototipo, della costruzione di uno Stato moderno. Lo mostravano l’impianto di un articolato sistema di governo centralizzato, lo stabilimento di un razionale apparato amministrativo e fiscale, la creazione di un esercito regolare, l’introduzione della rete diplomatica dei nunzi, la stipulazione dei concordati per la regolamentazione dei rapporti tra potere religioso e potere politico ecc.

In tal modo non intendeva solo dimostrare che lo scarso interesse storiografico per lo Stato della Chiesa – trascurato dagli studiosi perché considerato come un relitto ai margini dello sviluppo della civiltà Occidentale – era il frutto dell’anacronistica proiezione sulla prima età moderna di un’immagine che corrispondeva alla realtà assunta da quell’ordinamento istituzionale secoli più tardi. Né mirava semplicemente a mettere in guardia da una esclusiva concentrazione degli studi – come allora avveniva di frequente – sugli effetti spirituali della Riforma e della Controriforma, prescindendo dalla considerazione, ineludibile per un’effettiva intelligenza storica, del costante intreccio tra religione, potere, istituzioni e società. Si proponeva soprattutto di chiarire che, nell’edificare un suo Stato, il papato aveva cercato di fornire una risposta al problema cruciale posto dalla costruzione della modernità.

Spirituale e  temporale

Dalla ricerca scaturiva, infatti, che il papato aveva dato impulso all’inglobamento dell’organizzazione ecclesiastica in quella statale, ma allo stesso tempo aveva anche saputo mantenere una distinzione tra i due ambiti, sia pure attraverso la differenziazione dei ruoli esercitati dalla persona del pontefice, ad un tempo sovrano dello Stato della Chiesa e pastore della Chiesa universale. In tal modo la Chiesa si era opposta, pur senza prendere esplicita posizione, a quell’affermazione di un’onnipotenza della sovranità che giungeva all’assorbimento della sfera del religioso nel potere politico. Aveva così dato un contributo decisivo a quel tratto che agli occhi di Paolo appariva l’elemento costitutivo della modernità: la separazione tra spirituale e temporale.

Lavori successivi

Il libro apriva insomma la questione che avrebbe costituito il tema attorno a cui ruotavano i lavori successivi (in particolare quelli di lungo periodo come Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente e Una storia della giustizia: dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, pubblicati rispettivamente nel 1992 e nel 2000 sempre per i tipi del Mulino). In questi volumi Paolo sosteneva che il cattolicesimo non si era limitato ad arrestare, pur dopo averla aperta, la corsa dello Stato moderno al monismo totalizzante, ma aveva fin dalle origini alimentato nel consorzio civile il dualismo tra il religioso e il politico.

Tutti i suoi ultimi saggi si sarebbero incentrati su questa tesi fondamentale. Sia pur con diverse modalità, con varia intensità a seconda dei periodi storici e non senza contraddizioni – ma qui sta forse il punto di domanda sulla validità storica della sua ricostruzione –, il cristianesimo aveva introiettato nella storia la separazione tra sacro e politico, etica e diritto, potere religioso e potere civile. In ciò egli individuava l’eredità profonda della cultura occidentale e la speranza per il mondo odierno, in cui vedeva la crisi finale dell’epoca iniziata con la moderna rivendicazione dell’assolutezza della sovranità statale, di un futuro migliore.

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