Peter Henrici: l’onore di un maestro

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Il 6 giugno è morto in Svizzera il gesuita p. Peter Henrici. Per decenni fu docente di storia della filosofia moderna alla Pontificia Università Gregoriana, per essere chiamato poi, con la sua nomina a vescovo ausiliare, al difficile compito di una riconciliazione interna della diocesi di Coira. Ne abbiamo chiesto una memoria a Heiner Wilmer, confratello dehoniano e vescovo di Hildesheim, che con p. Henrici lavorò ai tempi del suo dottorato.

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Quando, negli ultimi due decenni della sua vita, si chiedeva a p. Peter Henrici perché avesse scritto così poco durante la sua attività di professore, egli rispondeva: «È vero, ho scritto pochi libri; ma ho scritto nella mente dei miei studenti». Sembrava sicuro di sé, e lo era. Ma lo diceva da svizzero quale era.

Aveva tutta l’abilità della sua gente per non cadere nella trappola che a volte frega noi tedeschi, quando il passo dalla sicurezza di sé all’arroganza è questione di un soffio. Henrici era molte cose, ma non era affatto arrogante.

Se si guarda alla sua vita, oggi si deve dire che la sua risposta non gli rendeva pienamente merito. Infatti, non solo scriveva nella mente dei suoi studenti, ma ha scritto anche  la storia della Chiesa. Prima a Roma e all’Università Gregoriana, dove è stato professore di filosofia per 33 anni, e poi nella Chiesa in Svizzera e ben oltre.

Professore a Roma

Quando ho incontrato per la prima volta il professore di storia della filosofia moderna alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, indossava un abito nero e un colletto tedesco da oratoriano (con le punte della camicia bianca abbottonata che poggiavano all’esterno su un maglione nero).

Insolito per gli standard romani, perché qui i sacerdoti negli anni Novanta tendevano a indossare una camicia con colletto o colletto romano. Con le sue profonde radici nella cultura mediterranea, aveva visibilmente conservato qualcosa di transalpino.

Chi lo incontrava per la prima volta si imbatteva in un uomo molto corretto e disciplinato, di grande cultura, capace di esprimere difficili questioni filosofiche e teologiche in un linguaggio comprensibile in italiano, francese, tedesco e inglese. Era evidente che conosceva altre lingue dell’Europa occidentale insieme a quelle classiche.

Padroneggiava il gioco della vicinanza e della distanza come un vecchio maestro. Per stile era un uomo discreto. Non sopportava professori, vescovi e religiosi che fossero indifferenti. Le sue erano maniere raffinate, il che lo faceva spesso apparire un po’ distaccato all’inizio. Tuttavia, possedeva un grande calore umano, che divenne ancora più evidente negli ultimi decenni di vita.

Ciò che ho apprezzato molto di lui è stato l’interesse per i progressi dei suoi studenti. Era un vero maestro. Non era interessato alla sua carriera, quanto piuttosto allo sviluppo personale dei suoi studenti. Orde di studenti da tutto il mondo hanno studiato con lui, molti hanno scritto con lui le loro tesi di dottorato. Certe osservazioni le faceva qua e là, e bisognava cogliere bene cosa intendesse esattamente e se per caso ci fosse un’intenzione secondaria. Così un giorno disse: «Quando ero un giovane professore qui e responsabile della biblioteca, avevo un eccellente bibliotecario. Oggi è presidente della Conferenza episcopale tedesca». Si riferiva a Karl Lehmann.

Il gioco di vicinanza e distanza lo aveva permeato anche a livello accademico. Nei seminari che abbiamo avuto con lui, lo sentivamo ripetere una sorta di ritornello ricorrente: «Non guardate solo quello che dice il testo. Guardate soprattutto quello che non dice. E poi chiedetevi perché l’autore tace sull’argomento».

Vescovo ausiliare a Coira

Quando Papa Giovanni Paolo II lo nominò vescovo ausiliare a Coira il 4 marzo 1993, padre Henrici si era già opposto più volte alla nomina. Aveva presentato le sue obiezioni per iscritto. Poi, però, obbedì alla nomina, anche se si vedeva più come un professore che come un vescovo.

Ma alla fine è stato un vero gesuita, sapendo di aver fatto una promessa speciale di obbedienza al Santo Padre. La fedeltà ai suoi voti e al popolo era ciò che lo contraddistingueva. E il dovere. Apparteneva a quelle persone caratterizzate da una forte volontà. Henrici era in grado di mettere da parte i propri interessi per servire un compito più grande. Alla fine, si trattava di dare a Dio l’onore maggiore.

Per la Chiesa in Svizzera è stato una benedizione. Lo si può dire anche se non si è svizzeri. In una situazione difficile e completamente impantanata, ecclesialmente e umanamente intricata, è riuscito a creare una nuova cultura del dialogo. Nonostante, anzi proprio perché era un filosofo, riuscì ad avere uno stile diverso: chiese i bisogni della gente, lesse tra le righe e cercò di dare risposte concrete. In questo modo, riuscì a raggiungere una buona misura di riconciliazione tra le diverse posizioni presenti nella diocesi.

Solo negli ultimi anni ho scoperto quanto fosse devoto quest’uomo cresciuto alla scuola del pensiero filosofico e nelle tracce spirituali di sant’Ignazio. L’idea di essere destinato a qualcosa, ovviamente, non l’ha mai abbandonato. Così, nella sua autobiografia Experienced Church (Chiesa vissuta), scrisse che si è sentito guidato da Dio per tutta la sua vita.

Un gesuita sulle tracce di Blondel

In questo, esistenzialmente, si trovava nel solco tracciato da Maurice Blondel, quel filosofo francese che Henrici aveva studiato per tutta la vita. Il suo capolavoro, pubblicato nel 1861, si intitola L’Action (1893). Tentativo di una critica della vita e di una scienza della pratica. Lì Blondel inizia la sua introduzione con la domanda: «Sì o no: la vita umana ha un senso? L’uomo ha un destino?».

Nella sua tesi di dottorato, Henrici aveva messo in relazione questa importante opera di Blondel con la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Benché Henrici fosse un convinto conoscitore non solo di Hegel ma anche dell’idealismo tedesco, il suo cuore batteva per il filosofo francese che, nella storia spirituale europea, può essere considerato il «filosofo del concreto».

Sì, il concreto, l’opera concreta di Dio, il coinvolgimento concreto nella storia, l’incarnazione di Dio in Gesù era la prospettiva spirituale che ispirò Henrici per tutta la vita. Questo Dio, il cui spirito ha assunto la materia abolendo così l’infinita distanza da noi uomini e donne, era quello da cui il filosofo romano e il vescovo ausiliare svizzero si lasciavano guidare.

Padre Henrici era un talento eccezionale: intellettualmente, umanamente e spiritualmente. Il gioco di vicinanza e lontananza tra lui e lo Spirito divino è diventato ora un altro. Peter Henrici è morto in Svizzera il 6 giugno.


Nachruf zum Tod von Weihbischof em. Peter Henrici SJ

Wenn Weihbischof Peter Henrici SJ in seinen beiden letzten Lebensjahrzenten gefragt wurde, warum er in seiner Zeit als Professor so wenig geschrieben hatte, antwortete er: „Es stimmt, ich habe nur wenig Bücher geschrieben. Stattdessen habe ich in den Köpfen meiner Studenten geschrieben.“ Das klang selbstbewusst, das war er auch. Aber er sagte dies als Schweizer. Er fiel nicht in die Falle, die uns Deutschen bisweilen zu eigen ist, wenn der Schritt vom Selbstbewusstsein zur Arroganz nur ein kleiner ist. Henrici war vieles, keinesfalls aber war er arrogant. Schaut man sich sein Leben an, dann muss man heute sagen, dass seine Antwort untertrieben war. Denn er hat nicht nur in den Hirnen seiner Studenten geschrieben, sondern darüber hinaus schrieb er Kirchengeschichte. Nicht nur in Rom und an der Gregoriana, an der er 33 Jahre lang Professor für Philosophie war, sondern auch in der Kirche in der Schweiz und weit darüber hinaus.

Als ich dem Professor für neuere Philosophiegeschichte zum ersten Mal an der Pontificia Università Gregoriana in Rom begegnete, trug er einen schwarzen Anzug und einen deutschen Oratorianerkragen, das heißt, die Spitzen des zugeknöpften weißen Hemdes lagen nach außen auf einem schwarzen Pullover. Für römische Verhältnisse ungewohnt, denn hier trugen Priester in den 90-er Jahren eher ein Kollarhemd oder einen Römerkragen. Bei seiner tiefen Verwurzelung in der mediterranen Kultur hatte er sich sichtbar etwas Transalpines bewahrt. Wer ihm zum ersten Mal begegnete, traf auf einen sehr korrekten und disziplinierten Mann, hochgebildet, in der Lage, schwierige philosophische und theologische Zusammenhänge in verständlicher Sprache in Italienisch, Französisch, Deutsch und Englisch auszudrücken. Dass er weitere westeuropäische Sprachen beherrschte und natürlich die klassischen, war selbstredend.

Das Spiel von Nähe und Distanz beherrschte er wie ein alter Meister. Kumpelei lag ihm fern. Schulterklopfende Professoren, Bischöfe und Ordensmänner waren ihm ein Graus. Fein waren seine Manieren, die ihn anfanghaft oft etwas distanziert erscheinen ließen. Gleichwohl besaß er eine große Wärme, die in seinen letzten Jahrzehnten noch deutlicher zum Zuge kam.

Sehr habe ich an ihm geschätzt, wie er am Fortkommen seiner eigenen Studenten interessiert war. Er war ein echter Lehrer. Seine eigene Karriere interessierte ihn nicht, vielmehr war er an der Persönlichkeitsentwicklung seiner Studenten interessiert. Heerscharen aus aller Welt studierten bei ihm, viele schrieben bei ihm ihre Doktorarbeit. Bestimmte Bemerkungen hatten es in sich. Hier und da musste man darüber nachdenken, was er genau damit meinte und ob es noch eine Nebenabsicht gab. So sagte er eines Tages: „Als ich hier junger Professor und für die Bibliothek zuständig war, hatte ich einen exzellenten Bibliothekar. Heute ist er Vorsitzender der Deutschen Bischofskonferenz.“ Er meinte Karl Lehmann.

Das Spiel von Nähe und Distanz hatte ihn auch in wissenschaftlicher Hinsicht durchdrungen. In den Hauptseminaren hörten wir von ihm, wie einen wiederkehrenden Refrain: „Schauen Sie nicht nur, was der Text sagt. Schauen Sie vor allem, was er nicht sagt. Und schauen Sie dann, warum der Autor zu diesem Thema schweigt.“

***

Als Papst Johannes Pauls II. ihn am 4. März 1993 zum Weihbischof in Chur ernannte, hatte Pater Henrici sich zuvor dagegen mehrfach gewehrt. Seine Bedenken hatte er schriftlich eingereicht. Schließlich ließ er sich dann doch gehorsam in den Dienst nehmen, auch wenn er sich eher als Professor denn als Bischof verstand. Aber am Ende war er ein echter Jesuit, wissend, dass er dem Heiligen Vater gegenüber ein besonderes Gehorsamsversprechen geleistet hatte. Die Treue zu seinen Gelübden und zu den Menschen zeichnete ihn aus. Und die Pflicht. Er gehörte zu jenen Menschen, die sich durch einen starken Willen auszeichnen. Henrici war in der Lage, seine eigenen Interessen zurückzustellen, um einer größeren Aufgabe zu dienen. Letztlich galt es, Gott die je größere Ehre zu erweisen.

Für die Kirche in der Schweiz war er ein Segen. Das kann man auch sagen, wenn man selbst kein Schweizer ist. In einer schwierigen, völlig verfahrenen und kirchlich sowie menschlich vertrackten Situation gelang ihm eine neue Gesprächskultur. Obwohl er, nein besser, vielleicht weil er Philosoph war, gelang ihm ein anderer Stil: Er fragte nach den Bedürfnissen der Menschen, las zwischen den Zeilen und versuchte, konkrete Antworten zu geben. So gelang ihm ein gutes Maß an Versöhnung zwischen den unterschiedlichen Lagern. Wie fromm dieser philosophisch geprägte und jesuitisch geschulte Mann wirklich war, habe ich erst in den letzten Jahren entdeckt. Die Idee, für etwas bestimmt zu sein, ließ ihn offensichtlich nie los. So schreib er in seiner Autobiographie „Erlebte Kirche“, wie er sich in seinem gesamten Leben als von Gott geführt sah.

***

Damit aber lag er existentiell genau in der Linie von Maurice Blondel, jenes französischen Philosophen, den er zeitlebens erforscht hatte. Dessen Meisterwerk, 1861 erschienen, trug den Titel „L´Action – Die Tat (1893). Versuch einer Kritik des Lebens und einer Wissenschaft der Praxis“. Dort beginnt Blondel seine Einführung mit der Frage: „Ja oder nein: Hat das menschliche Leben einen Sinn? Hat der Mensch eine Bestimmung?“

Dieses Blondelsche Hauptwerk hatte Henrici in seiner Doktorarbeit in Beziehung gesetzt zur „Phänomenologie des Geistes“ von Hegel. Obwohl Henrici ein ausgesprochener Kenner nicht nur von Hegel, sondern auch des deutschen Idealismus war, schlug sein Herz für den französischen Philosophen, der als „Philosoph des Konkreten“ in die Geistesgeschichte eingegangen ist. Ja, das Konkrete, das konkrete Wirken Gottes, das konkrete Sich-hinein-begeben in die Geschichte, Gottes Inkarnation in Jesus war jene geistig-geistliche Perspektive, die Henrici zeitlebens inspirierte. Dieser Gott, dessen Geist Materie annahm und somit die unendliche Distanz zu uns Menschen aufhob, war jener, von dem sich der römische Philosoph und der schweizerische Weihbischof führen ließ.

Vor diesem Horizont war Henrici ein Ausnahmetalent: Intellektuell, menschlich und spirituell. Das Spiel von Nähe und Distanz zwischen ihm und dem göttlichen Geist ist nun ein anderes geworden. Am 6. Juni verstarb Peter Henrici in der Schweiz.

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Un commento

  1. Giovanni Ruggeri 14 giugno 2023

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