Ricordo di J. B. Metz

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Un ricordo cordiale di Francesco Strazzari della persona e della produzione teologica di J. B. Metz e della sua “ecumene della compassione”.

Risale alla metà degli anni ’70 il mio approccio alla riflessione teologica di Metz, quando lo scelsi per la mia tesi in filosofia all’università di Padova e dovetti far fronte all’indifferenza di Marino Gentile, che, quando la proposi, rimase sbigottito. Gli dissi che Metz era stato discepolo del grande Karl Rahner, di cui il filosofo padovano conosceva qualcosa. Se non altro, ne aveva sentito parlare forse dal teologo Sartori, di cui era amico.

L’idea di una tesi su Metz passò e mi misi a studiarlo e a frequentarlo. Uomo di notevole carica umana, di sorprendente bonarietà, di straordinaria effervescenza. Amava la compagnia e le risate, attorniato sempre da gruppi di giovani. Era bavarese tutto d’un pezzo.

Eppure, già allora il teologo tedesco mi dava l’impressione di una certa inquietudine, di non so che di velato, di uno spirito sorprendentemente problematico. Lo appassionava la teodicea, cioè lo studio su Dio e mi diceva che le domande su Dio sono tante; che la teologia non doveva avere paura di porre domande.

In una conversazione, mi parlò anche della sua scelta di fare il teologo, dal punto di vista del suo itinerario teologico. A distanza di anni, Metz ritornò a parlarne in un simposio organizzato da Moltmann nel 1996 a Tubinga, al quale parteciparono nove famosi teologi. Tutti dovevano rispondere all’unica domanda: «Come sono cambiato»?

Metz parlò di ciò in cui non era cambiato. Non era infatti cambiato il riferimento a un episodio tragico della sua vita, che illuminò e sorresse la sua ricerca teologica, quando, verso la fine della seconda guerra mondiale, arrivato al fronte, retrocesso al di qua del Reno, vide un centinaio di giovani morti, travolti da un attacco combinato di bombe e carri armati.

Crollarono i suoi sogni. Come si può parlare di Dio di fronte a giovani con i quali aveva condiviso paure infantili e risate? Fin dall’inizio della sua ricerca teologica, scrutò le categorie della memoria, della passione e della sofferenza in riferimento a Dio.

Lo tormentavano la sofferenza del mondo e l’interrogativo: «Dio, dov’eri ad Auschwitz?». La sua “teologia politica” non era che un «parlare di Dio nella “conversio ad passionem”».

Metz era arrivato alla teologia politica muovendo dalla teologia trascendentale del suo grande maestro K. Rahner. Dovette sostenere una marea di critiche. Il dibattito fu aspro e polemico fino alla pubblicazione del volume: La fede, nella storia e nella società (1977), attaccato da Ratzinger in modo virulento.

Volendo rendersi conto di persona del mondo della sofferenza, visitò le comunità di base dell’America Latina. Rimase scosso dal lavoro “dal basso” di amici e colleghi teologi. Scrisse un diario visitando le Ande.

Ritornò con la volontà ferrea e ostinata di porre alla teologia le domande più crude e inquietanti dell’esistenza umana sofferente e tribolata. La sofferenza divenne, nella sua appassionata ricerca, la categoria di base del discorso cristiano su Dio. Disse, nell’intervento al simposio di Tubinga, riferendosi al maestro che gli aveva messo sotto gli occhi e nel cuore «il muto sospiro sommesso della creatura, come un muto grido di richiesta di luce dinanzi al volto oscuro di Dio».

Nel luglio ’99 mi mandò un bellissimo testo sull’«ecumene della compassione». Muovendo dalla costatazione che tutte le grandi religioni dell’umanità hanno come interesse centrale una mistica della sofferenza, vedeva in questo la base di un’alleanza tra le religioni, volta a promuovere la compassione sociale e politica nel mondo per un’opposizione comune alle cause della sofferenza ingiusta e innocente. Questa “ecumene della compassione” non rappresenterebbe soltanto un evento religioso, ma sarebbe anche un «evento politico». Era la sua “utopia”.

Johann Baptist Metz – cf. SettimanaNews
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